Vi trascrivo l’intervento di mons. Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano, al convegno svoltosi in Roma dal 9 all’11-2-12 sul tema “Gesù nostro contemporaneo”
Mario Ardigò – AC San Clemente Papa – Roma – Montesacro, Valli
Mons Ignazio Sanna – “Gesù e i poveri” – intervento del 10-2-12 al convegno “Gesù nostro contemporaneo.
Gesù e i poveri
Conversazione con Armand Puig Tarrech e Cariosa Kilcommons
(Roma, Convegno Gesù nostro contemporaneo, 10 febbraio 2012)
Il titolo del mio intervento è: “Gesù e i poveri”. Poteva essere: “Gesù e il povero”, oppure “Gesù e la povertà”. In questo caso, però, il “povero” e la “povertà” sarebbero solo una categoria sociologica o culturale. Parlare di poveri, invece, significa parlare di persone concrete che vivono negli ambienti più diversi ed affrontano le difficoltà più disperate. Mentre Gesù è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre, come ci dice la lettera agli Ebrei, i poveri non sono sempre gli stessi. I poveri che chiedono l’elemosina a Lima non sono quelli che dormono alla stazione di Milano. I poveri che scontano la pena nelle carceri non sono i nuovi poveri divorziati e separati, che dormono nelle macchine o nelle case dei vecchi genitori. E’ necessario allora chiarire anzitutto il concetto di “povertà” e di “poveri”. Per questo chiarimento ritengo di fondamentale importanza il documento di Medellin (Colombia), dell’Assemblea dei vescovi latino-americani (1968) (1).
Il documento di Medellin presenta tre nozioni di povertà. La prima è quella che si chiama povertà reale e rappresenta una situazione di marginalità, di esclusione, che non comprende il solo aspetto economico. Nella prospettiva biblica, il povero è una persona insignificante, che non conta, non ha alcun peso nella società. L’insignificanza può essere causata da diversi fattori: problemi di carattere economico, per mancanza di mezzi; di carattere culturale, per il colore della pelle, la difficoltà a parlare bene la lingua del paese ospitante, l’appartenenza ad una cultura considerata inferiore; di carattere sociale, per essere donna. Il documento di Medellin chiama questa situazione di povertà disumana. Undici anni dopo, il documento di Puebla la definisce antievangelica.
In effetti, oggi l’ 82,7% del reddito mondiale è in mano al 20% della popolazione mondiale e i 2/3 dell’umanità si devono accontentare di gestire il 2% del reddito mondiale. Tutto questo rappresenta una vera e propria minaccia per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Un tale sbilanciamento della gestione delle ricchezze si ripercuote negativamente anche sui Paesi ricchi, generando disoccupazione, “nuove povertà” che riguardano l’essere più che l’avere, conflitti, immigrazioni di massa, nuove forme di schiavitù, di cui la prostituzione è un segno eclatante.
La seconda è la povertà spirituale. Essa è sinonimo di infanzia spirituale. Consiste fondamentalmente nella capacità di porre la propria vita nelle mani di Dio, di fare sempre e in tutte le circostanze la volontà del Padre, sull’esempio di Gesù. Ovviamente, quando si parla di infanzia spirituale si intende il termine infanzia nel suo significato traslato di stagione dell’anima, indipendente dalla stagione anagrafica dell’organismo umano. In questo senso, una persona di 80
anni può essere adulta fisicamente e “piccola” spiritualmente. La povertà spirituale fa adottare un atteggiamento di umiltà, di dipendenza. Nella storia della spiritualità è ben nota la “piccola via” di Teresa di Lisieux, che consiste nel porre la propria vita nelle mani di Dio. Così ella scrive al riguardo: "La santità non consiste in tale o tal'altra pratica, bensì consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino all'impudenza nella sua bontà di Padre… Quello che piace al buon Dio nella mia anima è il vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia… Non temere: più sarai povero, e più sarai amato da Gesù!". In ultima analisi, povertà reale è uguale a insignificanza sociale, mentre povertà spirituale significa fiducia totale in Dio e nella sua provvidenza; significa sopra tutto porre il cuore nel tesoro vero, secondo l’indicazione del messaggio evangelico.
La terza è la povertà come scelta di vita. Il padre del monachesimo occidentale, S. Benedetto, nella sua Regola scrive: "Nel monastero il vizio della proprietà deve essere assolutamente estirpato fin dalle radici. Tutto sia in comune a tutti, come dice la Scrittura, e nessuno dica o consideri sua proprietà qualsiasi cosa”. Anche senza diventare tutti monaci benedettini, non è molto difficile constatare che c'è una povertà subìta, che spesso è generata dalle ingiustizie degli uomini e va lottata, perché non rende felice nessuno. E c'è una povertà liberamente scelta, che rende beati e costituisce la maniera migliore per combattere la prima forma di povertà. Questa è la virtù della povertà evangelica, praticata da Gesù e rimasta nella Chiesa come un segno eloquente della sua presenza in mezzo a noi. S. Francesco d' Assisi l'ha vissuta, anzi l'ha "sposata", come fonte di liberazione, di pace, di perfetta letizia e di fraternità. Un cristiano sceglie liberamente di essere
solidale con i poveri e di vivere in povertà. Una simile scelta è possibile ed è anche giustificata e motivata. Essere solidali con i poveri, tuttavia, non vuol dire amare la povertà per la povertà. La povertà non va mai idealizzata. Essa va piuttosto combattuta. In quanto tale, la povertà è sempre un male da combattere ed eliminare. Talvolta si pensa di essere solidali con i poveri divenendo la loro voce, con la nobile intenzione di dare voce a chi non ha voce. Ma questo non basta. Bisogna fare sì che i poveri stessi abbiano voce, non che noi siamo la loro voce. Essi devono avere voce e diventare i protagonisti del proprio destino.
Alla luce di questa descrizione delle diverse forme di povertà, ora, ci si può chiedere in che senso si debba parlare di Gesù e i poveri. Diciamo subito che la scelta di fondo di Gesù nei confronti della povertà la troviamo nella sua risposta a Satana, alla fine dei quaranta giorni trascorsi nel deserto:
“Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4).
In base a questa scelta di fondo, Gesù invita i cristiani a chiedere al Padre celeste ogni giorno solo il pane quotidiano (Mt 6, 11) e a non affannarci di quello che mangeremo o indosseremo, dal momento che il Padre nostro conosce ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6, 25-34).
Dal punto di vista sociale, Gesù era figlio di un artigiano, e, quindi, non era né ricco né poverissimo. Si può dire, perciò, che Gesù sceglie liberamente di vivere da povero. Nella sua vita pubblica egli si adatta allo stile di vita dei “rabbì”, che vivevano dell’ospitalità delle persone simpatizzanti, come viene attestato da diversi passi evangelici (cfr. Lc 8,3; 10, 38).
Sul piano sapienziale, Gesù predica che i beni materiali sono effimeri, danno sicurezze illusorie, schiavizzano il cuore dell’uomo (Mt 6, 24; 13, 22; Lc 12, 15-21). Sul piano profetico, Gesù rivolge dei richiami molto forti ai benestanti: “Guai a voi, ricchi… (Lc 6, 24-26). In questa linea si comprenderanno, in seguito, le invettive di Giacomo contro i ricchi latifondisti (Gc 5, 1-6) e tutte le prese di posizione dell’apostolo Paolo nei confronti del valore effimero dei beni di questo mondo (1Cor 7,30).
In sintesi, si può dire che in Gesù non c’è una condanna della ricchezza in se stessa e un’esaltazione della povertà economica, la quale, in sé, non può essere considerata un bene. Gesù, però, dice chiaramente che la ricchezza fine a se stessa è idolatria; la ricchezza serve solo per il giusto sostentamento. Proprio per questo motivo, al giovane ricco egli chiede di vendere tutto quello che ha e di darlo ai poveri, prima di porsi alla sua sequela (Mt 19, 21). In ultima analisi, non si tratta della semplice rinuncia ai beni di questo mondo. Questa la fanno anche i filosofi stoici o i maestri spirituali delle religioni orientali: essi rinunciano ai beni per non essere infastiditi dalle cose materiali. Il Vangelo non disprezza la ricchezza in quanto ricchezza, ma la ricchezza fine a stessa, ossia la pura accumulazione di beni, che non ha altra giustificazione se non quella dell’accumulazione stessa. Per questo, il Vangelo propone di usare i beni terreni come segno di amore gratuito, come strumento di condivisione. I beni materiali, infatti, possono occupare il cuore
dell’uomo e diventare l’idolo che prende il posto di Dio (Mt 6, 24). Per seguire Gesù, bisogna imitare Lui, l'unico “buono”, che condivide i suoi beni con tutti, a partire dai bisognosi. Gesù riconosce come figli di Dio e suoi fratelli coloro che hanno compiuto anche un semplice gesto di condivisione e di accoglienza: dar da mangiare, dar da bere, visitare il malato, accogliere il pellegrino. Sono gesti di amore ordinario, feriale, che non hanno nulla di eroico. Sono però gesti che ci permettono di incontrare e amare Gesù in persona, il quale si identifica col povero: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me” (Mt 25, 40).
A proposito di incontrare Gesù nei poveri, il ministro pakistano delle minoranze Shahbatz Bhatti, assassinato nel marzo del 2011, ha scritto nel suo testamento spirituale: “I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani.
Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna”.
Dopo questa indicazione generale, possiamo prendere in considerazione un problema concreto piuttosto attuale e domandarci che senso abbia parlare di “opzione preferenziale per i poveri”, così come l’ha teorizzata a suo tempo la teologia della liberazione. A mio parere, ha senso parlare ancora di opzione preferenziale per i poveri a condizione che si precisi il suo vero significato, valido anche fuori della realtà latinoamericana, all’interno della quale essa è stata elaborata. E’ opportuno precisare, infatti, che l’opzione preferenziale significa anzitutto che la solidarietà per i poveri è la “prima” di altre forme di solidarietà. Ma la prima, in questo caso, è un numero ordinale, che, come tale, implica che ci sia una “seconda” e una “terza” forma di solidarietà, e così via. Se così non fosse, si dovrebbe dire semplicemente “una”. Prima è la prima di una serie. Una è semplicemente una e basta. Se l’opzione preferenziale per i poveri viene intesa in questo modo è in pieno accordo con il dato fondamentale del messaggio biblico dell’universalità dell’amore di Dio. E’ vero che Dio ama tutti senza distinzione e senza preferenza; che Dio è creatore e salvatore di tutti. Ma è anche vero che l’amore universale di Dio ha delle priorità. Prima di tutti, infatti, vengono i deboli, i
maltrattati, gli esclusi, gli oppressi, gli indifesi; in una parola, i poveri reali. Ce lo ricorda il profeta Isaia quando descrive la missione del Salvatore dell’umanità: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri” (Is 61, 1); ce lo ripete il cantico che Maria di Nazaret ha donato alla Chiesa: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1, 51-53).
Quindi, non esiste contraddizione tra opzione preferenziale per i poveri e universalità dell’amore divino, oppure, tra amore di Dio e amore del prossimo, come, invece, risulta dalla confessione del povero prete, protagonista del film di Ermanno Olmi Il villaggio di cartone: “Mi sono fatto prete, per fare il bene. Per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede”. Il metodo cattolico è di inclusione, non di esclusione; si realizza con l’et-et non con l’aut-aut. C’è di sicuro, e ci può essere tensione tra le due istanze. Ma questa tensione è come quella che esiste tra la contemplazione e l’azione, tra la preghiera e l’apostolato, e, quindi, non si può parlare di contraddizione. Nel nostro caso, si può parlare di tensione, nel senso che una dimensione esige l’altra. Benedetto XVI, il 13 maggio 2007, nel discorso inaugurale ad Aparecida, disse: “Possiamo ancora farci un'altra domanda: Che cosa ci dà la fede in questo Dio? La prima risposta è: ci dà una famiglia, la famiglia universale di Dio nella Chiesa cattolica. La fede ci libera dall'isolamento dell'io, perché ci porta alla comunione: l'incontro con Dio è, in sé stesso e come tale, incontro con i fratelli, un atto di convocazione, di unificazione, di responsabilità verso l'altro e verso gli altri. In questo senso, l'opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà (cfr 2Cor 8, 9)”.
Nella Lectio divina su At 20,17-38 (il discorso di Mileto) nell’incontro con i parroci e i sacerdoti della diocesi di Roma, l’11 marzo 2011, il pontefice ripeté: “Alla fine appare un elemento importante della Chiesa, dell’essere cristiani. "In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: ‘Si è più beati nel dare che nel ricevere’" (cfr v. 35). L’opzione preferenziale per i poveri, l’amore per i deboli è fondamentale per la Chiesa, è fondamentale per il servizio di ciascuno di noi: essere attenti con grande amore per i deboli, anche se forse non sono simpatici, sono difficili. Ma essi aspettano la nostra carità, il nostro amore, e Dio aspetta questo nostro amore. In comunione con Cristo siamo chiamati a soccorrere con il nostro amore, con i nostri fatti, quelli che sono i deboli”.
Nel messaggio evangelico, riproposto dal magistero di Benedetto XVI, dunque, l’opzione preferenziale per i poveri non è una categoria sociologica, classista, ma una testimonianza di amore cristiano, con un chiaro fondamento teocentrico e cristologico. Proprio il fondamento cristologico, con al centro il mistero dell’Incarnazione, è alla base della valenza umana del messaggio del vangelo, inclusa l’attenzione per tutti i poveri e tutti coloro che attendono di essere salvati. Il
fondamento cristologico dell’attenzione per i poveri traspare dal modo stesso con cui Gesù si rapporta alle persone: usa delicatezza sia verso i bambini che verso l’emorroissa; mostra di essere capace di cambiare modo di vedere di fronte all’insistenza della donna cananea; si serve di immagini e metafore per parlare del Regno, e tra queste ricorre all’immagine del banchetto, che altro non è se non un modo pratico per invitare alla fraternità. Un modo del tutto particolare dell’attenzione di Gesù per i poveri, poi, è senz’altro il miracolo dei pani. Il primo miracolo dei pani, chiamato tradizionalmente “la moltiplicazione dei pani”, è riportato in termini uguali sia dai sinottici, sia da Giovanni; è l’unico miracolo che Giovanni condivide con i Sinottici. Matteo e Marco riportano anche un secondo miracolo, per cui si raggiunge il numero totale di 6 racconti di miracolo dei pani. In realtà, nel racconto di questo miracolo, nessuno degli evangelisti parla di moltiplicazione dei cinque pani e due pesci. Il vero significato del gesto che Gesù suggerisce ai discepoli, perciò, è quello della condivisione. Gesù insegna a condividere le cose che si posseggono, soprattutto a condividere il poco, perché cinque pani e due pesci sono poco; nell’episodio evangelico, il poco è condiviso con una moltitudine. Il fatto che il miracolo dei pani sia l’unico racconto evangelico che ritorna 6 volte, secondo Gustavo Gutierrez, da cui attingiamo le nostre riflessioni, sta ad indicare che i discepoli rimasero molto impressionati dal gesto di Gesù, e si resero conto che si trattava di qualcosa di fondamentale per una retta concezione del Regno di Dio. Sotto questo punto di vista, si può veramente affermare che il vangelo è un vangelo di liberazione perché vangelo di umanizzazione. Chi segue Cristo, infatti, l'uomo perfetto, scrive la Gaudium et Spes, si fa lui pure più uomo (GS,41). Il contributo della fede cristiana a far diventare l'uomo più uomo, ovviamente, non va inteso nel senso che la fede cristiana dia qualcosa di più o di diverso alla natura umana rispetto a quanto le possano dare altre istanze religiose o culturali o filosofiche. Il farsi più uomo va riferito al contributo originale che la fede cristiana può dare perché l'uomo sia uomo, sia, cioè, quello che è e che deve essere. In altri termini, il più non si riferisce alla natura umana, come oggetto da umanizzare di più, ma alla fede cristiana come soggetto che umanizza di più, perché parte dall'evento storico dell'umanità pienamente realizzata di Cristo.
+Ignazio Sanna
Arcivescovo di Oristano
(1)
La II Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano si celebrò nella città di Medellín (Colombia) nel 1968 (26 agosto-6 settembre).