Ateismo nel cristianesimo? La mia esperienza
Mi capita spesso di parlare delle cose della mia fede religiosa tra persone che hanno perso dimestichezza con esse. Non mi faccio certo scoraggiare dal fatto che si dicano non credenti. Come cristiano sono stato mandato in mezzo a loro e vi rimango. Cerco innanzi tutto di utilizzare un lessico comune: la sofisticata terminologia teologica, familiare ad esempio agli oranti del rosario, è un ostacolo molto serio per chi non ha avuto o ha perso le chiavi interpretative per intenderne il corretto senso. Poi propongo la mia esperienza personale di fede, convinto come sono che il mio principale contributo all’azione missionaria della Chiesa sia appunto proporla agli altri, come quando, da scout, facevo il “fuoco” partendo da pochi rametti accesi. Essa ha resistito a molte dure prove, anche se costituisce una mia personale interpretazione del fatto religioso. Dipende certamente dagli insegnamenti ricevuti, ma vi ho messo anche molto di mio. In questo senso, adottando un’espressione che lo storico Pietro Scoppola ha attribuito a se stesso nel libro che ho appena recensito, sono diventato effettivamente (me ne rendo conto) “un cattolico a modo mio”. Conscio di questo, nel riferirne per iscritto mi metto in questione. Non pretendo di proporre la verità. Accetto in questo l’autorità della Chiesa, che mi è stata ed è madre e maestra. Accetto di poter essere corretto. Metto anche in guardia i lettori: verifichino criticamente se ciò che scrivo sia conforme alla nostra fede comune. Essa è la perla preziosa alla quale mai vorrei rinunciare.
Di seguito vi propongo alcune riflessioni che feci, rivolgendomi a un diverso uditorio, nell’agosto del 2009. Riguardano quello che, con il filosofo Ernst Bloch, viene definito paradossalmente ateismo nel cristianesimo, per dire che la fede cristiana si distanzia notevolmente da diverse altre dell’antichità e dell’era contemporanea. Il mio discorso originò dall’intervento di altra persona, che non nomino per ragioni di tutela della riservatezza personale, in merito alla notizia che la musica era stata inserita tra le materie che, come il frequentare le lezioni di religione cattolica, davano diritto a guadagnare crediti formativi nella scuola pubblica
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(agosto 2009)
Quella di inserire la musica tra le materie che, come l’insegnamento della religione, dà occasione di guadagnare crediti formativi nella scuola pubblica è ottima. E aggiungerei anche il cinema. Ho imparato moltissimo dai film e su ogni questione la prima cosa che mi viene in mente per inquadrare il problema è proprio un film.
Nel suo intervento [X Y] fa riferimento all’universalità della religione cattolica e certamente la musica ha questa caratteristica più della fede cattolica.Ma questo mi dà lo spunto per fare un’osservazione che forse vi sorprenderà, ma che può fornire un elemento per capire per quale motivo quando si discute di religione tra non credenti e credenti cristiani sembra che si parlino lingue differenti. I non credenti partono sempre con il problema dell’esistenza o non esistenza di Dio. Ma questa non è una questione centrale nella religione cristiana, almeno nella versione cattolica e in quelle di diverse altre confessioni che conosco un po’. Certo la teologia se ne occupa, per carità, ma il problema dell’esistenza di Dio è essenzialmente filosofico. Aveva molta importanza quando non erano ancora stati stabiliti confini chiari tra teologia e filosofia. Nella religione cristiana è invece centrale il tema della conversione, ma non intesa come passaggio da uno stato in cui non si è convinti dell’esistenza di Dio ad uno in cui lo si è, ma come passaggio da una vita ingiusta a una vita dominata dall’idea di giustizia. Il “motore” della conversione è la compassione per il sofferente. Questo spiega la reale universalità di questa esperienza religiosa, nel senso che essa, come la musica, può coinvolgere al di là di ogni opinione filosofica e appartenenza culturale. E illumina anche la strada per arrivare al cuore dei credenti.
Vedete, un credente di solito non è un deficiente. Lo vede bene che Dio “non c’è”. Non si vede, non parla, non opera. Dio nessuno l’ha mai visto, sta addirittura scritto. L’ingiusto e i violenti vincono, il giusto perde. “Dov’è il tuo dio?”, lo scherniscono. Chi anela la giustizia, come la cerva il corso d’acqua, viene nutrito di pane e lacrime. Tutti insieme, quegli altri, gli si scagliano contro, come contro un muro cadente, come contro un recinto che crolla, per abbatterlo. E lui si sente come in terra straniera, preda di spade inique. E’ appunto da queste tenebre che nasce la rivolta.
L’altro giorno ho visto in televisione un’intervista a Mino Martinazzoli che ricordava come i partigiani cattolici definissero se stessi “ribelli”. La maggior parte di loro infatti scese in campo in armi non tanto in vista della realizzazione di uno stato nuovo, come succedeva in campo comunista, ma come atto di rivolta contro l’ingiustizia del servaggio nazifascista. Ricordava Ermanno Gorrieri, nella medesima trasmissione, che, poi, siccome in campo comunista si parlava tanto del “dopo”, anche i cattolici cominciarono a ragionarci su. Ho letto che Giuseppe Dossetti, partigiano in Emilia, disse che dai comunisti aveva imparato a “guardare lontano”. E, insomma, i cattolici che combatterono nella Resistenza maturarono intensamente il rifiuto della violenza, sentita come atto di ingiustizia, e quindi rifiutarono anche quella che si chiedeva loro per edificare il comunismo. In quella stessa trasmissione ne ha parlato Adriano Ossicini: può accadere di dover uccidere, ha detto, ma si deve vivere questa esperienza senza alcun orgoglio, anzi come una colpa. Questo spiega, ad esempio, perché a Reggio Emilia, don Orlandini poté essere il capo di una brigata partigiana, le “Fiamme Verdi”, e poi tranquillamente tornare a fare il parroco, a guerra finita, senza vedere alcuna contraddizione tra il suo impegno civile e quello religioso.
Nella polemica secolare con i riformati, grazia od opere, ora conclusa dopo la dichiarazione congiunta di Ausburg del 1999 sulla dottrina della giustificazione firmata dai rappresentanti cattolici e luterani, si è perso molto dell’esperienza religiosa viva. Si dice di solito “la fede è dono” e in quell’espressione c’è l’eco di quella guerra religiosa. In realtà l’esperienza religiosa profonda è una conquista faticosa e personale in cui più si avanza più si deve far a meno di tutte le certezze e di tutte le immagini rassicuranti che ci si era creati. E’ stata descritta come una notte oscura. Nel film “Il Settimo sigillo” è descritta come una voce che grida nella notte, e nessuno risponde. “Se dovessi scegliere tra la verità e Dio, che cosa faresti?”, viene chiesto, durante la Cena pasquale, al capofamiglia rabbino nel film “Crimini e misfatti” di Allen: “sceglierei sempre Dio”, viene risposto. Mi ha molto colpito questa sequenza, perché descrive bene la mia condizione di credente.
Oggi in campo cattolico l’etica, può sembrare invece il contrario, non è molto considerata. E’ una reazione a certe forme religiose del passato, centrate soprattutto sui temi della sessualità. Si punta molto sul sentimento, sull’emotività. Ma c’è anche l’ingenua fiducia in una ragione vista come motore dell’unificazione delle varie vedute, invece che come strumento per tentare di illuminare una realtà molto complessa. Invece la rivolta etica è alla base dell’esperienza religiosa cristiana: dalla compassione alla rivolta, all’azione. Fu vera conversione, ad esempio, quella di Francesco d’Assisi, quando, di fronte al vescovo, si denudò, rinunciando alla sua precedente condizione sociale e a tutti i suoi vantaggi. Non è tanto l’etica che oggi, come sempre, “fa paura” in certe sedi, ma la rivolta. Ma senza di essa si rimane sempre ai margini e poi, spesso, si lascia e si sostiene di non “credere più”. Ma è quella vita “tiepida” che non soddisfa lo spirito.
L’altro tema centrale dell’esperienza religiosa cristiana è quindi poi l’azione, il movimento. L’adesione alla giustizia deve sempre essere seguita da una certa azione, quindi la rivolta deve manifestarsi chiaramente come tale. Ci sono sempre grandi acque da superare, moti di liberazione in cui cacciarsi, popoli da condurre in altri luoghi. La conversione cristiana non è quindi un moto interiore, di convinzione intellettuale, ma si esprime come azione che manifesta giustizia. Ecco perché la dimensione “pubblica” è essenziale e irrinunciabile per il cristiano. Lo si tenga sempre ben presente. Ma non perché si voglia, con questo, convincere gli altri che “Dio esiste”, ma per fare seguire, come dire, alla rivolta una rivoluzione, per affermare realmente la giustizia nel mondo in cui si vive. Anche se la ragione ti mormora che è tutto inutile, che le cose non cambieranno, che l’uomo rimarrà quello di sempre, che alla fine ti porteranno davanti ai tribunali e ti uccideranno.
L’azione di giustizia è sotto il completo dominio dell’uomo: direi che è la sola cosa ad esserlo. E’ quindi ciò che di più “laico” non si può. Se uno ha deciso di “essere” giusto, dipende solo da lui esserlo, anche se poi, nel tentativo di esserlo, ci rimette la vita. E’ questo il terreno comune con tutti i vari moti umanitari, anche senza fondamento religioso, che ci sono in giro. Senza che possa costituire il problema quello di concordare o non sull’esistenza di un dio.
Ricordo un romanzo di Graham Green, edito in Italia con il titolo “Un caso bruciato”. C’era questo tipo che aveva problemi sull’esistenza di Dio e voleva che glieli risolvessero dei frati che si occupavano della cura dei lebbrosi (un “caso bruciato” è appunto quando al lebbroso cominciano a distaccarsi parti del corpo, le dita ecc.). E gli viene sempre risposto “Non abbiamo tempo per questo”.
Mario Ardigò – AC San Clemente Papa – Roma, Montesacro, Valli