Il principio di sinodalità
Uno dei compiti più importanti nei prossimi
anni per chi voglia dare una mano nelle cose della Chiesa a livello delle
comunità di prossimità, come è una parrocchia, sarà quello di suggerire vie di
sinodalità e di impegnarsi a sperimentarle insieme ad altre persone di fede.
Io sono, appunto, una persona di fede che ha
una qualche esperienza nelle cose sociali e dunque può fare qualcosa in quel
campo. Ci tengo ad essere una persona colta, vale a dire che, anche al di fuori
del proprio campo di competenza specialistica, vuol rendere ragione delle
proprie idee, trasformando così le opinioni in argomenti, cercando
di informarsi e in questo modo di capire meglio.
La sinodalità ecclesiale è veramente poco
praticata a livello di base, ma in fondo anche agli altri livelli. Il tentativo
di una riforma sinodale che si è voluto tentare dall’ottobre del 2021 non ha
prodotto molto finora. Ma ci si è lavorato sopra, e questo è stato importante. E’
una cosa nuova: vivere la fede comunitariamente secondo il metodo sinodale. In
passato non ci si pensava e le persone più anziane sono state formate secondo
altri principi e, in particolare, secondo quello che chi non appartiene al
clero o ai religiosi deve solo obbedire e ha il solo diritto di essere ben
guidato. Nel clero e tra i religiosi una certa libertà di azione l’hanno però
solo i vescovi e, progressivamente, dai primi secoli la sinodalità è stata
sempre più limitata ad essi. Dal Cinquecento, nel confronto con la modernità, si
è poi avuto un marcato accentramento del potere ecclesiastico intorno al
ministero papale, divenuto un monarca assoluto.
Sono diventato un cristiano consapevole negli
anni ’70, al tempo delle scuole superiori: a quell’epoca la sinodalità
universale iniziò ad essere praticata, sulla base di quanto era emerso nel
corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), prima di essere compiutamente
teorizzata. Ci fu poi un brusco arresto di questo processo, verso la metà degli
anni ’80. Passarono gli anni e il discorso fu ripreso dal 2015 con un Papa che
ci fece sentire e vivere il calore delle esperienze sinodali latinoamericane,
un mondo veramente molto lontano dall’universo europeo, anche se laggiù le
culture e le lingue sono prevalentemente di origine europea.
Non si viene ancora formati alla sinodalità
ecclesiale. Non vi si è formati all’epoca della formazione religiosa di base e
non mi sembrano esservi formati i nostri preti, anche quelli giovani.
Qual è il principio fondamentale della
sinodalità ecclesiale? E’ questo: non solo da noi, non senza di noi.
Vi prego di prestare particolare attenzione a questa formula sintetica.
Noi e chi altro? In quel contesto “noi”
significa in primo luogo la gente di fronte a una persona che predica il
vangelo come ministero ecclesiale. Quest’ultima è una funzione molto
importante, divenuta addirittura costitutiva della Chiesa. Certe cose non basta
leggerle o sentirle leggere o dire, occorre che ci sia una persona che le viva e
sulla base di questa sua vita rinnovata ne parli in giro esortando alla
conversione. Questa funzione deve essere libera dalle contingenze sociali, in
particolare dalle questioni di potere, che sia esercitato democraticamente o
non. Si opera prendendo esempio dalla vita del Maestro e, allora, si può, e
addirittura si deve se il vangelo lo richiede, andare contro tutte le altre
persone, quindi anche contro le maggioranze. La predicazione non è
democratizzabile. E’ un ministero che, nella tradizione delle cristianità,
nessuna persona si dà da sola. Così avvenne alle origini, come narrato nelle
Scritture: si è sempre inviati. E il vangelo che si è mandati a far
conoscere è quello che risale al Maestro. Poi le varie Chiese cristiane hanno
declinato nei secoli la struttura di questo ministero, associandogli altre
funzioni ecclesiali, ma l’essenziale è quello. Sinodalità significa impegnarsi a non farne mai a meno. Non senza di noi, ma anche non solo
da noi.
Ma “noi” significa anche, in una
comunità, una parte di essa di fronte all’altra parte. Sinodalità,
allora, significa anche impegnarsi a non rompere mai l’amicizia
evangelica con le altre persone, quella che nel greco antico neotestamentario
viene definita agàpe, che è, appunto, pace amicale, solidale,
misericordiosa, sollecita, secondo quel comandamento nuovo che
è l’essenziale dei cristianesimi, comunque in concreto articolati. Quindi, in
nessun caso, “non solo da noi”.
Come si vede, al centro vi è il vangelo.
Capire di che cosa si tratta e viverlo è il compito principale di tutta
l’esistenza della persona cristiana. Io, ormai anziano, lo sto ancora scoprendo
con meraviglia.
Dunque, sinodalità significa, in ogni
cosa di Chiesa, non fare a meno del vangelo, quindi cercare il
predicatore e le altre persone per agire sempre in modo agapico, quindi senza fare a
meno di loro.
Significa che, alla fine, tutto deve essere
condiviso da tutte le persone e che, quindi, una decisione finale non possa essere presa se
tutte le persone di una comunità non sono d’accordo? Non necessariamente, anche
se, su certi argomenti, può essere stabilita una regola di questo tipo. Ad
esempio in quelli che chiamiamo dogmi e che nella nostra Chiesa sono
deliberati dal Papa o da un Concilio con il Papa. Una comunità, però, avrebbe
serie difficoltà a funzionare se tutto dovesse essere deciso in quel modo. Il
principio di sinodalità richiede almeno di ascoltare tutte le persone che chiedono di essere
ascoltate su un certo argomento che le riguarda. Nelle parrocchie ora funziona
un Consiglio pastorale che può fare in modo di svolgere questa funzione
di ascolto. Può, ad esempio, istituire delle commissioni per farlo su un certo tema. Ma è una pratica
poco seguita. Sarebbe una buona idea svilupparla. Praticando la sinodalità se
ne fa tirocinio e, facendolo, si risolvono i problemi che sorgono provando,
correggendosi e provando di nuovo. Nelle cose sociali questa è la via
migliore: imparare dalle concrete esperienze.
Il
diritto canonico prevede che, alla fine, sia il parroco a decidere nelle
cose della parrocchia. Questo potere è legato al ministero della predicazione
in senso lato. In realtà, al di fuori della materia sacramentale, e in
particolare nell’amministrazione dei beni parrocchiali e nella programmazione
di molte delle attività comunitarie, non vi sarebbe una necessità assoluta di
accentrare tutto nell’ufficio del parroco. Ma, comunque, allo stato è così.
Decidere da soli comporta di avere un punto
di vista limitato. Far precedere le decisioni da una qualche procedura sinodale
serve ad allargarlo e a produrre decisioni più efficaci.
Specialmente quando sorgono situazioni
conflittuali in una comunità è opportuno seguire procedure sinodali. Sono cose
che accadono, che sono sempre accadute e che sono accadute fin dai primi tempi,
come si legge nel Nuovo Testamento.
Un motivo di conflitto può essere, ad
esempio, l’utilizzo di una risorsa scarsa, una sala parrocchiale ambita da
diversi gruppi, o certi posti nella chiesa parrocchiale, che, ad esempio, sono
preferiti dalle persone anziane, ma che si vorrebbe riservare a quelle più
giovani in formazione nelle liturgie ad esse dedicate.
Nel momento in cui il conflitto si manifesta
qualcuno può decidere di risolverlo di testa sua. Può essere il parroco, che ne
ha l’autorità, o qualche altra persona
impegnata ad aiutarlo, in buona fede ma senza averne l’autorità.
Il parroco può decidere da solo, certo, ma
poi la gente accetterà la sua decisione? Un bel problema, che anche chi fa
politica conosce. L’autorità che è data sulla carta, nelle norme, deve essere
conquistata sul campo.
Chi altri decide da solo incontra gli stessi
problemi e può dover affrontare obiezioni anche più serie, perché le norme non
sono dalla sua parte.
Allora procedere sinodalmente può rivelarsi
una buona idea. Si cominci con l’ascoltare chi lo chiede e si discutano i
rispettivi argomenti in uno spirito evangelico, dell’agàpe (questo non
va mai dimenticato). Può darsi che il contrasto rimanga e allora, alla fine,
deciderà chi ha le norme dalla sua parte e ha l’autorità per farlo. Ma in gente
animata dal vangelo e con l’apporto di chi ha il ministero di presiederla per
diffondervi il vangelo non è detto che,
invece, non si riesca a raggiungere una decisione largamente condivisa. La più
larga condivisione ne favorirà l’accettazione da parte di tutte le persone,
anche di quelle eventualmente dissenzienti.
E’ importante che, nel contesto di una
procedura sinodale, venga assicurata l’effettiva presenza delle persone tra le
quali vi è quella diversità di vedute e
di interessi che ha portato al contrasto. Ad esempio, se il contrasto è tra i
genitori dei ragazzi in formazione e tra le persone anziane riguardo ai posti
nelle prime file della chiesa parrocchiale, bisognerebbe avere la presenza di
persone dei due gruppi. Lo statuto del
Consiglio pastorale parrocchiale nelle parrocchie romane, deliberato direttamente
da papa Francesco, all’epoca nostro vescovo, prevede procedure per legittimare
nel Consiglio persone rappresentanti di varie formazioni che animano la
collettività. Addirittura è prevista una procedura elettorale a cui possano
partecipare tutte le persone di fede della parrocchia. Si tratta di strumenti
che da noi non sono stati utilizzati, per quanto mi risulta. Ma si può procedere in altro modo costituendo una
commissione, alla quale secondo lo statuto può essere chiamato a partecipare anche chi
non è membro del Consiglio.
L’importante è allargare l’esame delle
questioni in modo da produrre decisioni il più possibile condivise. Questo poi
ne favorisce il recepimento in concreto. Ma, consentendo l’emergere di più
punti di vista, favorisce anche decisioni più appropriate. Infatti, come
scrisse la filosofa Hannah Arendt, in uno degli scritti pubblicati in italiano
con il titolo Che cosa è la politica?, pubblicato da Einaudi nel 1995 e
disponibile anche in formato digitale eBook e Kindle: «Qui si tratta piuttosto dell’esperienza per cui,
nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua
piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela
sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel
mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo così come è “realmente”, può
farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che
li separa e unisce, che si mostra ad ognuno in modo diverso, e dunque diviene
comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le
loro opinioni e prospettive. Soltanto nella libertà di dialogare il mondo
appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato.
Vivere in un mondo reale e parlarne insieme
agli altri sono in fondo una cosa sola, e ai greci la vita privata
appariva “idiota” perché le era negata quella pluralità del discorrere
di qualche cosa [che
si fa nella vita pubblica, nota mia], e con essa l’esperienza della realtà del mondo».
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli