NEL V ANNIVERSARIO DALL'INIZIO DELLA GUERRA MONDIALE
Venerdì, 1° settembre 1944
I. La difesa della civiltà cristiana
Oggi, al compiersi del quinto anno dallo scoppio della guerra, la umanità, mentre si volge indietro a rimirare il cammino di lagrime e di sangue affannosamente percorso in questo fosco quinquennio di storia, inorridisce dinanzi all’abisso di miseria, in cui lo spirito della violenza e il predominio della forza l’hanno precipitata, e pur senza lasciarsi abbattere dal ricordo del passato, ricerca ansiosamente le cause di una così funesta catastrofe spirituale e materiale, risoluta a prendere ogni più efficace rimedio contro il ripetersi, in altre forme, della immane tragedia.
Scossi dal cumulo di tante rovine, molti animi onesti si ridestano come da un sogno angoscioso, bramosi di trovare anche in altri campi — fino ad ora mutuamente separati e lontani — collaboratori, compagni di via e di lotta, per la grande opera di ricostruzione di un mondo scalzato nelle sue fondamenta e dilacerato nella sua più intima compagine.
Nulla certamente di più naturale, nulla di più opportuno, nulla — supposte le indispensabili cautele — di più doveroso!
Per quanti si gloriano del nome cristiano e professano la fede in Cristo con una condotta di vita inviolabilmente conforme alle sue leggi, questa disposizione e prontezza di animo a lavorare in comune, nello spirito di una vera solidarietà fraterna, non obbediscono soltanto all’obbligo morale del retto adempimento dei doveri civili; essa si eleva alla dignità di un postulato della coscienza sorretta e guidata dall’amore di Dio e del prossimo, cui aggiungono vigore i segni ammonitori del momento presente e la intensità dello sforzo richiesto per la salvezza dei popoli.
Il quadrante della storia segna oggi un’ora grave, decisiva, per tutta l’umanità.
Un mondo antico giace in frantumi. Veder sorgere al più presto da quelle rovine un nuovo mondo, più sano, giuridicamente meglio ordinato, più in armonia con le esigenze della natura umana: tale è l’anelito dei popoli martoriati.
Quali saranno gli architetti che disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio, quali i pensatori che daranno ad esso l’impronta definitiva?
Ai dolorosi e funesti errori del passato succederanno forse altri non meno deplorevoli, e il mondo oscillerà indefinitamente da un estremo all’altro? ovvero si arresterà il pendolo, grazie all’azione di saggi reggitori di popoli, su direzioni e soluzioni che non contraddicano al diritto divino e non contrastino con la coscienza umana e soprattutto cristiana?
Dalla risposta a questa domanda dipende la sorte della civiltà cristiana nell’Europa e nel mondo. Civiltà che, lungi dal portare ombra o pregiudizio a tutte le forme peculiari e così svariate di vivere civile nelle quali si manifesta l’indole propria di ciascun popolo, s’innesta in esse e vi ravviva i più alti princìpi etici: la legge morale scritta dal Creatore nei cuori degli uomini (Cf. Rom., 2, 15), il diritto di natura derivante da Dio, i diritti fondamentali e la intangibile dignità della persona umana; e per meglio piegare le volontà alla loro osservanza, infonde nei singoli uomini, in tutto il popolo e nella convivenza delle nazioni quelle energie superiori, che nessun potere umano vale anche soltanto lontanamente a conferire, mentre, a somiglianza delle forze della natura, preserva dai germi velenosi che minacciano l’ordine morale, di cui impedisce la rovina.
Così avviene che la civiltà cristiana, senza soffocare né indebolire gli elementi sani delle più varie culture native, nelle cose essenziali le armonizza, creando in tal guisa una larga unità di sentimenti e di norme morali — fondamento saldissimo di vera pace, di giustizia sociale e di amore fraterno fra tutti i membri della grande famiglia umana.
Gli ultimi secoli hanno veduto, con una di quelle evoluzioni piene di contraddizioni di cui la storia è scaglionata, da un lato, sistematicamente minati i fondamenti stessi della civiltà cristiana, dall’altro, invece, il patrimonio di essa diffondersi pur sempre attraverso tutti i popoli. L’Europa e gli altri continenti vivono ancora, in diverso grado, delle forze vitali e dei princìpi, che la eredità del pensiero cristiano ha loro trasmessi quasi come in una spirituale trasfusione di sangue.
Alcuni giungono a dimenticare questo prezioso patrimonio, a trascurarlo, perfino a ripudiarlo; ma il fatto di quella successione ereditaria rimane. Un figlio può ben rinnegare sua madre; egli non cessa perciò di essere a lei unito biologicamente e spiritualmente. Così anche i figli, allontanatisi e straniatisi dalla casa paterna, sentono pur sempre, talvolta inconsapevolmente, come voce del sangue, l’eco di quella eredità cristiana, che spesso nei propositi e nelle azioni li preserva dal lasciarsi interamente dominare e guidare dalle false idee, a cui essi, volutamente o di fatto, aderiscono.
La chiaroveggenza, la dedizione, il coraggio, il genio inventivo, il sentimento di carità fraterna di tutti gli spiriti retti ed onesti determineranno in quale misura e fino a qual grado sarà dato al pensiero cristiano di mantenere e di sorreggere l’opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica ed internazionale in un piano non contrastante col contenuto religioso e morale della civiltà cristiana.
Perciò a tutti i Nostri figli e figlie nel vasto mondo, come anche a coloro che, pur non appartenendo alla Chiesa, si sentono uniti con Noi in quest’ora di determinazioni forse irrevocabili, rivolgiamo l’urgente esortazione di ponderare la straordinaria gravità del momento e di considerare come, al di sopra di ogni collaborazione con altre divergenti tendenze ideologiche e forze sociali, suggerita talora da motivi puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio della civiltà cristiana e la sua strenua difesa contro le correnti atee ed anticristiane è la chiave di volta, che mai non può essere sacrificata, a nessun vantaggio transitorio, a nessuna mutevole combinazione.
Questo invito, che confidiamo troverà un’eco favorevole in milioni di anime sulla terra, tende principalmente ad una leale ed efficace collaborazione in tutti quei campi, nei quali la creazione di un più retto ordinamento giuridico si manifesta come particolarmente richiesta dalla stessa idea cristiana. Ciò vale in modo speciale per quel complesso di formidabili problemi, che riguardano la costituzione di un ordine economico e sociale più rispondente all’eterna legge divina e più conforme alla dignità umana. In esso il pensiero cristiano ravvisa come elemento sostanziale la elevazione del proletariato, la cui risoluta e generosa attuazione apparisce ad ogni vero seguace di Cristo non solo come un progresso terreno, ma anche come l’adempimento di un obbligo morale.
II. Alcuni aspetti della questione economica e sociale
Dopo anni amari d’indigenza, di restrizioni e soprattutto di angosciosa incertezza, gli uomini attendono, al termine della guerra, un profondo e definitivo miglioramento di così tristi condizioni.
Le promesse di uomini di Stato, le molteplici concezioni e proposte di dotti e di tecnici, hanno suscitato fra le vittime di un malsano ordinamento economico e sociale una illusoria aspettazione di palingenesi totale del mondo, un’esaltata speranza di un regno millenario di universale felicità.
Tale sentimento offre un terreno favorevole alla propaganda dei programmi più radicali, dispone gli spiriti a una ben comprensibile, ma irragionevole e ingiustificata impazienza, che nulla si ripromette da organiche riforme e tutto aspetta da sovvertimenti e da violenze.
Di fronte a queste tendenze estreme il cristiano, che seriamente medita sui bisogni e le miserie del suo tempo, rimane nella scelta dei rimedi fedele alle norme che l’esperienza, la sana ragione e l’etica sociale cristiana additano come i fondamenti e i princìpi di ogni giusta riforma.
Già il Nostro immortale Predecessore Leone XIII nella sua celebre Enciclica Rerum novarum enunciò il principio che per ogni retto ordine economico e sociale « deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata ».
Se è vero che la Chiesa ha sempre riconosciuto « il diritto naturale di proprietà e di trasmissione ereditaria dei propri beni » (Enciclica Quadragesimo anno), non è tuttavia men certo che questa proprietà privata è in particolar modo il frutto naturale del lavoro, il prodotto di una intensa attività dell’uomo, che l’acquista grazie alla sua energica volontà di assicurare e sviluppare con le sue forze l’esistenza propria e quella della sua famiglia, di creare a sé e ai suoi un campo di giusta libertà, non solo economica, ma anche politica, culturale e religiosa.
La coscienza cristiana non può ammettere come giusto un ordinamento sociale che o nega in massima o rende praticamente impossibile o vano il diritto naturale di proprietà, così sui beni di consumo come sui mezzi di produzione.
Ma essa non può nemmeno accettare quei sistemi, che riconoscono il diritto della proprietà privata secondo un concetto del tutto falso, e sono quindi in contrasto col vero e sano ordine sociale.
Perciò là dove, per esempio, il « capitalismo » si basa sopra tali erronee concezioni e si arroga sulla proprietà un diritto illimitato, senza alcuna subordinazione al bene comune, la Chiesa lo ha riprovato come contrario al diritto di natura.
Noi vediamo infatti la sempre crescente schiera dei lavoratori trovarsi sovente di fronte a quegli eccessivi concentramenti di beni economici che, nascosti spesso sotto forme anonime, riescono a sottrarsi ai loro doveri sociali e quasi mettono l’operaio nella impossibilità di formarsi una sua proprietà effettiva.
Vediamo la piccola e media proprietà scemare e svigorirsi nella vita sociale, serrata e costretta com’è ad una lotta difensiva sempre più dura e senza speranza di buon successo.
Vediamo, da un lato, le ingenti ricchezze dominare l’economia privata e pubblica, e spesso anche l’attività civile; dall’altro, la innumerevole moltitudine di coloro che, privi di ogni diretta o indiretta sicurezza della propria vita, non prendono più interesse ai veri ed alti valori dello spirito, si chiudono alle aspirazioni verso una genuina libertà, si gettano al servigio di qualsiasi partito politico, schiavi di chiunque prometta loro in qualche modo pane e tranquillità. E la esperienza ha dimostrato di quale tirannia in tali condizioni anche nel tempo presente sia capace la umanità.
Difendendo dunque il principio della proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine etico-sociale. Essa non intende già di sostenere puramente e semplicemente il presente stato di cose, come se vi vedesse la espressione della volontà divina, né di proteggere per principio il ricco e il plutocrate contro il povero e non abbiente: tutt’altro! Fin dalle origini, essa è stata la tutrice del debole oppresso contro la tirannia dei potenti e ha patrocinato sempre le giuste rivendicazioni di tutti i ceti dei lavoratori contro ogni iniquità. Ma la Chiesa mira piuttosto a far sì che l’istituto della proprietà privata sia tale quale deve essere secondo i disegni della sapienza divina e le disposizioni della natura: un elemento dell’ordine sociale, un necessario presupposto delle iniziative umane, un impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e trascendenti della vita, e quindi della libertà e della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che fin dal principio gli assegnò a sua utilità un dominio sulle cose materiali.
Togliete al lavoratore la speranza di acquistare qualche bene in proprietà personale; quale altro stimolo naturale potreste voi offrirgli per incitarlo a un lavoro intenso, al risparmio, alla sobrietà, mentre oggi non pochi uomini e popoli, avendo tutto perduto, nulla più hanno se non la loro capacità di lavoro? O si vuol forse perpetuare l’economia di guerra per la quale in alcuni Paesi il pubblico potere ha in mano tutti i mezzi di produzione e provvede per tutti e a tutto, ma con la sferza di una dura disciplina? Ovvero si vorrà soggiacere alla dittatura di un gruppo politico, che disporrà, come classe dominante, dei mezzi di produzione, ma insieme anche del pane, e quindi della volontà di lavoro dei singoli?
La politica sociale ed economica dell’avvenire, l’attività ordinatrice dello Stato, dei Comuni, degl’istituti professionali, non potranno conseguire durevolmente il loro alto fine, che è la vera fecondità della vita sociale e il normale rendimento della economia nazionale, se non rispettando e tutelando la funzione vitale della proprietà privata nel suo valore personale e sociale. Quando la distribuzione della proprietà è un ostacolo a questo fine — ciò che non necessariamente né sempre è originato dalla estensione del patrimonio privato —, lo Stato può nell’interesse comune intervenire per regolarne l’uso, od anche, se non si può equamente provvedere in altro modo, decretare la espropriazione, dando una conveniente indennità. Per lo stesso scopo la piccola e la media proprietà nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio e nell’industria debbono essere garantite e promosse; le unioni cooperative debbono assicurare loro i vantaggi della grande azienda; dove la grande azienda ancor oggi si manifesta maggiormente produttiva, deve essere offerta la possibilità di temperare il contratto di lavoro con un contratto di società (Cf. Enciclica Quadragesimo anno).
Né si dica che il progresso tecnico si oppone a tale regime e spinge nella sua corrente irresistibile tutta l’attività verso aziende ed organizzazioni gigantesche, di fronte alle quali un sistema sociale fondato sulla proprietà privata dei singoli deve ineluttabilmente crollare. No; il progresso tecnico non determina, come un fatto fatale e necessario, la vita economica. Esso si è fin troppo spesso docilmente chinato dinanzi alle esigenze dei calcoli egoistici avidi di accrescere indefinitamente i capitali; perché dunque non si piegherebbe anche dinanzi alla necessità di mantenere e di assicurare la proprietà privata di tutti, pietra angolare dell’ordine sociale? Anche il progresso tecnico, come fatto sociale, non deve prevalere al bene generale, ma essere invece a questo ordinato e subordinato.
Al termine di questa guerra, che ha sconvolto tutte le attività della vita umana e le ha lanciate verso nuovi sentieri, il problema della futura configurazione. dell’ordine sociale farà sorgere una lotta ardente fra le varie tendenze, in mezzo alla quale la concezione sociale cristiana ha l’ardua, ma anche nobile missione di mettere in evidenza e di mostrare teoricamente e praticamente ai seguaci di altre dottrine come in questo campo, così importante per il pacifico sviluppo della umana convivenza, i postulati della vera equità e i princìpi cristiani possono unirsi in uno stretto connubio generatore di salvezza e di bene per quanti sanno rinunziare ai pregiudizi e alle passioni e prestare orecchio agli insegnamenti della verità. Noi abbiamo fiducia che i Nostri fedeli figli e figlie del mondo cattolico, araldi della idea sociale cristiana, contribuiranno — anche a prezzo di notevoli rinunzie — all’avanzamento verso quella giustizia sociale, di cui debbono aver fame e sete tutti i veri discepoli di Cristo.
III. Pensieri di carità
L’esortazione alla vigilanza e alla prontezza di tutti i cristiani per gl’immani doveri di un avvenire, che sembra ormai prossimo, non deve farCi perdere di vista le acute angustie del presente. Né alcuno si meraviglierà se, pur abbracciando di eguale amore tutti i popoli della terra, la Nostra sollecitudine in questo campo e in questo momento si porta in una maniera speciale verso l’Italia e Roma.
Le dirette operazioni di guerra, che hanno sconvolto gran parte del suolo italico, sono ora lontane anche dalla Eterna Città. Ma le conseguenze dirette e indirette del conflitto sono ben lungi dall’esser cessate. L’Urbe, che Maria, « Salus populi romani », Madre del Divino Amore, protesse nell’ora del pericolo, non risuona più del rombo delle battaglie. Ma la lotta contro la miseria, contro la fame, la disoccupazione, il disagio economico, ha raggiunto in molte regioni d’Italia una estensione tale che richiede, massime in vista dell’inverno, un pronto ed efficace rimedio.
Nessuno ignora come di fatto nelle grandi guerre alle dure necessità di carattere militare si dia ordinariamente la precedenza sopra ogni diverso riguardo e considerazione. D’altra parte, chiunque non si lasci guidare da particolari tendenze, ma rifletta sulla imperiosa esigenza di provvedere insieme ai bisogni essenziali della vita civile, ammetterà e riconoscerà le funeste influenze e i danni che la sistematica requisizione, asportazione o distruzione di preziosi mezzi di trasporto hanno cagionato al rifornimento di viveri sufficienti e acquistabili a prezzo ragionevole. Ognuno altresì comprende come questo stato anormale, unito con la egualmente vasta distruzione, requisizione o asportazione di potenti mezzi di produzione, abbia provocato una paralisi nella vita economica, le cui ripercussioni materiali e spirituali sulla popolazione divengono ogni giorno più sintomatiche e minacciose.
Non sterili accuse porteranno rimedio a tanto male, ma la sincera e generosa collaborazione di quanti hanno possibilità e autorità per servire agli interessi del Paese. Non è forse desiderabile che cooperino al bene comune persone probe, oneste, sperimentate, franche e immuni da qualsiasi macchia di delitti o di reali abusi, anche se nel passato si trovarono in altro campo politico, il che spianerebbe altresì la via alla unione degli animi?
Nessun popolo, accasciato sotto il peso di sciagure fisiche e morali, può risollevarsi da solo, con le proprie forze, dalla sua prostrazione.
Ma d’altra parte nessun popolo, giustamente geloso del suo onore, si adatterebbe ad attendere il suo risorgimento unicamente dall’aiuto altrui, e non in pari tempo dallo sforzo della propria volontà e delle proprie energie.
Perciò Noi, conoscendo la profonda miseria in cui sono cadute estese regioni d’Italia, innanzi tutto ricordiamo a coloro, i quali nel Paese stesso posseggono ampie scorte e abbondante raccolto di viveri, l’obbligo di non sottrarli, per avidità di maggiori guadagni, a quelli che languiscono di fame, memori dei tremendi castighi dal Giudice eterno minacciati a chi è senza pietà per il fratello sofferente. Invochiamo poi dai popoli, la cui capacità economica non è stata sostanzialmente danneggiata dalla guerra, di porgere alla popolazione d’Italia, nei limiti del possibile e senza pregiudizio di quanto è dovuto anche ad altre Nazioni egualmente indigenti, quei soccorsi, di cui ha bisogno specialmente nel periodo iniziale della sua rinascita.
Di buon animo riconosciamo ciò che è stato fatto — e sappiamo che ancor più s’intende di fare — in tal senso dalle Potenze alleate, come altresì volentieri apprezziamo gli sforzi compiuti dalle Autorità italiane. Niuno più di Noi, — cui le cure dell’Apostolico Ministero mettono più facilmente in grado di conoscere i dolori dei poveri e degli oppressi, — sente nel cuore intima gratitudine verso quanti, in Italia e all’estero, — Governi, Episcopato, Clero, laici, — hanno cooperato e cooperano a così nobile scopo. Se purtroppo non Ci è stato fin qui possibile di ottenere l’uso di motovelieri o di altre navi per il trasporto di generi alimentari e per il ritorno di profughi alle loro terre, abbiamo tuttavia la fiducia di conseguire prossimamente altri mezzi per arrecare sollievo a numerose sventure. E come per il passato, così anche per il futuro serberemo profonda riconoscenza verso quanti Ci metteranno in condizione di attenuare la dolorosa sproporzione fra la esiguità delle Nostre proprie risorse e la grandezza incommensurabile dei più urgenti bisogni.
Noi salutiamo in questa prestazione di soccorsi da popolo a popolo, già iniziata durante la guerra e pur nei ristretti limiti che questa consente, il ridestarsi di un senso di generosità, non meno umanamente elevato che politicamente saggio; senso, che nel calore della lotta e nell’appassionata affermazione dei contrastanti interessi può bensì affievolirsi, ma non interamente estinguersi, e che, fondato com’è sulla natura stessa e sulla concezione cristiana della vita, dovrà poi tornare pienamente in onore, non appena la spada avrà compiuto la dura opera sua.
IV. Pensieri di pace
Nulla senza dubbio Noi più ardentemente desideriamo che di vedere quanto prima splendere il giorno in cui, cessato il fragore delle armi, saranno ridate a tanta parte della umanità torturata, e quasi all’estremo limite delle sue forze fisiche e morali, pace, sicurezza e prosperità.
Innumerevoli cuori sospirano questo giorno, come i naufraghi il sorgere della stella mattutina. Molti nondimeno avvertono fin da ora che il passaggio dalla tempesta violenta alla grande tranquillità della pace può essere ancora penoso ed amaro; comprendono che le tappe del cammino dalla cessazione delle ostilità allo stabilimento di condizioni normali di vita possono nascondere più gravi difficoltà che non si pensi. È perciò tanto più necessario che un forte sentimento di solidarietà risorga fra i popoli, al fine di rendere più rapido e duraturo il risanamento del mondo.
Già nel Nostro discorso natalizio del 1939 Noi auspicavamo la creazione di organizzazioni internazionali che, evitando le lacune e le deficienze del passato, fossero realmente atte a preservare la pace, secondo i princìpi della giustizia e della equità, contro ogni possibile minaccia per il futuro. Poiché oggi alla luce di tante terribili esperienze l’aspirazione verso un simile nuovo istituto universale di pace richiama sempre più l’attenzione e le cure degli uomini di Stato e dei popoli, Noi volentieri esprimiamo il Nostro compiacimento e formiamo l’augurio che la sua concreta attuazione corrisponda veramente nella più larga misura all’altezza del fine, che è il mantenimento, a vantaggio di tutti, della tranquillità e della sicurezza nel mondo.
Ma niuno forse tanto ansiosamente invoca la fine del conflitto e il rinascere della mutua concordia fra le Nazioni quanto i milioni di prigionieri e d’internati civili, costretti dalla guerra a mangiare il duro pane della cattività o del lavoro forzato in terra straniera. Il dolore per la protratta lontananza dalle madri, dalle spose, dai figli, per la lunga separazione da tutte le persone e le cose amate, li strugge e li consuma, e desta in loro un vivo senso di schianto e di abbandono, di cui può farsi una idea soltanto chi sappia penetrare nell’intima angoscia dei loro cuori. E poiché questa guerra, con ciò che ad essa è necessariamente o arbitrariamente connesso, ha condotto alla più ingente e tragica migrazione di popoli che la storia conosca, sarà opera di alta umanità, di chiaroveggente giustizia e di sapienza ordinatrice, se a questi infelici non si farà attendere oltre i limiti dello stretto necessario la già troppo a lungo ritardata liberazione.
Una tale risoluzione, che naturalmente non escluderebbe alcune cautele giudicate forse indispensabili, sarebbe per tanti miseri un primo raggio di sole nella oscurissima notte, il simbolico annunziatore di una nuova era, in cui con la crescente distensione degli animi tutte le Nazioni amanti della pace, grandi e piccole, potenti e deboli, vincitrici e vinte, avranno parte, non meno ai diritti e ai doveri, che ai benefici di una vera civiltà.
La spada può e talvolta, purtroppo, deve aprire la via verso la pace.
L’ombra della spada può gravare anche sul tragitto dalla cessazione delle ostilità alla conclusione formale della pace.
La minaccia della spada può apparire inevitabile, entro i limiti giuridicamente necessari e moralmente giustificabili, anche dopo la conclusione della pace, per tutelare l’osservanza dei giusti obblighi e prevenire tentativi di nuovi conflitti.
Ma l’anima di una pace degna di questo nome, il suo spirito vivificatore, non può essere che uno solo: una giustizia che con imparziale misura a tutti dà ciò che ad ognuno è dovuto e da tutti esige ciò a cui ognuno è obbligato, una giustizia che non dà tutto a tutti, ma a tutti dà amore e a nessuno fa torto, una giustizia che è figlia della verità e madre di sana libertà e di sicura grandezza.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1944 - 1° marzo 1945, pp. 121-132
Tipografia Poliglotta Vaticana