Il problema della
comunità catechizzante
Tra i principali problemi che oggi possiamo rilevare nella nostra
parrocchia vi è quello del quasi completo fallimento della catechesi
comunitaria per i giovani e gli adulti, che è monopolizzata da catechisti
provenienti dal Cammino Neocatecumenale
a cominciare dalla formazione dei ragazzi che hanno già ricevuto la
Prima comunione in avanti. Essa infatti sembra funzionare solo per le persone
già collegate a quel movimento. Poiché l’impostazione di questa catechesi, per
come ho potuto constatare al tempo in cui le mie figlie vi parteciparono, è
sostanzialmente quella neocatecumenale, questo fallimento riguarda
principalmente quel metodo. E’ un problema molto serio e di difficile soluzione
perché la gente che è attiva in parrocchia, nei vari servizi che essa esprime, appartiene quasi tutta a quel movimento,
si è formata in esso e vi ha fortissimi legami anche per gli orientamenti di
vita, ne condivide metodi e finalità ed è poco disposta a metterli in questione.
Per chi, come me, non appartiene al Cammino Neocatecumenale può essere
difficile capire bene in che cosa consista il metodo di quel movimento. Ma,
naturalmente, essendo vissuto tanti anni in una parrocchia che si è neocatecumenalizzata, con sacerdoti
formatisi in quel movimento, me ne sono fatta una certa idea e in diversi
precedenti interventi l’ho esposta.
I neocatecumenali spingono le persone a
entrare in piccoli gruppi, in neo-comunità,
sottoposti a un rigido controllo da parte di catechisti, i quali tendono ad
esercitare anche un ruolo vicino a quello di direzione spirituale, e in cui si
sviluppano, secondo la dinamica nota dei piccoli gruppi studiata dalle scienze
psicologiche a partire dalla metà del secolo scorso, relazioni personali sempre
più forti, al modo di una famiglia allargata, comprendenti anche una marcata
solidarietà economica. A questi piccoli gruppi, che non mi pare facciano vita
comune con gli altri gruppi dello stesso movimento rimanendo collegati con essi
solo attraverso i rispettivi catechisti, si propone un programma di
perfezionamento a gradi progressivi, progettato totalmente al di fuori dei
gruppi stessi, da un gruppo dirigente a livello internazionale, in particolare
centrato sulla realizzazione di famiglie molto numerose e gerarchicamente
sottoposte all’autorità paterna nelle quali trasmettere insieme la vita e la fede. Si
insiste molto, quanto ai contenuti, sulle questioni della sessualità, dando
molta importanza al quando, con chi e anche come fare l’amore, in particolare non
prima del matrimonio e al di fuori di ogni discorso di programmazione delle
nascite. Si suppone che, frequentando quei gruppi, le persone assimilino senza
resistenze questa impostazione di vita, che è una particolare interpretazione
della vita buona di fede, con significative
assonanze ma anche con divergenze rispetto al magistero. Per sostenere
emotivamente questo impegnativo cammino si è sviluppata anche una para-liturgia
molto caratteristica che viene vissuta, per ciò che so, in celebrazioni
riservate ai soli aderenti ai gruppi. Fondamentalmente si cerca di indurre
nelle persone che partecipano ai gruppi una sensazione di stato collettivo nascente, che è un potente fattore emotivo di
unificazione, per cui esse tendono a sentirsi prescelte, selezionate, e, in sostanza la parte
eletta di un popolo. A volte mi è capitato, ma da tempo non più, di vedere che
a Messa alcune persone rimanevano in piedi quando l’assemblea si sedeva. Mi
hanno spiegato che erano persone alzate, che avevano conseguito un certo
progresso nell’avanzamento spirituale. Tutto questo, secondo alcuni critici di
quel metodo, porta a un certo narcisismo.
Scrivono il politologo Marco Marzano e la sociologa Nadia Urbinati
in Missione impossibile - La riconquista
cattolica della sfera pubblica, Il Mulino, 2012, a pag. 45-46:
“Nel Cammino Neocatecumenale i tratti narcisistici sono tantissimi: ad
esempio, lo spazio enorme dato alla narrazione di ogni conversione, di ogni
singolo percorso di avvicinamento all’organizzazione e poi ai problemi della
vita quotidiana di ciascuno. Così, durante le messe o le liturgie della parola
infrasettimanali, si sentono i «fratelli» e le «sorelle»
del Cammino parlare diffusamente dei propri problemi personali: di un mutuo da
pagare, di un parente m alato, di una moglie distratta e fredda ecc. Anche il
testo biblico è letto in chiave narcisistica, cioè come metafora della propria
esistenza: ogni catecumenale ha avuto nella propria vita il suo “Egitto”,
ovvero la sua personale schiavitù, nei confronti del sesso, delle droga, del
gioco ecc.; i sacerdoti che si oppongono al Cammino sono «i
faraoni», mentre al centro dei famigerati «scrutini» c’è
l’esame della vita personale del convertito, analizzata fino all’ultimo
dettaglio. Anche nella spiritualità carismatica dilagano la soggettività e la
dimensione terapeutica: i rituali di guarigione hanno come oggetto la
liberazione dei partecipanti dai
problemi e dalle angosce che li hanno afflitti in un passato più o meno recente.
La preghiera spontanea si indirizza sempre verso obiettivi molto privati: la
redenzione di un adultero, la guarigione di un malato, la salute di un bambino.
Il «narcisismo sociale» è un elemento costitutivo della nostra vita sociale ed
è penetrato in profondità nella vita delle organizzazioni religiose. «Abbandonata
la speranza di migliorare la vita in modo significativo - scriveva Lash - la
gente si è convinta che quel che veramente conta è il miglioramento del proprio stato psichico».
L’appiattimento sul presente e su se stessi, sulla propria sopravvivenza
individuale, l’esaurirsi di ogni senso di continuità storica, la ricerca
ossessiva della pacificazione interiore sono i tratti caratterizzanti del
narcisismo di massa. La terapia occupa lo spazio un tempo assegnato all’escatologia:
il miglioramento continuo della propria vita e la guarigione delle proprie
ferite personali prendono il posto della vita eterna e della salvezza.”
Non ho mai partecipato alle
riunioni di un gruppo neocatecumenale, quindi non posso confermare per
esperienza personale le affermazioni di Marzano e Urbinati, comunque, da ciò
che ho capito osservando i neocatecumenali da fuori, vedo che tendono a
diffondere particolari ricette per migliorare la vita personale, tanto che
nelle testimonianze che annualmente vengono proclamate a Messa,
tutte sulla stessa falsariga, l’ingresso in una comunità neocatecumenale viene
presentato entusiasticamente come una rinascita.
Inoltre si sottolinea molto l’esigenza
di ripudiare tutto ciò che si è stati prima di quel momento considerandolo,
anche quando non era cattivo, di scarso e insufficiente valore. Come ho sentito
dire una volta da un neocatecumenale della parrocchia, si vuole demolire per
ricostruire (non so però se questo effettivamente corrisponda agli orientamenti
catechistici del movimento, sui quali ho poche fonti informative precise).
L’impostazione del metodo
neocatecumenale tende a creare gruppi molto caratterizzati non solo nei
confronti della società all’esterno della parrocchia, ma anche all’interno
della parrocchia stessa, rispetto agli altri fedeli.
Scrivono ancora Marzano e
Urbinati, nel libro che ho citato, a pag.41:
“Ogni movimento conduce un’esistenza
totalmente separata dagli altri ed ha
una spiritualità e una ritualità proprie, simboli e pratiche diverse. Se, per
fare un esempio, ad un ciellino capitasse in sorte di partecipare a una messa
neocatecumenale, penserebbe di essere
capitato in un’assemblea non cattolica. Le peculiarità di quella celebrazione
sono infatti numerose: si svolge il sabato sera alle 21, i fedeli si dispongono
a semicerchio intorno ad un grande tavolo sul quale campeggia una menorah ebraica;
l’ostia è una vera pagnotta di pane, spezzettata in piccole parti e distribuita
ai fedeli che la ingoiano tutti insieme bevendo poi a turno il vino consacrato
nel calice; l’omelia è seguita dalle “risonanze”, ovvero da pensieri dei fedeli
espressi in forma libera; anche le letture dei brani biblici e del Vangelo sono
commentate dai partecipanti e la fine del rito consiste in una sorta di «danza
rituale» attorno all’altare”.
Tuttavia non è la loro
paraliturgia che separa molto, per come mi appare, le comunità catecumenali, i
piccoli gruppi di perfezionamento neocatecumenali, dalla società intorno e
dalle altre realtà parrocchiali, e credo anzi che una certa creatività
liturgica sia in linea con gli orientamenti post-conciliari, ma piuttosto cinque
altri elementi veramente molto critici: un certo maschilismo, per cui all’uomo mi pare si voglia
riconoscere una specie di anacronistica specifica maggiore attitudine naturale
al comando nella famiglia e anche fuori di essa rispetto alla donna, un po’ al
modo di quella che si ritiene spetti ai maschi nella gerarchia del clero
cattolico; la corrispondente sottovalutazione dell’esigenza di promuovere,
sviluppandolo, il ruolo sociale della donna, vista ancora essenzialmente come
destinata a ruoli familiari, per la cura dei numerosi figli che si pensa di
dover generare come specifico impegno religioso; la penetrante intrusione nella
sessualità delle persone, pretendendo rigida conformità nel quando, come e con
chi fare l’amore; la scarsa considerazione per la libertà di coscienza e di
pensiero alla quale corrisponde un metodo molto rigido di utilizzo dei testi
sacri per la riflessione personale e gli orientamenti di vita, quindi di lectio divina, la spiritualità
sviluppata a partire dalla meditazione delle Scritture; e infine lo scarso interesse per la partecipazione
allo sviluppo democratico della società del nostro tempo, della quale non si fa
tirocinio comunitario. Questi aspetti
possono non creare problemi (fino a un certo punto però) se vissuti in un’ottica
di movimento, all’interno di un mondo particolare, di un settore del popolo di fede;
lo costituiscono se proposti a tutti, alla generalità dei fedeli. Se uno si sente
proporre come obbligatorie certe ricette di vita per rimanere in parrocchia
e non si sente di seguirle, si allontana.
Per uno, come me, che non
intende nel modo più assoluto aderire al metodo neocatecumenale, perché troppo
divergente con gli orientamenti spirituali in cui si è formato, in particolare
in quegli aspetti critici di cui dicevo,
è difficile approfondire ulteriormente la cosa, perché solo agli iniziati è consentita una partecipazione ai riti
sociali neocatecumenali. Un sacerdote della parrocchia potrebbe però avere il
desiderio e l’opportunità di farlo. Credo però che, difficilmente, senza essere
anche lui iniziato alla spiritualità e alla paraliturgia di quel movimento, potrebbe svolgervi il suo
ministero. Mi pare quindi che i neocatecumenali abbiano necessità di sacerdoti dedicati e che l’impegno del prete in
mezzo a loro sia veramente molto impegnativo
e coinvolgente. A volte, vedendo il particolare rapporto dei nostri preti
formatisi tra i neocatecumenali con le loro comunità di riferimento, ho anche provato
un sentimento di invidia. Perché il tempo di un prete è diventato risorsa rara
per la generalità dei fedeli e invece i neocatecumenali ne avevano in abbondanza,
ogni volta che volevano, ogni volta che ne sentivano l’esigenza. E i preti
trattavano quelle comunità un po’ come la pupilla dei loro occhi, per cui, confesso,
in certi momenti difficili della mia vita sono stato tentato dal provare ad
avvicinarmi. Ma l’educazione ricevuta mi ha poi sempre prevenuto. Avrei dovuto
rinunciare, per aderire, a troppe cose che ormai mi erano profondamente connaturate,
sostanzialmente a tutta una vita di fede.
Ora, bisogna considerare che, a
partire dal documento Il rinnovamento della catechesi, diffuso
nel 1971 dalla Conferenza Episcopale Italiana, il testo che viene anche
denominato Documento di base, si è data molta importanza alla dimensione
comunitaria della formazione alla fede, mentre in passato si riteneva che
questa attività fosse di stretta competenza dei preti e dei religiosi e
consistesse in un indottrinamento, nella somministrazione di teologia
semplificata. In principio, la comunità venne ritenuta rilevante in quanto
poteva esprimere un esempio di fede vissuta che poteva confermare la validità
di certi insegnamenti religiosi. Si ritenne quindi che la formazione non
dovesse essere indirizzata solo alla singola persona, ma anche alla comunità
nel suo complesso. In questo quadro fu evidenziata l’importanza, come prima
cellula educativa e oggetto di formazione, della famiglia. Progressivamente,
nei successivi documenti destinati a tutte le collettività di fede del mondo, il
Direttorio catechistico generale del 1971 e il Direttorio Generale di Catechesi del 1997, diffusi da un organo della Curia
vaticana, la Congregazione per il Clero, e nelle esortazioni apostoliche L’annunzio
del Vangelo, promulgata nel 1975 dal
papa Montini, e La catechesi, promulgata
del 1979 dal papa Wojtyla, entrambe all’esito di assemblee sinodali dei
vescovi, si considerò però il ruolo delle comunità non solo come testimonianza
di vita, a conferma della bontà e praticabilità dei principi di fede, ma anche
come ambienti della formazione religiosa e come agenti catechistici. I due aspetti non coincidono: il
secondo infatti comprende anche un ruolo attivo nella formazione, in modo
corrispondente a quello che i genitori svolgono nei confronti dei figli.
Ma in tutti i documenti che ho
citato si segnalava l’esigenza di una migliore e specifica formazione innanzi
tutto dei formatori, vale a dire di tutti i soggetti coinvolti nell’educazione
alla fede, ed anche delle comunità nella misura
in cui esse, in modo sempre più rilevante ne erano divenute partecipi.
Perché un formatore, singolo o comunitario, educa alla fede in modo
corrispondente al grado di formazione che ha ricevuto. Senz’altro può testimoniare la fede anche in modo ingenuo e istintivo,
esprimendo una vita buona, animata
dalla religione, a prescindere da una maggiore consapevolezza su di essa, da
una riflessione su principi e ideali
che l’hanno determinata, ma se poi deve parlarne
ad altri per dare loro un certo
orientamento, quindi se deve esercitare il servizio della Parola, come si dice in ecclesialese, è necessario,
indispensabile, che vi sia preparato. Ecco: questa formazione dei formatori è
completamente mancata nella nostra parrocchia, per cui la catechesi, per come
mi appare, non si fa secondo gli indirizzi della diocesi ma secondo quelli, piuttosto
rigidi, espressi dai direttòri
catechistici neocatecumenali. Non si
tratta solo di questioni di metodo, ma anche di contenuto. E tuttavia anche il
metodo è importante. Esso oggi, negli orientamenti dei nostri vescovi, deve
consentire di fare tirocinio di dialogo in una società pluralistica e quindi di
confrontare varie esperienze di vita di fede e di impegno civile in un
dibattito libero e franco. Ma, anzitutto, richiede di prendere consapevolezza
comunitaria della realtà sociale che si muove al di fuori degli spazi liturgici
secondo l’impostazione fortemente innovativa espressa dai saggi dell’ultimo
concilio e che si ritrova, ad esempio, in uno spettacoloso documento del
supremo magistero sociale quale l’enciclica Lo
sviluppo dei popoli, pubblicato nel 1967 dal papa Montini, che invito tutti
a leggere sul Web all’indirizzo
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum.html
Ne
trascrivo qui di seguito un brano molto rilevante:
Visione cristiana dello sviluppo
14. Lo sviluppo non si riduce alla semplice
crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il
che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato
giustamente sottolineato da un eminente esperto: "noi non accettiamo di
separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce.
Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a
comprendere l’umanità intera".
Vocazione e
crescita
15. Nel disegno di Dio, ogni
uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla
nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far
fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo della educazione
ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di
orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d’intelligenza
e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua
salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo
circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su
di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo
della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità,
valere di più, essere di più.
Dovere
personale e comunitario
16. Tale crescita non è
d’altronde facoltativa. Come tutta intera la creazione è ordinata al suo
Creatore, la creatura spirituale è tenuta ad orientare spontaneamente la sua vita
verso Dio, verità prima e supremo bene. Così la crescita umana costituisce come
una sintesi dei nostri doveri. Ma c’è di più: tale armonia di natura,
arricchita dal lavoro personale e responsabile, è chiamata a un superamento.
Mediante la sua inserzione nel Cristo vivificatore, l’uomo accede a una
dimensione nuova, a un umanesimo trascendente, che gli conferisce la sua più
grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale.
17. Ma ogni uomo è membro
della società: appartiene all’umanità intera. Non è soltanto questo o
quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo plenario. Le
civiltà nascono, crescono e muoiono. Ma come le ondate dell’alta marea
penetrano ciascuna un po’ più a fondo nell’arenile, così l’umanità avanza sul
cammino della storia. Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro
dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti, e non
possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la
cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, che è un fatto e per
noi un beneficio, è altresì un dovere.
Declinata nella nostra scala locale, questa esigenza
significa distoglierci dal nostro narcisismo
personale e comunitario, per cui si
è tutti e sempre concentrati su sé stessi e sui nostri piccoli gruppi di
perfezionamento, e ricollegarci con la società espressa dal nostro quartiere,
le Valli, per attivare sedi di dialogo in cui sia possibile quel flusso di dare-ricevere che consente l’inculturazione della fede in un certo
tempo e in un certo ambiente umano. La fede ha ancora qualcosa da dire alla società
del nostro tempo, o può rimanere solo in una dimensione di terapia psicologica per il benessere individuale? Si può diffondere
solo per generazione biologica,
supponendo contro l’esperienza comune che i figli seguano sempre gli
orientamenti di vita dei genitori, o anche per via di comunicazione interpersonale, per contagio culturale? Può resistere solo in artificiali ambienti neo-tribali, autosegregati, in bolle di sopravvivenza, in serre
sociali, o in realtà risponde ancora alle più profonde esigenze dell’umanità
di oggi, esprimendone le più alte idealità?
Si
tratta di un’attività, quella di educare secondo la modalità di apertura, che
richiede innanzi tutto un lavoro sui formatori, perché si convincano della sua
necessità, anzi indispensabilità, e poi
ne facciano tirocinio. Perché, bisogna capirlo bene: formatori non si nasce, lo si diventa imparando e facendo tirocinio.
Altrimenti avremo, in questa epoca di
trasformazione della parrocchia, atteggiamenti schizofrenici: dal pulpito si
predica l’apertura e a catechismo invece la chiusura in difesa. Di modo che
uno, sentendo quello che propone il prete, si iscrive a catechismo e poi,
sentendo quello che gli propone il catechista, fugge via, se non sente l’esigenza
di rinchiudersi in una specie di bolla artificiale di sostegno vitale della fede.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli