Primo Maggio
Oggi è il Primo Maggio, festa civile della Repubblica. Un’altra di quelle ricorrenze delle quali non si capisce più bene che cosa significhino. I sindacati continuano a indire manifestazioni e a Roma c’è il grande concerto a piazza San Giovanni. Quest'anno, in base anche alle nobili parole del Presidente della Repubblica, al centro dell'attenzione vi saranno gli incidenti mortali sul lavoro, il precariato sul lavoro, e l'insufficienza delle retribuzioni di molti lavoratori dipendenti. Si è constato che il potere d'acquisto di tali retribuzioni è calato dell'8% negli ultimi sedici anni. La Festa dei lavoratori vuole spingere all'azione collettiva per migliorare la condizione dei lavoratori.
Il Primo Maggio è la festa dei lavoratori. Non
propriamente del lavoro, ma dei lavoratori. E più precisamente dei lavoratori
che unendosi vogliono rivendicare e provocare un mutamento dell’ordinamento
sociale e politico. E’ infatti
all’origine una festa comunista, proclamata nel 1889 dalla Seconda Internazionale.
Poi divenne comune a tutti i movimenti socialisti di ispirazione marxista. Ha
quindi connotato essenzialmente politico, anche se il primo obiettivo a breve
termine dei comunisti della Seconda Internazionale fu prettamente sindacale,
vale a dire l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore. Venne
concepita come occasione per i lavoratori di manifestarsi pubblicamente nella
società come gruppo organizzato con obiettivi politici, rivendicando la piena
legittimità di questa condotta, a fine Ottocento e poi in seguito non sempre
riconosciuta dagli ordinamenti giuridici. E’ una festa a carattere
internazionalista, secondo i principi del movimento comunista, che volle
riunire i lavoratori di tutto il mondo per quelle finalità politiche, al fine
di realizzare i mutamenti auspicati, di carattere rivoluzionario. Non riguarda quindi
i lavoratori di una determinata area geografica o politica, ma tutti i
lavoratori, secondo l’invito che conclude il Manifesto del Partito Comunista di
Karl Marx e Friedrich Engels del 1848: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.
Nella concezione marxiana vi sono due tipi
umani: chi lavora e non guadagna abbastanza e chi guadagna e non lavora. Il
primo è il lavoratore salariato, al quel si dà come retribuzione solo quello
che basta per mantenerlo in vita e non quello che corrisponde alla ricchezza
creata con il suo lavoro, il secondo è il borghese, che organizza il lavoro in
quanto proprietario dei mezzi di produzione. In questo consiste l’alienazione
del lavoro. Secondo Marx ciò dipende dal ruolo politico, e non solo economico,
assunto dalla borghesia. Il comunismo
marxista intese e ancora intende far assumere un ruolo politico ai lavoratori.
I marxisti ortodossi ritennero e ritengono che ciò richieda ad un certo punto
un’azione violenta a carattere rivoluzionario, secondo quanto espresso da Marx
ed Engels nel citato Manifesto del Partito Comunista: “I comunisti sdegnano di
nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Essi dichiarano apertamente
che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento
di ogni ordinamento sociale esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti
a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa
fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare”. In quest’ottica la
violenza rivoluzionaria, la rottura dell’ordine costituzionale vigente, viene
giustificata in quanto inevitabile sbocco di un processo storico per cui
l’ordine sociale, economico e politico borghese sviluppa in se stesso le forze
e i moventi che determineranno il suo superamento. L’osservazione “scientifica”
di tale processo doveva convincere i comunisti, parte più consapevole dei
lavoratori (“i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti
i paesi, quella che spinge sempre in avanti; dal punto di vista della teoria,
essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato per il fatto che
conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento
proletario” dal Manifesto cit.), ad assumere la guida del movimento
rivoluzionario, al fine di accelerare la transizione verso il nuovo
ordinamento.
L’esperienza socialista e comunista dimostrò
chiaramente che i lavoratori avevano invece molto da perdere in una rivoluzione
violenta e che l’obiettivo di un mutamento dell’ordine politico in modo da
migliorare le condizioni dei lavoratori e da accrescere il loro contributo al
governo della società poteva essere perseguito con minor danno con mezzi non
rivoluzionari, organizzandosi e agendo secondo principi democratici che
consentissero ai lavoratori di influire con il voto e l’azione politica a
riforme molto estese. Questo è appunto quello che venne e viene definito
“riformismo” a carattere sociale, un concetto ancora attuale tanto che in
questo si vuole individuare uno dei caratteri distintivi del nuovo Partito
Democratico. Il movimento dei cattolici democratici nel corso del Novecento,
pur non federandosi mai al movimento socialista di ispirazione marxista, aderì
a quest’ordine di idee, che era molto di più di quanto consigliato all’epoca
dalla dottrina sociale della Chiesa, comportando ad esempio l’auspicio del
suffragio universale e quindi l’introduzione di una partecipazione
generalizzata della popolazione al governo della società e l’autonomia dei
laici in politica. Ciò inizialmente, e anche successivamente in varie occasioni,
non fu ben accolto dalla gerarchia. Lo dimostra la vicenda umana del sacerdote
Romolo Murri, fondatore della FUCI-Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(negli anni ’80 abbiamo murato una lapide sulla casa, vicina all’attuale
Parlamento, dove avvenne la fondazione), colui che coniò l’espressione
“democrazia cristiana”: accusato di modernismo, fu sospeso “a divinis” e
addirittura scomunicato.
Durante
il ventennio fascista, soprattutto a partire dagli anni ’30, in ambito
cattolico, nella FUCI e nel Movimento
dei Laureati Cattolici soprattutto, maturarono idee antifasciste che si
proponevano la riorganizzazione dello Stato su basi democratiche e di progresso
sociale. Ci si voleva distanziare nettamente da un lato dalle dittature
fasciste e da quella sovietica, dall’altro dalle democrazie borghesi
dell’epoca. Si può prendere come importante punto di riferimento di questo
movimento il cosiddetto “Codice di Camaldoli” (in origine denominato “Per la
comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di
studiosi amici di Camaldoli”, elaborato a partire dalla Settimana di teologia
per laici organizzata tra il 18 e il 24 luglio 1943 dal Movimento dei Laureati
Cattolici). In questo documento si legge ad esempio: “Nella nostra epoca
storica e nelle condizioni di civiltà dei Paesi più progrediti è richiesto un
ordinamento il quale sia fondato: a)sopra il diritto di tutti indistintamente i
cittadini e delle forze sociali a partecipare in forme giuridiche all’attività
legislativa, amministrativa e giudiziaria dello Stato; b)sopra il diritto dei
cittadini di scegliere e designare gli investiti della pubblica autorità;
c)sopra la responsabilità giuridica degli esercenti la pubblica autorità verso
gli altri cittadini, a prescindere dalle responsabilità morali e storiche che
sono connesse coll’esercizio della sovranità, qualunque sia la forma di stato.
Come condizione imprescindibile di questo diritto di partecipazione dei
cittadini alla formazione e all’esercizio delle funzioni dello stato e di
quest’obbligo di responsabilità, nasce l’esigenza delle indispensabili libertà
politiche del cittadino e delle forze sociali, da esercitarsi in armonia con la
legge morale: il diritto di non vedersi imposte
opinioni politiche e di essere protetto da violenze e arbitri, a causa
delle medesime; il diritto di essere protetto e, se necessario, assistito,
nell’esercizio effettivo della libertà di stampa, di riunione e di
associazione; il diritto di discutere e deliberare in seno e per mezzo delle
rappresentanze politiche sull’indirizzo generale della politica dello stato e
sugli atti del governo … Una società ben
ordinata deve dare…a ciascun uomo la possibilità di esplicare nel lavoro la sua
energia e di conseguire un reddito sufficiente alle necessità proprie e della
propria famiglia … Le nobili prerogative del lavoro, la sua funzione al tempo
stesso individuale e sociale, il fatto che il rapporto di lavoro riguarda
direttamente la persona umana, possono richiedere interventi della comunità
diretti a: 1)regolare l’esercizio dei diritti e in particolare del diritto di proprietà in modo da indurre
anche quei membri della comunità che si limitano a trarre dalla loro proprietà
i mezzi di sussistenza loro occorrenti ad assumere il peso e la responsabilità
di un lavoro, ferma restando la libertà di adempiere al dovere del lavoro
attraverso la libera scelta dello stato professionale; 2)creare condizioni
perché ogni individuo professionalmente capace abbia possibilità di conveniente
occupazione nei casi in cui tali condizioni vengano durevolmente a mancare
indipendentemente dalla volontà dei lavoratori disoccupati; 3)consentire al
lavoratore di partecipare effettivamente
ed attivamente, attraverso appropriati istituti, alla formulazione delle
condizioni di lavoro ed alla determinazione dei criteri di retribuzione. Detti
interventi sono giustificati da esigenze che attengono alla funzione
individuale e sociale assolta dal lavoro e non soltanto da rilevanti, seppure
opinabili, motivi di convenienza economica. … I beni materiali sono destinati
da Dio a vantaggio comune di tutti gli uomini. Nel campo economico, la
giustizia sociale si risolve, fondamentalmente, nella attuazione di questo
principio. Appartiene quindi alla giustizia sociale di promuovere una equa
ripartizione dei beni per cui non possa un individuo o una classe escludere
altri dalla partecipazione ai beni comuni. A fondamento di tale equa
distribuzione deve porsi una effettiva e non solo giuridica eguaglianza dei
diritti e delle opportunità nel campo economico, per cui, tenuto conto delle
ineliminabili differenze nelle doti personali, nell’intelligenza, nella
volontà, sia attribuito a ciascuno il suo secondo giustizia e non secondo i privilegi
precostituiti o conferiti da un ordinamento che ostacoli taluni individui o
gruppi sociali nello scopo di migliorare le loro condizioni. E’ proprio della
giustizia sociale instaurare un ordine nel quale i singoli dia tutto quanto
essi sono in grado di apportare al bene comune e ottengano quanto è necessario
per un armonico sviluppo delle energie individuali, quale sia consentito dalle
condizioni di ambiente, di tempo e di luogo. …. Riguardo alla proprietà dei
beni occorre distinguere tra beni di consumo e di godimento destinati a
soddisfare bisogni personali, familiari e collettivi, e beni strumentali
destinati invece alla produzione di ricchezza. La proprietà privata dei beni strumentali
ha una funzione sociale tanto più accentuata quanto più è rilevante la quantità
e la qualità dei beni che l’impiego di detti strumenti permette di ottenere.
Tale funzione sociale si manifesta, da un punto di vista tecnico, nella ricerca
della più appropriata utilizzazione dei mezzi di produzione, nel loro sviluppo
in relazione ai bisogni comuni, e nella cessione a un giusto prezzo dei
prodotti ottenuti.”
Quando si trattò di elaborare la nuova
Costituzione repubblicana, l’apporto dei cattolici democratici fu molto
intenso, appunto perché avevano già
messo a punto l’impianto programmatico di cui ho detto. E ciò mentre le residue
componenti liberali miravano sostanzialmente alla restaurazione dello stato
pre-fascista e socialisti e comunisti erano ancora propensi all’ipotesi
rivoluzionaria, nonostante aggiustamenti tattici. E’ accaduto quindi che principi cardine del
movimento socialista internazionale riformista, in particolare quello della
riorganizzazione dell’ordinamento politico su basi lavoristiche, siano stati
introdotti nella nuova Costituzione mediati dalla riflessione dei cattolici
democratici. Ne è derivata una caratterizzazione fortemente lavoristica della
carta fondamentale. Il lavoratori e il
lavoro sono contemplati nei primi
quattro articoli della Costituzione vigente, inseriti nella parte dedicata ai
“Principi fondamentali”. All’art.1 la giustificazione e legittimazione della
sovranità popolare viene individuata nella dignità del lavoro: “L’Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro”. Viene indicato come compito essenziale della Repubblica di
“rimuovere” gli ostacoli di ordine
economico e sociale che impediscono “l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”: con il
che si è intesa accogliere pienamente l’istanza socialista di realizzare un
mutamento dell’ordine costituzionale che consentisse ai lavoratori di partecipare
al governo dello stato e dunque di riorganizzare lo stato, con metodi
democratici però, in modo da impedire lo sfruttamento ingiusto del lavoro
dell’uomo, l’ “alienazione” del lavoro dell’uomo. Tutto il titolo III,
dall’art.35 all’art.47, è manifestazione delle stesse esigenze. Voglio anche
far notare che l’importanza grandissima data al lavoro, ai lavoratori, alla
giustizia sociale è unita, nella Costituzione, all’irrilevanza di ogni connotato etnico, di stirpe,
linguistico, nel nuovo stato. E’ scritto infatti all’art.3, 1° comma: “Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”. Spesso non si riflette abbastanza su quello
che questo significa: per essere cittadini della Repubblica non occorre essere
etnicamente italiani, non occorre neppure saper parlare l’italiano! Le tre
volte in cui nella Costituzione si parla di “Nazione” (art.9, 2° comma: “<la
Repubblica> Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”. Art.67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed
esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Art.98, 1° comma: “I pubblici impiegati sono
al servizio esclusivo della Nazione”.) non lo si fa mai per denotare il
carattere etnico della Repubblica. Si prefigura un nuovo ordinamento
internazionale che realizzi “pace e giustizia” tra “le Nazioni”, all’interno
del quale si consentono le “limitazioni di sovranità” necessarie a realizzarlo:
una giustizia sociale su scala mondiale che riecheggia le istanze
internazionaliste del movimento socialista.
Oggi
molte delle idee che vennero espresse nella Costituzione vigente non vengono
più sentite come attuali. E’ per questo che non si sa più bene che cosa e
perché festeggiare il Primo Maggio. E’ molto diminuita la solidarietà tra i
lavoratori, sostituita dalla solidarietà all’interno delle varie corporazioni.
Non è più colto il nesso tra l’effettivo esercizio della sovranità da parte dei
lavoratori e i miglioramenti delle condizioni sociali dei lavoratori medesimi
intervenuti negli ultimi sessanta anni. Ad esempio sembra naturale che le cure
mediche e ospedaliere e le medicine siano fornite gratuitamente, o quasi, a
tutti. O che le retribuzioni dei lavoratori non possano in ogni caso scendere
sotto i minimi stabiliti dai contratti collettivi di diritto comune, che
vengono applicati dai giudici ai sensi dell’art.36 della Costituzione, come
parametri di “una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del … lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. E infatti
si va progressivamente realizzando un progressivo deterioramento delle
condizioni dei rapporti di lavoro, con particolare riferimento alla loro
crescente precarizzazione, e di altri istituti del cosiddetto “stato sociale”.
D’altra parte gli italiani hanno preso a
sfruttare, nel senso marxiano del termine, il lavoro altrui, in particolare
quello degli stranieri, sia di quelli immigrati in Italia, sia di quelli che
all’estero producono per noi. Molti beni di nostro uso comune da noi costano
sempre meno perché prodotti all’estero da manodopera ingiustamente retribuita.
Nell’edilizia, nella ristorazione, nell’agricoltura e in molti altri settori
ingenti profitti degli italiani e risparmi per i consumatori sono realizzati con
lo stesso metodo.
C’è in Italia una larga fascia di lavoratori,
costituita dagli immigrati che non hanno acquisito la cittadinanza italiana,
che non ha diritti politici e che quindi non può migliore le proprie condizioni
sociali. Essa, per ora, è mantenuta in
tale condizione da parte della maggioranza della popolazione italiana, quella
costituita dai cittadini italiani, in gran parte lavoratori.
Oggi questa situazione sociale sembra
sostenibile, per quanto ingiusta. Ciò dipende dal fatto che da molti anni in
Europa non abbiamo sperimentato crisi economiche gravi. Se una crisi del genere
dovesse verificarsi l’ingiustizia sociale si trasformerebbe in una bomba
sociale e il sistema collasserebbe.
E’ stato osservato che le leggi economiche
individuate dagli specialisti sono considerate un po’ come leggi della natura,
quasi che non si potesse influire più di tanto su di loro. E’ una visione
analoga a quella dei marxisti ortodossi. In realtà l’esperienza storica
dimostra che l’economia è parte dell’assetto istituzionale di una società e che
essa può essere regolata da leggi giuste o da leggi ingiuste. E fatalmente le
leggi tendono ad essere ingiuste verso coloro che non hanno voce in capitolo
nella loro formulazione. E’ quindi ancora giustificato l’imperativo
costituzionale di consentire a tutti i lavoratori il più ampio accesso al
governo dello stato e delle altre istituzioni pubbliche.
Negli dieci anni si è manifestata quella che
verosimilmente sarà una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche nella storia
dell’umanità, quella dell’intelligenza artificiale, ma sarebbe più
preciso chiamarla non umana, perché non si vuole riprodurre la mente umana,
ma crearne una enormemente più potente e versatile. Per farlo si è imitato il
funzionamento dei nostri neuroni. A differenza della nostra mente, il funzionamento di quell’intelligenza
non umana richiede un dispendio energetico rilevantissimo. Ad oggi, quindi, l’impiego
di manodopera umana è ancora più economico, ma nel prossimo futuro probabilmente
non sarà più così. Così il lavoro umano tenderà a divenire inutile, soppiantato
da quello non biologico. Questo causerà un problema sociale rilevantissimo. I
proprietari dei sistemi di intelligenza non umana tenderanno ad acquisire un
rilievo politico sempre più importante. Questo richiederà ancor più la
solidarietà dei lavoratori umani per ottenere leggi per prevenire l’impoverimento
progressivo e l’emarginazione di fasce della popolazione sempre più vaste.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli