Speranza
Le difficili ore che il Papa sta vivendo di questi tempi al Policlinico Gemelli ci fanno riflettere sulla nostra condizione umana, come accade nelle agonie delle persone care. La maggior parte di noi lo conosce superficialmente, ma egli per la persona di fede è realmente una persona cara.
Ieri, in uno degli incontri che da qualche anno abbiamo periodicamente con gli amici del Meic, si è discusso del rapporto tra speranza e politica. Ma si è accennato anche alla speranza nella propria resurrezione personale alla vita eterna, che è uno degli articoli del Credo cristiano.
Analisi sociologiche segnalano che un venti per cento non ci crede, il trenta per cento si, in maggioranza persone anziane, e un cinquanta per cento non sa. La fede è divenuta incerta, come suggerisce un interessante libro del sociologo Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, FrancoAngeli 2021?
Per come vivo la mia, la fede è sempre incerta, perché consiste fondamentalmente nell’affidarsi totalmente alla parola di Dio per come ci è stata tramandata, senza poter percepire direttamente.
L’ affidamento genera la speranza, non la certezza.
Fede e speranza sono strettamente connesse.
Si può fare esperienza diretta solo di ciò che indichiamo come agàpe, parola che non ha una corrispondenza esatta in italiano e che evoca sia uno stato d’animo che una prassi verso le altre persone. Un’espressione che rende l’idea di agàpe è pace conviviale e festosa, come quella che si visse nel l’episodio evangelico delle nozze di Cana. Si sta, lieti, tra persone care e vorremmo che fosse così sempre, benché fin da molto giovani si sappia che non ci è dato. Da qui la speranza, alla quale viene incontro la Parola, e allora viene generata la fede, pur nella perdurante incertezza, perché non si vede ciò che si spera.
Da questo si capisce perché tra fede, speranza e agàpe Paolo insegnò che è quest’ultima la più grande. Prima si vive l’agàpe, e allora ci si affida e per questo si spera.
I Giubilei cattolici, con quell’esortazione a convenire tutti verso una porta santa, sono in fondo celebrazioni dell’agàpe, per rafforzare l’affidamento e suscitare così la speranza.
La sofferenza dell’agonia tuttavia rimane. I nostri giorni sono contati e anche se non sappiamo né il giorno né l’ora possiamo farcene un’idea realistica.
In Italia la speranza di vita è di 83 anni. Per gli uomini, 81 anni, per le donne 85. Ma la speranza di vita in salute è di 59 anni. Così si è osservato che non è tanto la vita ad essere stata allungata, quanto la vecchiaia.
Nella vecchiaia si è più portatə a interrogarsi sull’aldilà.
Si potrebbe pensare che il dopo potrebbe essere come il prima della nostra nascita, quelle centinaia di migliaia di anni in cui la nostra specie c’era, quella degli homo sapiens, ma noi no. Questo è ragionevole.
Ma emotivamente non vi ci rassegniamo.
Non è tanto la perdita della nostra vita che ci colpisce interiormente, ma la perdita della relazione con le persone che ci sono care. La nostra interiorità si sviluppa in quella relazione fin da molto piccolə, da quella con la persona adulta che svolge una funzione materna. Fin da allora siamo viventi in comunione agapica con persone nostre simili.
Con l’aiuto di ChatGPT di OpenAI:
Da un celebre passaggio della meditazione “Meditation XVII” di John Donne, poeta e sacerdote inglese del XVII secolo. Il testo originale in inglese è il seguente:
Meditation XVII
(da Devotions upon Emergent Occasions, 1624)
No man is an island,
entire of itself;
every man is a piece of the continent,
a part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less,
as well as if a promontory were,
as well as if a manor of thy friend’s
or of thine own were.
Any man’s death diminishes me,
because I am involved in mankind;
and therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee.
Traduzione in italiano:
Nessun uomo è un’isola,
intero in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se una zolla viene portata via dal mare,
l’Europa ne è diminuita,
come se fosse stato un promontorio,
come se fosse stata una dimora
di un amico tuo o tua propria.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità;
e quindi non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
Questo brano riflette sulla solidarietà umana e sulla connessione tra tutte le persone. La frase finale è stata poi resa celebre anche dal romanzo For Whom the Bell Tolls (1940) di Ernest Hemingway.
Ho vissuto da vicino l’agonia di mia madre, dopo un lunga e tremenda malattia che l’aveva trasfigurata, cambiandole addirittura il volto. Un giorno tremendo in una stanza del Policlinico Gemelli, in cui era stata infine ricoverata dopo diversi giorni nella sala di osservazione intensiva del Pronto soccorso, mi ero proposta di vegliarla fino alla fine. I medici mi avevano avvertito che non c’era più nulla da fare. Ma ad un certo punto, a tarda notte, io stesso non mi sono sentito bene. Ho deciso di andare a casa a riposare per qualche ora ripromettendomi di tornare l’indomani presto, i sanitari me l’avrebbero consentito. Con una certa difficoltà riuscii a trovare l’ingresso dell’ospedale: il Gemelli è labirintico e di notte è peggio. Tornato a casa mi addormentai subito, ma, dopo non molto, poco prima dell’alba, mi telefonarono che mia madre era morta. Spesso è proprio quello l’orario in cui ce se ne va. Ora mi rimprovero di non aver resistito di più accanto a mia madre. È probabilmente quello che gli apostoli sentirono quella notte ai Getsemani, quando non riuscirono a vegliare con Gesù che sudava sangue, così è scritto.
Mia madre era una persona molto religiosa, molto devota alla Madonna in particolare. Nondimeno la sua agonia fu tremenda. Non riusciva più a parlare e nemmeno a pensare in modo chiaro. Credo che la sua mente si sia dissolta diverso tempo prima della fine, ma di questo non posso essere sicuro. La nostra mente è legata al nostro encefalo. Nelle esperienze del dopo morte, caratterizzate da percezioni anomale simili a quelle provocate dall’uso degli allucinogeni, l’encefalo ancora funziona, per cui esse non sono realmente dopo la morte. E l’anima? Qui entra in campo la speranza religiosa, alla quale la fede dà corpo e parole. Ma nell’agonia, in particolare nell’ultima agonia, tutto questo sembra dissolversi. E per chi è Papa non è diverso da ciò che è per le altre persone.
Non è in nostro potere salvare per sempre dalla morte chi ci è carə, anche desiderandolo con tutto il cuore e cercando di riuscirci in ogni modo.
Probabilmente tra non molto ci si proverà a farlo, ma ciò che ne uscirà sarà ancora umano?
Nel tempo dell’agonia, nostra e delle persone che ci sono care, la religione ci insegna a pregare.
«Prega», Mario, «prega!», così mi esortò mio zio Achille, mentre eravamo seduti davanti al reparto di terapia intensiva dove mio padre era in agonia.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli