Perché la democrazia
Molte delle ragioni che si danno per preferire
la democrazia non mi convincono.
Non è, come dicono,
il governo del popolo. Il popolo non esiste, è un’entità mitica:
i miti servono, anzi ci sono indispensabili, ma i miti costruiti sull’idea di popolo
sono stati anche malvagi. Esistono popolazioni, le quali, a
differenza dei popoli, hanno caratteristiche che cambiano
costantemente, a seconda delle
interazioni tra la gente. Il concetto di popolo viene costruito attribuendo
arbitrariamente al gruppo di popolazioni che si vogliono dominare politicamente
le qualità che servono allo scopo. Ad uno sguardo superficiale può funzionare,
ma approfondendo non più. E’ sempre così con i miti. Ad esempio, gli italiani
sono diversissimi tra loro e solo chiudendo gli occhi su questo possono essere
pensati come un unico popolo. Non vivono tutti in Italia e non parlano
tutti l’italiano. Non discendono da un’unica stirpe. E si potrebbe continuare.
Una volta l’arcivescovo di Bologna Biffi disse che, prescindendo dalla
religione cattolica, quello che li univa era la pastasciutta. Ma ci sono tante
pastasciutte locali e non si pratica la religione in uno stesso modo.
Si è considerati cittadini
italiani in base a certi requisiti stabiliti da una legge dello stato. Attualmente
lo si può diventare anche non avendo mai avuto una reale relazione con l’Italia
e con le sue popolazioni. Lo osservò anni fa un politico australiano che disse
di aver ottenuto la cittadinanza italiana solo perché i suoi avi erano
italiani: lui non parlava italiano e, a parte quelle ragioni di stirpe, non
aveva altre vere ragioni per essere considerato italiano.
In democrazia il
potere pubblico è nelle mani di oligarchie legittimate da procedure elettorali
di massa. La differenza, rispetto ai regimi oligarchici non democratici, è nel
sistema di limiti legali al loro potere e nel diritto di resistenza
riconosciuto all’altra gente che è connaturato ad ogni sistema politico
realmente democratico. Il potere pubblico, in sostanza, è esercitato da gruppi
specializzati, non è un potere di tutti.
Omnicrazia, appunto potere di tutti, era il sistema
politico evocato dal filosofo Aldo Capitini volendolo intensamente e
attivamente partecipato dalle masse. Scrisse anche un libro con quel titolo nel
1967, quando le società europee occidentali, e quella italiana in particolare,
cominciarono a cambiare velocemente. Lo contrapponeva a democrazia, considerata caratterizzata dal principio
rappresentativo, che è appunto quando ci si limita a eleggere rappresentanti in
organi collegiali, come è il Parlamento. In realtà una democrazia di qualità
deve comprendere forme di partecipazione attiva di massa, ad esempio nei
partiti politici, ma anche in altri modi. Non è che con il voto si esaurisca
tutto ciò che si può fare per partecipare al governo pubblico. Bisogna rimanere
politicamente attivi, e questo è riconosciuto come diritto fondamentale in una
democrazia di qualità, ad esempio nella nostra Costituzione repubblicana,
all’art.49: «Tutti i
cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Di fatto, in un sistema politico non democratico il potere pubblico
tende a consolidarsi in sempre meno mani e sempre più a lungo, perché non trova
limiti efficaci, e, in quel contesto, lo sono solo quelli a carattere
rivoluzionario e violento. E’ ciò che caratterizzò il nostro Risorgimento,
che si situa temporalmente tra il 1815, anno in cui si svolse il Congresso di
Vienna in cui le potenze vincitrici sul regime francese di Napoleone Bonaparte dettarono
regole e confini della loro nuova Europa, e il 1870, anno della conquista
militare e della soppressione dello Stato pontificio, nel Centro Italia, con
capitale Roma. Si trattò di un complesso di moti violenti e di sanguinose
guerre. Non c’era solo l’anelito all’unità nazionale (di popolazioni che
all’epoca erano ancora più diverse di adesso), sulla base di una mitologia
costruita sull’antichità, ma anche quello a una rivoluzione democratica, per
stabilire limiti ai regimi assolutistici e per ampliare la democraticità di
quelli che ad un certo punto si erano rassegnati a introdurla, concedendo statuti,
leggi fondamentali con le regole per l’esercizio del potere politico di vertice.
Alla fine del processo, lo Statuto, quindi il regime democratico, concesso da Casa Savoia, nel 1848, al suo
Regno nel Nord Italia, denominato Regno di Sardegna dal 1720, quando
aveva ottenuto la sovranità sulla Sardegna, che era considerata un regno,
mentre il dominio territoriale dei Savoia era solo un ducato, il Ducato di
Savoia, fu imposto a tutte le regioni cadute in mano dei Savoia con le guerre
risorgimentali. E poi, dopo la Prima Guerra Mondiale, anche agli altri territori
riconosciuti al Regno d’Italia, vittorioso in quella guerra, a prezzo di stragi
tremende. Rimase formalmente in vigore anche durante la dittatura del fascismo
mussoliniano, ma senza essere più realmente praticato, fino a che, il 1 gennaio
1948, fu sostituito dalla nuova Costituzione Repubblicana, scritta
dall’Assemblea Costituente dal giugno 1946 al 22 dicembre 1947.
In un sistema democratico che funzioni, quindi
dotato di effettività, la libera dialettica delle forze sociali porta a
impedire il consolidarsi di posizioni dominanti che abusino delle loro
prerogative. Questo consente l’evolvere della politica senza processi
rivoluzionari violenti e, in particolare, senza che chi è al vertice tenti di
bloccare l’espandersi del dissenso utilizzando la violenza politica. Di fatto,
i regimi democratici si sono dimostrati più efficaci degli altri per sviluppare
le potenzialità delle popolazioni, favorendo l’iniziativa nelle masse nel
consolidare il sistema politico e nel produrre innovazioni sociali e politiche,
tra l’altro con un minor dispendio di risorse. La repressione di massa è molto
costosa e deprime l’iniziativa della gente, come apparve chiaramente
nell’esperienza storica dell’Unione Sovietica, tra il 1917 e il 1991. Genera
anche infelicità. Una delle utopie fondative delle democrazie contemporanee è
quella di riconoscere alle persone il diritto alla ricerca della felicità,
espressione che troviamo per la prima volta nella Dichiarazione di Indipendenza
degli Stati Uniti d’America, del 1776.
La felicità è un valore importante per le persone. Difficile però
che, quando non si è più bambine e bambini, ci sia chi si prenda la briga di
organizzarcela. Bisogna pensarci da sé: questa è appunto la ricerca della
felicità. Spesso la politica si frappone tra noi e la felicità, quando un
sistema oligarchico incancrenito pensa solo alla propria a scapito di quella
delle altre persone. In democrazia, il sistema legale di contrasto agli abusi
di potere, apre la strada alla propria ricerca della felicità, in genere
associandosi ad altre persone, perché da sole si riesce a poco.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in
San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli