In vista dalla ripresa delle attività del
gruppo di AC
Il 6 ottobre prossimo abbiamo
previsto la ripresa delle attività del nostro gruppo di AC.
Le riunioni a cui partecipino
persone anziane presentano un maggio rischio in tempi di epidemia di Covid-19.
Questo potrebbe rendere necessario incontrarci utilizzando un programma di
video conferenze come Meet. Bisogna prepararsi. Acquistare un tablet (ce ne sono in
vendita al di sotto dei 100,00 euro). Impratichirsi nell’avviarlo, spegnerlo e
nell’accedere al programma di videoconferenza scelto per incontrarci e ad una
casella di posta elettronica. Collegare il tablet alla rete telefonica. Il minimo per partecipare
a una videoconferenza. Si tratta di abilità pratiche sicuramente accessibili anche
a persone anziane, come a persone molto giovani, addirittura ai bambini prima
delle elementari. Le persone anziane possono farsi aiutare in questo dalle più
giovani.
Proporrò di affiancare alle attività consuete un impegno più mirato alla
mediazione tra l’attualità del nostro tempo e la fede personale. Questo in
vista di una rigenerazione del nostro gruppo coinvolgendo in particolare le
fasce d’età che sono ancora poco rappresentate.
Nel
complesso, la profonda modifica della vita sociale a seguito dell’epidemia ci
ha sorpreso e più che altro siamo rimasti in attesa che tutto tornasse come
prima, il che però non potrà avvenire tanto presto, almeno secondo ciò che si
sa.
Nella migliore delle ipotesi, una campagna vaccinale su larga scala per il
Covid-19 non potrà iniziare prima della primavera inoltrata del prossimo anno,
e prima che abbia raggiunto un numero di persone sufficienti a produrre effetti
sul corso dell’epidemia se ne sarà andato tutto il prossimo anno di attività
associative.
Mettiamo in conto, dunque, di dover lavorare ancora in emergenza da
ottobre fino alla fine delle attività associative prima della sospensione
estiva del prossimo anno.
Non
avremo più tra noi il caro Ciccio, che ci ha lasciati a luglio. La fede ci insegna
a contare i nostri giorni.
C’è un tempo per ogni cosa e anche per ogni vivente. Le persone anziane vorrebbero
lasciare qualcuno che proseguisse il loro lavoro, ma, nella religione, oggi vi
sono tante difficoltà. E tuttavia non ci rassegniamo ad essere un gruppo ad
esaurimento, come ci volevano in una passata stagione della vita parrocchiale.
Ma se non ci diamo da fare, questo potremmo diventare, dando così ragione ai
nostri critici di una volta.
L’organizzazione ecclesiastica, d’altra parte,
è quella che è e certamente non
incoraggia la partecipazione dei laici. Questi ultimi, in genere, non vengono formati a partecipare attivamente
e quindi non partecipano. Questo tema non è
compreso nella formazione di primo livello, che per molti è l’unica per
una intera vita di fede. Il clero si lamenta di laici piuttosto clericalizzati,
ma dai laici si ribatte che spesso solo per i clericalizzati c’è vero spazio.
Il lavoro dell’Azione Cattolica dovrebbe contribuire a superare questi problemi
e, innanzi tutto, a imparare, facendone tirocinio, i metodi democratici di
partecipazione. Il nostro statuto definisce l’associazione una palestra di democrazia. Il metodo democratico ha a che fare con i
valori, non solo con le procedure, le votazioni, per l’attribuzione degli incarichi. Tra quei valori
è molto importante quello della formazione, anche mediante auto-formazione. La
formazione rende capaci di pensiero autonomo
e quindi creativi. La formazione alla democrazia, che deve comprendere
un vero tirocinio ad essa, rende possibile l’azione collettiva, superando,
integrandole, le differenze caratteriali e di punti di vista, in modo da non
dover sempre dipendere da un superiore istituito dall’alto per pacificare. C’è, in definitiva, qualcosa di molto
importante che ci accomuna ed è la nostra fede religiosa. D’altra parte ogni
persona la vive in modo creativo, non si tratta semplicemente di adeguarsi a
modelli della tradizione validi universalmente, per la donna e per l’uomo, per il
bambino, il giovane o l’anziano, per chi vive nel mondo e per chi
vorrebbe vivere fuori del mondo
(tuttavia legiferando sul mondo), per la persona sana e per quella malata, per
l’oppresso come per l’oppressore e via dicendo. Leggo che a volte i laici di
fede sono accusati di volersi costruire
una fede a modo loro, secondo le
rispettive esigenze personali, come quando si va al supermercato e qualcosa si
sceglie e qualcos’altra la si scarta. E’ un addebito ingiusto e che largamente
dipende da una visione clericalizzata del popolo dei credenti. Non c’è un modello di fede che vada bene per
tutti. Ci sono del resto moltissime questioni aperte a livello teologico, che
non conviene superare come nel nostro triste passato con delle specie di
scomuniche. Ma anche nella pratica quotidiana, bisogna prendere consapevolezza
che una parte dell’etica religiosa che ancora viene insegnata non è
sostenibile. E certe volte sono proprio i metodi di insegnamento che non vanno,
troppo centrati sulla forza dell’autorità, quando poi la storia ci dimostra
chiaramente che l’autorità raramente ci piglia nelle questioni che travagliano in particolare
la vita dei laici. Del resto è effettivamente così che va nelle questioni di
fede: finché ci si mantiene sulle generali, certi problemi sono avvertiti quasi
solo dai teologi, quando invece si passa alle questioni pratiche e si osservano
da vicino tutto si complica. Certo, abbiamo una teologia dogmatica spietata ma
una pastorale piuttosto comprensiva, però questa non è una soluzione che soddisfi
veramente. Un laicato consapevole potrebbe contribuire a superare questo stato
di cose. Inutile cercare soluzioni nelle teologie correnti: la teologia ragiona
sempre su ciò che è stato già acquisito per altra via, è un riflessione a
posteriori. Bisogna cambiare, o almeno provare a cambiare, poi i teologi seguiranno.
Una certa familiarizzazione con i ragionamenti teologici serve, perché i nostri
vescovi e i nostri preti hanno fondamentalmente una cultura teologica, parlano teologico, e se se ne è completamente digiuni non ci si
intende, ma senza eccedere, perché il metodo della teologia porta in genere a creare ostacoli insuperabili da
parte della teologia stessa, ma superabilissimi nella pratica delle relazioni
umane.
Il contadino esce, guarda il cielo, e capisce se farà brutto tempo o non, e se è tempo di seminare o di mietere: è scritto. Ma di questi tempi questo non
è più tanto vero per la questione dell’epidemia in corso. Finirà? Quando? Ne
sappiamo ancora troppo poco per rispondere.
I ritmi della nostra vita ne risultano molto alterati. La stessa
incertezza colpisce. Non si riescono più a are previsioni affidabili. Rimane certo lo scorrere del tempo, per cui inesorabilmente
ci si fa più anziani, così come rimangono le stagioni, perché il cosmo è
indifferente al nostro problema biologico, e ruota, ruota, ruota, ma la fede è un fatto
sociale e se la vita sociale è colpita, addirittura certe volte interdetta, la
fede ne risente.
Mi pare che nei mesi scorsi si sia data troppa importanza alla sospensione
delle attività liturgiche con la partecipazione effettiva della gente. Si è
visto che si poteva ovviare con le riprese televisive. La pratica della fede
non è solo liturgia, che spesso appare come la recita di certi copioni in una
serie di rappresentazioni clericali che si succedono senza fine. E’ la nostra
fede che riempie di senso vitale le liturgie a cui partecipiamo, ed è in questo
che effettivamente essere realmente presenti è differente dall’assistere in
televisione. Allora, però, occorre esercitarsi in quella nostra fede,
svilupparla, praticarla attivamente, farla reagire con ciò che ci accade
intorno. In modo, ad esempio, da essere capaci di liturgia anche quando non siano
praticabili quelle consuete, dirette dal clero. Non è possibile concludere che o la messa o
nulla. Naturalmente anche a questo si è poco o nulla formati. Ed è un
problema serio.
Dunque, per tutti noi l’anno di
attività associativa che ci attende sarà molto impegnativo, richiederà di imparare
e praticare cose nuove, perché stiamo vivendo tempi nuovi, terribili anche, ma
essenzialmente nuovi. Ci sarà una fatica da affrontare, resistenze anche
interiori da superare. Perché in genere ci hanno insegnato ad essere piuttosto
conservatori e, facendoci anziani, lo diveniamo naturalmente. Ma i tempi nuovi
scompaginano la tradizione, anche solo intesa come l’insieme delle nostre care
consuetudini. Del reato non ci sono stati promessi così, tutti nuovi, i
tempi che ci hanno insegnato ad attendere?
Mario Ardigò