Omelie nel tempo del Lockdown
1. Dal gennaio 2020 l’Italia è stata colpita
dalla pandemia della malattia virale Covid-19
manifestatasi il mese precedente in Cina, nella provincia di Hubei. Il
virus che la provocava è stato denominato SARS-CoV-2, del tipo coronavirus perché al microscopio
elettronico appare circondato da escrescenze che ricordano, appunto, una
corona. La malattia è molto contagiosa, può provocare gravi polmoniti ed è
molto pericolosa in particolare tra chi ha più di sessant’anni.
Dal 9 marzo il Governo italiano, per cercare
di limitare i contagi, ha disposto delle misure dette di lockdown, termine inglese che significa confinamento. In sostanza è stata limitata la possibilità di
spostarsi fuori casa, salvo casi di lavoro o di altre necessità specificamente
indicate. Sono stati vietati gli spettacoli pubblici. E’ stato limitato
l’accesso ai luoghi di culto religioso: è stato consentitio solo qualora
fosse possibile mantenere tra i fedeli la distanza minima di un metro, senza la formazione di gruppi numerosi. Le
autorità della Chiesa cattolica hanno quindi deciso di sospendere le
celebrazioni delle messe con la partecipazione del popolo. Questo è durato fino
al 18 maggio 2020, quando, a seguito di intese con il Governo, sono riprese,
benché con cautele per prevenire il contagio.
Durante il periodo di lockdown sono state trasmesse in diretta televisiva messe celebrate
senza la presenza del popolo. Ad un
certo punto anche nella nostra parrocchia si è iniziato a farlo, aprendo un
canale su Youtube:
Ho trascritto le omelie che vi sono state
pronunciate. In precedenza avevo trascritto le omelie pronunciate dal Cardinal
Vicario e da alcuni vescovi ausiliari nella cappella Gesù Buon Pastore
della Conferenza Episcopale italiana, qui a Roma. Le ho pubblicate sul blog acvivearomavalli@blogspot.it. Le pubblico
nuovamente ora, raccolte insieme. Alle
omelie faccio precedere un intervento, che mi è parso molto significativo,
dell’Arcivescovo di Milano, Mario Delpini, all’inizio del lockdown, e il testo di un discorso da lui tenuto nel dicembre del 2018, con l'esortazione a mantenersi sempre persone ragionevoli e a farlo insieme, condividendo la ragionevolezza.
Ho trascritto le omelie dalle fonoregistrazioni che ne ho fatto in occasione delle dirette delle Messe. Ho invece trovato pubblicato sul WEB gli interventi di mons. Delpini,
2.
La pandemia da Covid-19 ha sorpreso la nostra coscienza
religiosa. Ha messo in crisi la convinzione di molti che le sorti del mondo
siano saldamente in mano al Cielo e che
quindi siano dirette come in religione si ritiene che si debba farlo, quindi seguendo le indicazioni
dei maestri della fede. La prima idea è sicuramente implicata nelle nostre
convinzioni religiose, un Creatore c’è, la
seconda no, perché in realtà noi, specialmente quando ragioniamo sui fatti di
natura, non vi riusciamo a trovare un senso come ci aspetteremmo che avessero.
Cerchiamo di leggere le dinamiche di natura alla luce della fede,
ma esse non sembrano scritte con la lingua della fede. Non è questione della
nostra poca fede, per cui, se fossimo
maggiormente credenti o sapienti, potremmo capirle. Non dobbiamo
colpevolizzarci e colpevolizzare. La difficoltà è reale. La natura,
contrariamente alla convinzione a cui in genere giungono i teologi, coloro che
ragionano da dotti sulla nostra fede, a volte lascia trasparire un certo senso
che si può inserire nella nostra fede, a volte no. Ma ci si può fare poco: è
sempre andata così, tanto che se ne parla diffusamente nella Bibbia. Del resto,
storicamente, ogni cultura ha espresso ed esprime la sua religione e ogni
religione si è trovata, e si trova, di fronte alle medesime difficoltà. Non
solo la natura e le persone, ma anche il Fondamento soprannaturale, sembrano in
qualche modo restii a seguire i suoi orientamenti.
“La fede” - è stato osservato - “un urlo nel
buio e nessuno risponde!”.
Ecco come l’esperienza venne rappresentata dal grande regista Ingmar Bergman nel film Il
Settimo Sigillo, del 1957, mio anno
di nascita.
°°°
Un cavaliere di ritorno da una Crociata si ferma, sulla via verso il
suo castello, in una chiesetta nella
campagna. I luoghi che attraversa sono colpiti da una pestilenza. Dopo essersi
soffermato in preghiera davanti un Crocifisso,
il cavaliere si avvicina ad una grata, al di là della quale intravede un
confessore, con indosso un saio nero, con il cappuccio che gli nasconde il
volto. Al posto del confessore c’è la Morte, con la quale il cavaliere ha da
poco iniziato una partita a scacchi.
Il cavaliere: Vorrei confessarmi, ma non
ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che
sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e
paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili
simili. Vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni e dalle mie fantasie.
La Morte Non credi che sarebbe meglio morire?
Il cavaliere E’ vero…
La Morte Perché non smetti di lottare?
Il cavaliere E’ l’ignoto che m’atterrisce.
La Morte Il terrore è figlio del buio …
Il cavaliere Che sia impossibile sapere … Ma perché,
perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? … Per quale ragione si
nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili
miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E che cosa sarà
di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso
uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me, sia pure in modo
vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio
cuore? E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente
richiamo di cui non riesco a liberarmi? … Mi ascolti?...
La Morte Certo…
Il cavaliere Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi,
voglio la certezza … voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto
nascosto, e voglio che mi parli! …
La Morte Il suo silenzio non ti parla?
Il cavaliere Lo chiamo e lo invoco … e se egli non
risponde, io penso che non esiste…
La Morte Forse è così, forse non esiste…
Il cavaliere Allora la vita non è che un vuoto senza
fine! Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel
nulla, senza speranza…
La Morte Molta gente non pensa né alla morte né alla
vanità delle cose.
Il cavaliere Ma verrà il giorno in cui si troveranno
all’estremo limite della vita…
La Morte Sì, sull’orlo dell’abisso…
Il cavaliere Lo so … Lo so ciò che dovrebbero fare!
Dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine alla quale dare poi il nome
di Dio.
La Morte Sei molto agitato…
Il cavaliere Stamane è venuta da me la Morte; abbiamo
iniziato una partita a scacchi … col tempo che guadagnerò sistemerò una
faccenda che mi sta a cuore.
La Morte E di che si tratta?
Il cavaliere Ho passato la vita a far la guerra, ad
andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione … un vuoto.
E lo dico senza amarezza e senza vergognarmene, perché lo so che la vita della
maggior parte della gente è tale. Ma ora voglio utilizzare il respiro che mi
sarà concesso per un’azione utile.
La Morte Per questo hai sfidato a scacchi la morte?
Il cavaliere Sì, conosce il gioco molto bene, ma fino a
questo momento io non ho perso una pedina.
La Morte E credi davvero che alla fine riuscirai a
batterla?
più avanti
Durante una sosta per riposare e per consumare un po’ di latte e delle
fragole con il suo scudiero e con due saltimbanchi, marito e moglie, conosciuti
per via.
Il cavaliere La fede è una pena così dolorosa … è come
amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto lo si
invochi…
°°°
Di fronte ai rovesci della nostra sorte e
alle catastrofi della natura, dunque, ci interroghiamo: “Perché?”, “Perché a
me?”, “Perché capita a persone incolpevoli?”.
I predicatori cercano di aiutarci.
Vivere si deve: si vive anche se non si trova
il senso del vivere. Ma, trovando un senso, si vive meglio, e innanzi tutto si
possono fare progetti. Senza orientamenti non si può progettare, si è
completamente in preda degli eventi.
Spesso i mali colpiscono solo una parte della
gente, così chi si salva si consola e chi è coinvolto spera di uscirne. Ma la
pandemia che si è abbattuta sull’Italia ha colpito tutti, ha messo in pericolo
tutti, e le misure di prevenzione che si sono rese necessaria per combatterne
l’espansione hanno cambiato la vita di tutti, malati o non.
Come vivere da persone religiose in tempo di lockdown? Si è riusciti a trovare un
senso religioso a questa esperienza? In realtà spesso l’abbiamo vissuta più che altro come
qualcosa di transitorio, pensando di poter ritrovare presto una normalità,
passata l’emergenza. Scienziati e clinici ci avvertono però: il pericolo
probabilmente rimarrà a lungo, anche se le
misure di prevenzione che abbiamo imparato ad attuare potranno evitare
situazioni come quella che abbiamo vissuto tra febbraio e maggio 2020. Ma, a
ben considerare, l’esistenza degli umani è sempre sottoposta ad una certa
inevitabile precarietà, anche questo c’è nella Bibbia, anche se, assumendo una
mentalità che bada innanzi tutto al giorno per giorno evitando di spingere lo
sguardo molto più in là, non ci si pensa. Dunque, la predicazione in tempo di lockdown può tornare utile anche al di là
dell’emergenza sanitaria.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
****************************************************
MARIO DELPINI
ARCIVESCOVO DI MILANO
-
La potenza della sua
RESURREZIONE (Fil 3,10)
[Voglio
solo conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione. Voglio soffrire e
morire in comunione con lui]
-
Messaggio di speranza
per questa Pasqua 2020
Carissimi, avevamo
immaginato un’altra Pasqua e anche quanto ho scritto per il tempo pasquale
proponeva attenzioni più consuete. Mi sembra giusto riproporre lo stesso testo
inserito nella proposta pastorale La situazione è occasione, anche
se si rivela fuori contesto. Desidero però accompagnarlo condividendo qualche
riflessione per vivere la Pasqua di quest’anno, segnata dal drammatico impatto
dell’epidemia e da tante forme di testimonianza di fede, di speranza, di
generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di smarrimento.
Non pensavamo che la morte fosse così vicina
Noi, vivi, sani, impegnati in molte cose siamo abituati a pensare alla
morte come a un evento così lontano, così estraneo, così riservato ad altri: ci
sembra persino un’espressione di cattivo gusto quando si insinua l’idea che
possa riguardare anche noi, e proprio adesso. Io non so quante siano le persone
che muoiono a Milano nei tempi “normali”. Adesso però i numeri impressionano,
anche perché tra quei numeri c’è sempre qualcuno che conosco. La morte è
diventata vicina, interessa le persone che mi sono care, i confratelli, le
presenze quotidiane negli ambienti del lavoro, del riposo. Ogni volta che si
parla di un ricovero, ogni volta che si dice: «Si è aggravato» si è subito
indotti a pensare che l’esito sia fatale, tanto la morte è vicina, visita ogni
parte della città e del Paese. E ogni volta che si avverte un malessere, una
tosse che non guarisce, un brivido di paura e di smarrimento percorre la
schiena. La morte vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da
discutere.
I conti aperti, i lavori
incompiuti, gli affetti sospesi insinuano una specie di terrore: «Sì, lo so che
viene la morte, ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!».
Ma si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la
morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e
non ci pensavamo. Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala
e con più intenso pensiero.
Non pensavamo che fosse così difficile
riconoscere la presenza del Signore risorto
La città secolare da tempo ha decretato
l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita pubblica; ma per
i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una sorta di ovvietà.
In ogni situazione era spontaneo riconoscere la presenza reale nell’eucaristia,
l’origine di ogni male e di ogni bene dalla volontà di Dio, la conferma della
sua provvidenza, l’aspettativa della sua giustizia nel premio e nel castigo.
In questo tempo è molto
cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne è nata una qualche nostalgia
per chi non ci pensava più e persino quelli che non sanno dove siano le chiese
si sono interessati per sapere se siano aperte o chiuse. Per i devoti però
quello che era ovvio è diventato problematico. L’antica domanda che mette alla
prova il Signore è rinata spontanea: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es
17,7). C’è un bisogno di segni che lo dimostrino, un’invocazione di
esposizioni, processioni, consacrazioni: dicono un desiderio sincero di essere
confermati nella fede da una evidenza, da un intervento incontrovertibile. I
segni della presenza del Risorto, cioè le ferite subite per la sua fedeltà
nell’amore, risultano inadeguati all’attesa di una benedizione, di una
protezione che dovrebbe mettere al sicuro i suoi fedeli. L’esito è che suonano
stonate le certezze della città secolare che si costruiva orgogliosa e vincente
a prescindere da Dio. E risultano più fragili le certezze dei devoti che devono
constatare che «vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il
malvagio» (Qo 9,2).
«Perché allora ho cercato
d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?» (Qo 2,15). Non pensavamo che fosse così
difficile riconoscere la presenza del Risorto, riconoscere la sua potenza che
salva per vie che le aspettative umane non possono prescrivere, lasciarsi avvolgere
dalla sua gloria, così diversa da come la immaginano gli umani. Siamo chiamati
a entrare con fede più semplice e più sapiente nella promessa di Gesù: «In
verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47), per
capire meglio la rivelazione: «Questa è la vita eterna: che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).
Non pensavamo che fosse così necessario
celebrare insieme i santi misteri
“Andare a messa”, il rito della
domenica, è sembrato per decenni una buona abitudine facoltativa, dopo la fine
di un cristianesimo governato da precetti e minacce. Una buona abitudine da
riservare a qualche festa solenne, a qualche rito di famiglia, a qualche
domenica insieme per accontentare il bambino. Una buona abitudine in
concorrenza con altre: la visita alla nonna, il corso di sci, le occasioni del
centro commerciale, le partite di campionato. Il richiamo della nonna o del
papà: «Sei andato a messa?» è, tutto sommato, un fastidio sopportabile,
inefficace e, in sostanza, rassegnato. Nelle discussioni in classe o in ufficio
sembra quasi un segno di maturità e di spirito critico professare: «Sì, sono
credente, ma a modo mio, penso con la mia testa; sì credente e non praticante».
Quando le celebrazioni sono state impedite, quando sono state sostituite da
trasmissioni televisive, quando ogni prete ha dovuto inventarsi un qualche modo
virtuale per entrare nelle case, per far sentire un segno di prossimità e di
premura pastorale, quando catechisti e catechiste, educatori e ministri
straordinari hanno raggiunto i “loro ragazzi”, i “loro malati” tramite il
cellulare, i credenti hanno percepito che mancava la cosa più importante. Sì,
sono gradite la premura, la parola buona, la frase del Vangelo; sì, aiuta la
proposta di non perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Sì,
tutto vero. Ma trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare,
stringere le mani amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è
tutt’altro. Di questo sentiamo la mancanza. Quando abbiamo fame, non potremo
mai sfamarci guardando una fotografia del pane. Quando siamo sospesi
sull’abisso del nulla, l’espressione intelligente “credente ma a modo mio,
credente ma non praticante” suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria
là dove per attraversare la tempesta abbiamo bisogno di una presenza
affidabile, di un abbraccio, di una comunione reale con Gesù, per essere nella
vita di Dio. Niente di meno. Poter “andare a messa” sarebbe il segno che è
tornata la normalità non solo nella libertà di movimento, ma nella convinzione
che non si tratta di buone abitudini, ma di una questione di vita e di morte.
Il pane della vita non è infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza
Gesù non possiamo fare niente: le buone idee, la buona educazione, i buoni
propositi sono tutte cose importanti. Ma abbiamo bisogno di una parola che
illumini il nostro passo, di un credere che sia vivere della relazione decisiva
con Dio, di uno spezzare il pane della vita per non morire in eterno. Abbiamo
bisogno di diventare un solo corpo e un solo spirito spezzando l’unico pane. Se
in questo tempo abbiamo provato l’emozione di pregare insieme in casa, abbiamo
imparato che è possibile, che unisce, che non esaurisce il desiderio di
incontrare il Signore e anzi fa crescere il desiderio di “andare a messa”. Si
deve raccomandare che nella “chiesa domestica” si conservino sempre i riti
della preghiera e che il ritrovarsi in casa aiuti a sentirsi parte della grande
Chiesa che ci raduna da tutte le genti.
Non pensavamo che fosse così necessaria
la resurrezione per la nostra speranza
Nel linguaggio comune la speranza si è
banalizzata a significare un’aspettativa fondata su previsioni più o meno
attendibili, di cui si è, però, sentito parlare da qualche titolo sbirciato
sfogliando pagine web. «Speriamo che domani sia bel tempo; speriamo che piova
al momento giusto e che la vendemmia sia abbondante; speriamo di vincere il
concorso e chiudere il contratto…» Anzi, di speranza è meglio che parlino i
poveracci. Le persone serie elaborano progetti, confrontano risorse, mettono in
bilancio anche la voce imprevisti, perché è ragionevole aver tutto sotto
controllo. Si danno da fare, non si aspettano niente da nessuno, sono convinte
che se vuoi qualche cosa devi conquistartelo. Anche le persone serie dicono
talvolta «Speriamo» e incrociano le dita: è più una scaramanzia che una
speranza. Ma quando irrompe il nemico che blocca tutto, che paralizza la città,
che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze
vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice
della Borsa. La percezione del pericolo estremo costringe a una visione diversa
delle cose e a una verifica più drammatica di quello che possiamo sperare.
Nella vita cristiana rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere,
dalla “solita storia” i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere
buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. Ma
quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo,
allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la
morte. «Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione,
vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). «Ma se Cristo non è risorto, vana è
la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che
sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo
soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor
15,17-19).
Buona Pasqua!
In conclusione desidero che giunga
a tutti l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a una
celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni,
festose, gloriose alle quali siamo abituati.
La nostra Pasqua, vissuta più in casa
che in chiesa, è la cena secondo Giovanni: i suoi segni espressivi sono la
lavanda dei piedi, la rivelazione intensa agli amici dei pensieri più profondi,
la preghiera più accorata al Padre. La nostra Pasqua quest’anno rivive quella
sera: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le
porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne
Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Incomincia così
una storia nuova. Perciò posso invitarvi ancora a orientare il nostro cammino
di Chiesa, con quanto ho scritto: «Siate sempre lieti nel Signore!»
(Fil 4,4). Lettera per il tempo pasquale.*
Pace a voi! Buona Pasqua.
+ Mario Delpini Arcivescovo Milano,
25 marzo 2020
* Testo estratto da Mario Delpini, La
situazione è occasione. Per il progresso e la gioia della vostra fede, proposta
pastorale per l’anno 2019-2020, che è stato distribuito con il quotidiano
«Avvenire» domenica 12 aprile 2020.
*********************
Discorso alla Città - Basilica di Sant’Ambrogio – Milano, 6 dicembre
2018
Mario Delpini -
Arcivescovo di Milano
°°°°°°°°°°°°°°°°
Dalla Lettera di Giacomo 3,13-4,8
Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le
sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore
gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la
verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale,
diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni
sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è
pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti,
imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella
pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?
Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?
Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e
non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non
chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le
vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico
di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse
pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito,
che egli ha fatto abitare in noi»? Anzi, ci concede la grazia più grande; per
questo dice: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia».
Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da
voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le
vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori.
°°°°°°°°°°°°°°°°
La Lettera di Giacomo interpreta le
dinamiche conflittuali della comunità come l’emergere di passioni che rendono
stolti: la possibilità della pace è offerta da una sapienza che viene
dall’alto, da un’intelligenza benevola, da un pensiero che si ispiri alla
vicinanza di Dio. C’è dunque anche la possibilità di pensare, siamo autorizzati
a pensare. È questa la sostanza della riflessione che mi permetto di offrire
alla città in occasione della festa del patrono sant’Ambrogio. È questo il
percorso promettente che mi dichiaro disponibile a continuare insieme con tutti
coloro che abitano in città e ne desiderano il bene. Siamo autorizzati anche a
pensare!
1.
Pressati dall’emotività e dalla suscettibilità: insistere per essere persone
ragionevoli
Sono diffusi in ogni tempo e
in ogni luogo atteggiamenti emotivi, reazioni istintive, passioni cieche, come
attesta l’antico scritto di san Giacomo (Gc 4,1ss). Non stupisce quindi che
emotività e passionalità siano presenti anche oggi, anche qui, anche nella
città. L’emozione non è un male, ma non è una ragione. Forse in questo momento
l’intensità delle emozioni è particolarmente determinante nei comportamenti.
Ciascuno si ritiene criterio del bene e del male, del diritto e del torto:
quello che io sento è indiscutibile, quello che io voglio è insindacabile.
Chi presta un servizio pubblico alla
comunità deve confrontarsi ogni giorno con la gente e viene messo alla prova
continuamente dalle persone che aspettano, dalle persone che chiedono, dalle
persone che hanno fretta. Ci vogliono molta pazienza, capacità di relazione,
predisposizione all’empatia e alla comprensione, autocontrollo nelle reazioni,
per portare alcune richieste a buon fine, mentre alle spalle premono impazienti
molti altri che pure hanno diritto ad essere serviti. Desidero esprimere il mio
apprezzamento per gli operatori che sanno accogliere con particolare attenzione
coloro che si trovano in condizioni di necessità, sprovveduti e smarriti di
fronte alle procedure per ottenere le prestazioni cui hanno diritto,
imbarazzati davanti a operatori con cui è faticoso intendersi. Coloro che
prestano un pubblico servizio constatano ogni giorno che ci sono molte persone
che vivono le loro legittime aspettative con atteggiamenti di pretesa
arrogante. La pretesa non è il far valere i propri diritti, ma è mancare di
comprensione nei confronti degli operatori e delle regole che essi devono
rispettare, esigere di essere serviti e ascoltati come se si fosse soli al
mondo, insinuare una malizia e una colpevole disattenzione là dove il servizio
non è prestato secondo le proprie aspettative. Si può forse dire che la
“cultura post-moderna”, se si può usare il termine “cultura” in questa
accezione, esalta l’emozione, lo slogan gridato, stuzzica la suscettibilità e
deprime il pensiero riflessivo. Il comportamento di fronte a uno sportello è
solo il sintomo di una sensibilità che si è ammalata di suscettibilità, di un
pregiudiziale atteggiamento di discredito verso le istituzioni e in particolare
verso i servizi pubblici più vicini ai cittadini, che si tratti dell’ambito
scolastico o di quello sanitario o di quello tributario o di quello dei
trasporti o dell’ecologia urbana o di qualsiasi altro. La mia intenzione,
ovviamente, non è di avallare le inadempienze o di giustificare i disservizi.
Piuttosto credo che la convivenza in città sarebbe più serena e la presenza di
tutti più costruttiva se, dominando l’impazienza e le pretese, potessimo essere
tutti più ragionevoli, comprensivi, realisti nel considerare quello che si fa,
quello che si può fare per migliorare e anche quello che non si può fare. Ecco:
siamo autorizzati a pensare, ad essere persone ragionevoli.
Con ciò non voglio certo
mortificare il valore degli affetti, dei sentimenti e delle emozioni, che sono
parte costitutiva dell’esperienza umana e delle relazioni. Desidero piuttosto
evidenziare il rischio di lasciarsi dominare da reazioni emotive e farle valere
come se fossero delle vere e proprie ragioni su cui fondare le nostre scelte e
avanzare rivendicazioni. Questa confusione tra ragioni ed emozioni spesso può
complicare gravemente la convivenza civile.
2.
Condizionati dagli slogan e dalla costruzione del consenso: insistere per
essere persone ragionevoli
Nel dibattito pubblico, nel
confronto tra le parti, nella campagna elettorale, il linguaggio tende a
degenerare in espressioni aggressive, l’argomentazione si riduce a espressioni
a effetto, le proposte si esprimono con slogan riduttivi piuttosto che con
elaborazioni persuasive. L’animosità nel confronto è, in certa misura, un
tratto caratteristico dell’appassionarsi per una causa che si ritiene
meritevole di dedizione e di determinazione. Tuttavia credo che il consenso
costruito con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano
paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali, non giovi al bene dei
cittadini e non favorisca la partecipazione democratica. La partecipazione
democratica e la corresponsabilità per il bene comune crescono, a me sembra, se
si condividono pensieri e non solo emozioni, informazioni obiettive e non solo
titoli a effetto, confronti su dati e programmi e non solo insulti e
insinuazioni, desideri e non solo ricerca compulsiva di risposta ai bisogni.
Pertanto credo sia opportuno un invito ad affrontare le questioni complesse e
improrogabili con quella ragionevolezza che cerca di leggere la realtà con un
vigile senso critico e che esplora percorsi con un realismo appassionato e
illuminato. La gente che abita le nostre terre – posso attestarlo per
esperienza – ha risorse di intelligenza e di riflessione che anche nel
dibattito pubblico, anche nel confronto quotidiano, anche nell’esercizio delle
responsabilità amministrative devono esercitarsi per la ricerca di percorsi
promettenti. Mi sembra che siano inscritti nell’animo della nostra gente una
profonda diffidenza per ogni fanatismo, un naturale scetticismo per ogni proposta
di ricette che promettono rapida e facile soluzione per problemi complicati e
difficili. Mi sembra che sia connaturale con i tratti che ci caratterizzano una
capacità di determinazione e di sacrificio. Ci è congeniale la coscienza che le
spaccature che dividono sono ardue da ricomporre, che le offese che feriscono
sono dure da guarire, che le informazioni scorrette che squalificano sono
difficili da rettificare. La ragionevolezza che si può anche chiamare “buon
senso” – espressione di un senso buono –, l’intelligenza e la competenza che
possono maturare in saggezza, una disposizione alla stima vicendevole che si
può ritenere fondamentale per una convivenza serena possono creare consenso con
argomentazioni, danno forma ad alleanze tra le forze in gioco che presuppongono
l’affidabilità delle persone e delle organizzazioni che vi convergono. Occorre
riscoprire la cultura e il pensiero che danno buone ragioni alla fiducia, alla
reciproca relazione, a quella sapienza che viene dall’alto che “anzitutto è
pura, poi pacifica, mite”. Insomma siamo autorizzati a pensare.
3.
Insofferenti per l’intralcio incomprensibile delle procedure: avviare percorsi
di semplificazione ragionevoli
Il desiderio di comprendere le
procedure richieste per molti adempimenti, d’altra parte inevitabili, risulta
spesso irrealizzabile. La complicazione della normativa, delle pratiche
burocratiche, delle procedure di verifica e di rendicontazione pervade molti
aspetti della vita dei cittadini. Si ha talora l’impressione che l’impianto
complessivo sia ispirato da una sorta di pregiudiziale sospetto sul cittadino,
come fosse scontato che la gente sia naturalmente disonesta e incline a
contravvenire alle regole. Ne deriva una specie di ossessione per la
documentazione e i controlli: le pratiche si gonfiano in modo spropositato, i
tempi per le autorizzazioni si prolungano in maniera esasperante. Ne risulta
intralciata e paralizzata l’intraprendenza della creatività e della generosità,
degli imprenditori come degli operatori sociali. Ne consegue anche una sorta di
anonimato della pubblica amministrazione e dei servizi al cittadino. La
normativa che impone adempimenti complessi offre appigli per quella litigiosità
aggressiva e irrazionale che può esporre i responsabili a beghe interminabili.
Pertanto diventa comprensibile la tendenza a evitare di prendersi
responsabilità da parte dei singoli operatori, sempre intimoriti dalle
possibili conseguenze legali dei loro atti, che si tratti di pratiche sanitarie
o assistenziali o autorizzative. L’operatore si ripara dietro il controllo
degli adempimenti formali e pretende estenuanti forme di garanzie. Forse che
“la patria del diritto”, come si può definire l’Italia, sia diventata un
condominio di azzeccagarbugli litigiosi? Mi sembra che si debba insistere in
quei percorsi di semplificazione che sono spesso enunciati e promessi per
rendere più facile essere buoni cittadini, onesti e in regola con la pubblica
amministrazione, per favorire l’intraprendenza di imprenditori e di operatori
negli ambiti del servizio ai cittadini e della solidarietà. È però evidente che
i percorsi promessi e avviati presuppongono il recupero di una fiducia tra i
cittadini, e tra cittadini e pubblica amministrazione. Non servirà semplificare
le procedure se perdura il sospetto sul cittadino come incline a delinquere e
se rimane radicata nel cittadino l’inclinazione alla litigiosità e alla
suscettibilità che è insofferente delle regole del vivere insieme e del
rispetto reciproco. Il rispetto delle regole e del prossimo è un frutto del
senso civico, del senso di appartenenza alla comunità, della persuasione che il
bene comune del convivere in pace sia da anteporre all’interesse privato
momentaneo e che il danno arrecato a una comunità prima o poi danneggi anche
chi lo compie. La riscoperta e la valorizzazione del bene comune (e non solo
dei beni comuni, dei beni privati e di quelli pubblici), oltre lo Stato e il
mercato, può favorire la rigenerazione della cittadinanza, come vivibilità e
appartenenza civile. Non penso sia fuori luogo richiamare qui la sapienza
evangelica che ci spinge a non considerare mai l’uomo a servizio della legge e
delle regole, ma, al contrario, a comprendere che una legge giusta è sempre in
favore dell’uomo e della sua libertà. «Non è l’uomo per il sabato, ma il sabato
per l’uomo», diceva Gesù ai suoi interlocutori. Lavoriamo dunque perché le
nostre regole e procedure siano a servizio del cittadino e della buona
convivenza sociale. Insomma, siamo autorizzati a pensare.
4.Autorizzati
a pensare
I tre aspetti ricordati (le
pretese indiscutibili, il consenso emotivo, le procedure esasperanti) sono
buone motivazioni per formulare il desiderio di una ragionevolezza diffusa.
Siamo infatti autorizzati a pensare: essere persone ragionevoli è un contributo
indispensabile per il bene comune. Questo evoca la solidarietà/fraternità della
condivisione relazionale. Nella comunità del pensare riflessivo, e non del
vociare emotivo, si riconosce, si promuove, si custodisce e si propizia
l’umano-che-è-comune. Nell’Enciclica Populorum Progressio, nel 1967, san Paolo
VI scriveva: E se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Noi
convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani,
quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di
verità: tutti gli uomini di buona volontà. Sull’esempio di Cristo, Noi osiamo
pregarvi pressantemente: «Cercate e troverete», aprite le vie che conducono,
attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento
del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale
(Paolo VI, Populorum Progressio, 85).
E Benedetto XVI commentava
l’espressione di Paolo VI in Caritas in veritate, 53 scrivendo: L’affermazione
[di Paolo VI] contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un
nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro
essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a
questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà
piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un
approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta
di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto
richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in
maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo. La creatura umana, in
quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le
vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è
isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli
altri e con Dio. L’importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale.
Ciò vale anche per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una
visione metafisica della relazione tra le persone. A questo riguardo, la
ragione trova ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo
la quale la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone
l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza
ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un
altro tutto.
4.1 A proposito del “pensare”: possiamo
disturbare le accademie? Non sono nelle condizioni per addentrarmi nell’analisi
sistematica del pensiero, delle condizioni e dei processi che possono
contribuire a migliorare i rapporti tra i cittadini e la pubblica
amministrazione, tra i cittadini e le istituzioni e nelle dinamiche comunitarie
in genere. Ritengo che sia responsabilità degli intellettuali e degli studiosi
di scienze umane e sociali approfondire la questione e comunicarne i risultati.
La nostra città, in cui università e istituzioni culturali sono così
significative e apprezzate, è chiamata a produrre e a proporre un pensiero
politico, sociale, economico, culturale che superando gli ambiti troppo isolati
delle singole discipline possa aiutare a leggere il presente e a immaginare il
futuro.
Credo che saremmo tutti
fieri se proprio qui a Milano si approfondissero riflessioni, si promuovessero
confronti, si potessero riconoscere scuole e programmi, prospettive e
responsabilità. Il nostro senso pratico ci rende allergici alle chiacchiere e alle
celebrazioni inconcludenti. Ma Milano è così ricca di punti di vista, di luoghi
di ricerca specializzati, di posizioni anche contrapposte che si corre il
rischio di una babele di linguaggi che risultano reciprocamente estranei e non
interessati a comprensione e arricchimenti reciproci. Forse insieme possiamo
coltivare un senso di responsabilità che ci impegna a un esercizio pubblico
dell’intelligenza, che si metta a servizio della convivenza di tutti, che sia
attenta a dare la parola a ogni componente della città, che raccolga
l’aspirazione di tutti a vivere insieme, ad affrontare insieme i problemi e i
bisogni, a recensire insieme risorse e potenzialità. Mi sembra significativo il
contributo che a questa impresa hanno offerto e offrono i cristiani presenti
nelle accademie della città e protagonisti della ricerca e della riflessione
nelle istituzioni culturali della comunità cristiana, in particolare in
Università cattolica, nella Facoltà teologica e nelle numerose scuole pubbliche
paritarie cattoliche e di ispirazione cristiana diffuse capillarmente sul
territorio.
4.2 Pensare non è solo analisi e calcolo
Il pensiero, la ragione, l’intelligenza sono esposti al rischio di lasciarsi
strumentalizzare, come ogni altra risorsa umana. Nella storia del secolo scorso
è stata clamorosa la strumentalizzazione degli intellettuali e della ricerca
scientifica a servizio delle ideologie dominanti aggressive e violente. Le
risorse del pensiero umano, messe a servizio dell’ideologia, hanno ingigantito
la potenza dell’aggressività, la capacità distruttiva delle armi, l’oppressione
della libertà delle persone e delle istituzioni che resistevano all’ideologia.
Il nostro continente ne è stato disastrato e non abbiamo ancora finito di
curare le ferite e di superare i sensi di colpa. Nella recente rivoluzione
digitale si può insinuare il rischio di una assolutizzazione della tecnologia,
come se quest’ultima potesse sostituire la responsabilità di pensare e l’onere
di scegliere. Il pensare resta mortificato nella morsa di una tecnologia
globalizzata e di una politica localizzata: ne consegue un offuscamento del
dato, cioè del mondo nel suo essere “qui e ora”, che svanisce in un virtuale
inafferrabile e irresponsabile. Non è infatti estranea al nostro tempo la
tentazione di asservire il pensiero alle tendenze diffuse, piuttosto che
esercitare il ruolo e la responsabilità di offrire una riflessione critica e
generativa. Tra le tendenze che oggi minano il pensare mi pare che sia
insidioso l’utilitarismo che riduce il valore all’utile immediato e
quantificabile, che si chiami profitto, consenso, indice di gradimento. Il
pensiero asservito all’utilitarismo si riduce a calcolo, quindi a valutare
risorse e mezzi in vista di un risultato per lo più individuale o
corporativistico piuttosto che di un fine comune e condiviso. Pertanto si
rinuncia alla riflessione sulle domande di senso, relegando l’argomento
nell’irrazionale e nel sentimentale, escluso per principio dalla sfera pubblica
e dalla possibilità di una dimensione sociale. È evidente che la gestione della
cosa pubblica e l’organizzazione della vita sociale e dei servizi richiedono
una capacità di analisi e di calcolo, ma il pensiero non può essere ridotto a
questo. Vogliamo lavorare per superare il mero “pensiero calcolante” in favore di
un allargamento del concetto di ragione; un pensiero realista, che abbia a
cuore la ricerca continua della verità e del bene condiviso, libera da
pregiudizi, aperta agli altri e alla domanda di senso. Occorre riconsiderare e
ricomprendere la differenza tra utilità, che consiste in una relazione tra
persona e cosa, e felicità, che consiste nella relazione tra una persona e
un’altra e che non può rinunciare alla speranza del compimento.
4.3 Pensare è dare forma a una visione di
futuro La responsabilità per la civitas, che coinvolge tutti gli abitanti e in
un modo più grave coloro che sono chiamati dai cittadini ad amministrarla,
trova motivazione e orientamento dalla visione del bene da propiziare,
difendere, costruire e dalla individuazione delle risorse, dei percorsi, delle
possibilità realistiche per dare alla visione concretezza storica. Nel contesto
democratico in cui viviamo è legittimo che convivano visioni diverse e che
queste visioni diano origine ad alleanze di persone e gruppi che si impegnano
per realizzare intenti differenti. Tuttavia la riflessione non troppo
condizionata da pregiudizi indiscutibili e da relitti di ideologie può forse
convenire su alcuni aspetti comuni, su bisogni e priorità che urgono, su
desideri ricercati e attesi. Dobbiamo confidare nel fatto che la giovane
generazione di oggi abbia una particolare vocazione al pensare che guarda
lontano, anche perché può essere più libera da puntigli e ideologie della
generazione dei loro padri. Credo che, quanto agli aspetti comuni di una visione
di futuro, si possa convergere su quel cammino che porta a una convivenza
pacifica e solidale e che intenda l’Europa come convivenza di popoli. La
complessità e le problematiche che hanno segnato il concreto configurarsi
dell’Unione Europea richiedono una ripresa delle intenzioni originarie: i
cittadini d’Europa erano e sono persuasi che siano da preferire l’unione alla
divisione, la collaborazione alla concorrenza, la pace alla guerra. Siamo
impegnati e motivati per una partecipazione costruttiva alle vicende europee:
vogliamo dare volto all’Unione Europea dei popoli e dei valori, che pensi i
suoi valori e le sue attese nella concretezza storica del tempo presente e di
quello a venire, e che non si occupi di beghe e di interessi contrapposti. In
questo contesto di un cantiere europeo al quale rimettere mano, il nostro Paese
adotta come punto di riferimento fondamentale per la convivenza dei cittadini e
la visione dei rapporti internazionali la Costituzione della Repubblica
Italiana. La carta costituzionale, in quella prima parte dove formula princìpi
e valori fondamentali, non può essere ridotta a un documento da commemorare, né
a un evento tanto ideale quanto irripetibile, ma deve continuare a svolgere il
compito di riconoscere e garantire «i diritti inviolabili dell’uomo» (art. 2),
al fine di promuovere «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese» (art. 3). Queste acquisizioni irrinunciabili sono frutto –
come è doveroso ricordare – di tenace dialogo e confronto fra tradizioni di
pensiero diverse e tuttavia appassionate del primato del bene comune. Credenti
e non credenti hanno messo in comune il proprio patrimonio culturale e sociale
per poter edificare la convivenza civile. Il testo della Costituzione ci
ricorda innanzitutto un metodo di lavoro, che vale anche per noi: le differenze
si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro. È
doveroso che la generazione dei padri trasmetta ai giovani di oggi quell’ardore
di cui sono stati testimoni i nostri nonni e i nostri padri, quelli almeno che
hanno pensato che l’Italia non fosse condannata a restare sepolta sotto le
macerie della guerra e del totalitarismo, ma potesse risorgere come un Paese in
cui fosse desiderabile convivere.
4.4 Pensare è riconoscere le priorità da
perseguire nel percorso verso il futuro La recensione delle problematiche che
caratterizzano il momento che viviamo è talora troppo influenzata dal
particolare di cronaca che provoca una reazione emotiva e oscura la
considerazione complessiva della realtà. Gli amministratori locali sono
chiamati a un esercizio di realismo e quindi anche a essere vigili sul rischio
di lasciarsi condizionare da gruppi di pressione che promuovono ideologie o
punti di vista troppo parziali. Talora la risonanza mediatica di una decisione
o di una proposta diventa tentazione che induce ad accondiscendere alle
insistenze per un interesse particolare il cui contributo al bene comune è
discutibile. L’esercizio di una lettura realistica di questo tempo può
individuare alcune priorità che, per quello che mi risulta, sono già condivise.
In una considerazione
pensosa delle prospettive del nostro tempo si dovrà evitare di ridurci a
cercare un capro espiatorio: talora, per esempio, il fenomeno delle migrazioni
e la presenza di migranti, rifugiati, profughi invadono discorsi e fatti di
cronaca, fino a dare l’impressione che siano l’unico problema urgente. Si
devono nominare tra le problematiche emergenti e inevitabili: – la crisi
demografica che sembra condannare la popolazione italiana a un inesorabile e
insostenibile invecchiamento; – la povertà di prospettive per i giovani che
scoraggia progetti di futuro e induce molti a trasgressioni pericolose e a penose
dipendenze; – le difficoltà occupazionali nell’età adulta e nell’età giovanile
e le problematiche del lavoro; – la solitudine il più delle volte disabitata
degli anziani. Queste problematiche sono complesse e non si può ingenuamente
presumere di trovare soluzioni facili e rapide. Ma certo la complessità non può
convincere a rassegnarsi alla diagnosi e all’elenco dei fattori di disagio.
Autorizzati a pensare, possiamo
esplicitare i percorsi che riteniamo promettenti e mettere in atto processi
concreti, lungimiranti, da attuare con determinazione. Personalmente invito
coloro che hanno responsabilità nella società civile ad affrontare con coraggio
le sfide, nella persuasione che questo territorio ha le risorse umane e
materiali per vincerle. E nella mia responsabilità di vescovo di questa Chiesa
confermo che le nostre comunità sono pronte, ci stanno, sono già all’opera. Io
credo che sia onesto riconoscere che le problematiche nominate e anche altre
connesse suggeriscono che la famiglia è la risorsa determinante, è la cellula
vivente: può infatti tenere insieme le età della vita, la cura per il futuro,
la pratica della solidarietà, la prossimità alle fragilità e rendere la città
un luogo in cui sia desiderabile vivere, lavorare, studiare, diventare grandi,
essere curati e assistiti. La famiglia è – a mio parere – il fattore decisivo.
Certo la famiglia non da sola: pertanto mi sembra opportuno invitare le
istituzioni e impegnare la Chiesa diocesana a convergere nel propiziare le
condizioni perché si possano formare famiglie e queste siano aiutate a essere
stabili, a vivere i loro desideri, a praticare le loro responsabilità.
Per questo immagino che i protagonisti
pensosi della vita della città condividano il proposito di prendersi cura del
legame sociale, di nutrire e rafforzare le identità dei nostri territori
(perché sappiano generare ancora energie per processi di aggregazione e di
inclusione che contrastino l’isolamento e la solitudine e che sono tipiche
della nostra cultura), di rilanciare la generosità pubblica e privata, perché
si torni a percepire come un segno di maturità e di intelligenza civica
investire risorse anche economiche per far fronte alle povertà che bussano alle
nostre porte. La comunità cristiana, nelle sue articolazioni territoriali e nella
sua organizzazione centrale, desidera abitare la città per offrire il suo
contributo e collaborare con tutte le istituzioni presenti nel comprendere il
territorio, nell’interpretare il tempo, nel promuovere quell’ecologia globale
che rende abitabile la terra per questa e per le future generazioni. In questo
faccio riferimento con affetto e gratitudine alle indicazioni di papa Francesco
nella Laudato si’.
5. Propiziare
il pensare condiviso
L’invito, forse un po’ provocatorio, per
esercitare il pensiero nella sua vocazione alta a dare forma a una visione,
vorrebbe anche suggerire pratiche ordinarie, momenti di incontro, dialoghi di
vita buona, come ha insegnato e realizzato il cardinale Scola. È del resto
tradizione per i credenti coltivare il pensare, pur riconoscendo che nessuno è
immune dalla tentazione del fanatismo o della sufficienza sprezzante che
diventa meschino esonerarsi dalla ragione. La religione, in questo quadro,
vuole mettersi in cordiale confronto con ogni uomo che cerca la verità e così
concorrere alla ricerca del bene comune, ben sapendo, come insegna Benedetto
XVI, che «la tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano
il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della
rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel
dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non
potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre
soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza
della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce
sull’applicazione della ragione nella scoperta dei princìpi morali oggettivi»
(Benedetto XVI, Discorso alla Westminster Hall, 17 settembre 2010). Nel contesto
di questo quadro più ampio, e a titolo esemplificativo, mi permetto di avanzare
qualche proposta puntuale. La conoscenza della Costituzione della Repubblica
Italiana è un punto di partenza che può ispirare una visione di società comune
a tutti gli abitanti del nostro territorio. Si riconosce che la nostra
Costituzione è un testo che conserva il suo valore, pur con la necessità di
quegli aggiornamenti che il tempo rende inevitabili. Non si potrebbe prendere
l’abitudine di aprire ogni consiglio comunale con la lettura e il commento di
qualche articolo della prima parte della Costituzione? L’educazione civica è
una responsabilità che gli educatori devono esercitare nei confronti delle
giovani generazioni. La sinergia tra gli amministratori e gli operatori della
scuola può incoraggiare iniziative in atto e avviarne di nuove per contribuire
all’educazione degli studenti, che siano italiani da generazioni o che siano
provenienti da altri Paesi. L’interazione della scuola con il territorio, oltre
che con il mondo del lavoro, mi sembra una via promettente per promuovere
l’attenzione al contesto, all’ambiente, al vicinato. Promotori di una
educazione civica in senso ampio possono essere molti operatori di diversi
settori, e so che molti sono disponibili a interventi nelle scuole a questo
scopo: le forze dell’ordine, i giudici, gli operatori sanitari e finanziari.
Come si dice abitualmente: «per educare un bambino ci vuole un villaggio»; così
noi siamo convinti che per educare al pensiero civico e alle responsabilità di
cittadini ci voglia una città che si esprima in modo comprensibile e faccia
riferimento a valori condivisi. La Chiesa ambrosiana prega il Signore perché
doni ai governanti e agli amministratori che operano nelle nostre terre quella
sapienza che viene dall’alto, di cui ci ha parlato l’apostolo Giacomo, perché
essi sappiano essere sempre all’altezza del proprio compito e noi tutti
possiamo vivere nella pace e lavorare sempre per il bene. La Chiesa ambrosiana,
invocando il patrono sant’Ambrogio e ispirandosi al suo esempio, continua a
essere presente, disponibile, generosa nel contribuire, per quello che le è
possibile, a un convivere sereno, solidale, fiducioso.
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Domenica 15 marzo 2020 – 3° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi
dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon
Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e celebrata dal
Cardinal Vicario della Diocesi di Roma Angelo De Donatis.
Carissimi,
il ciclo dell’anno A ci fa percorrere
l’itinerario del catecumeno.
Nella prima domenica di
Quaresima siamo entrati nel deserto con Cristo per combattere la buona
battaglia.
Nella seconda abbiamo
contemplato la meta del cammino: la Trasfigurazione sull’alto monte. Così
abbiamo compreso che lo scopo della prova non è quello di diventare degli eroi,
ma di diventare figli. Figli trasformati dalla luce della Pasqua.
Questo è il nostro destino: la vita piena, dove le lacrime e la
fatica cederanno il posto alla carezza di Dio. Siamo cenere? Sì,
siamo cenere, ma lo Spirito ci trasformerà in luce.
Ora il nostro cammino quaresimale
giunge alla terza tappa.
Il Vangelo proclamato è
ricchissimo. Mi fermo solo su una parola pronunciata da Gesù. Il Maestro seduto
sul pozzo afferma solennemente davanti alla donna samaritana: «l’acqua che io
darà diventerà in voi una sorgente che zampilla per la
vita eterna». Che cos’è quest’acqua, anzi “Chi” è? E’ lo Spirito santo, lo
Spirito riversato nei nostri cuori. Questa è una rivelazione grande. Il
cristiano, ogni battezzato, non è più un mendicante di felicità, un affamato
che va in giro frugando nei rifiuti. Egli stesso è un pozzo, un sorgente
inesauribile di vita. Dio ha messo in ciascuno dei suoi figli tutto ciò che
serve per vivere, tutto ciò che serve per amarlo.
Carissimi, non
Gerusalemme o il monte Garìzim [montagna ad Ovest della città samaritana di
Sichem, in Palestina, dove i samaritani avevano eretto un tempio in
contrapposizione con quello di Gerusalemme - nota mia], ma io e i miei fratelli
siamo il Tempio di Dio sulla terra.
In questo tempo tribolato, in cui
è anche difficile andare nelle nostre chiese di mattoni, e non possiamo
accostarci ai sacramenti, possiamo riscoprire come tutta l’esistenza del
cristiano sia canale di grazia.
Dio non è impotente, è ridicolo
pensare che un virus possa impedirgli di consolare i suoi figli amati, di
parlargli, di irrobustirli nella prova.
Certo non possiamo celebrare
l’Eucaristia come popolo radunato. I riti sono sospesi, ma non il mistero che
in essi è significato. Anche in mezzo all’epidemia possiamo vivere una vita
eucaristica, fatta di gratitudine al Padre, fatta di servizio al prossimo.
Il Dio dell’Esodo parla e insegna
nella storia, anche in questa storia che stiamo vivendo. Dio ascolta il nostro
grido, ci consola, certo, ma ci interroga anche. Ora che i riti sacramentali
tacciono, è il momento di far parlare la profezia. Dio ci chiede, con dolcezza,
quanto ciò che fino a ieri hai celebrato è diventato in te acqua
viva che zampilla per la vita eterna. Quella vita divina che nemmeno un virus
può cancellare.
Verifichiamoci: quanti riti senza
mistero, quante confessioni senza pentimento, quanto Eucaristie senza
ringraziamento, quanti matrimoni a fedeltà intermittente, quanto carità fatta
senza amore? Non chi dice “Signore! Signore!” entrerà nella vita
eterna.
Fratelli e sorelle carissimi, la
samaritana è andata al pozzo come una rifiutata ed è tornata a casa da sposa.
Ha scoperto che il Tempio di Dio era lei.
Coraggio!
Riscopriamo la preghiera nelle
nostre famiglie, nel segreto della camera. Riscopriamo la meditazione orante
della Scrittura, che cancella i peccati veniali. Riscopriamo la comunione
spirituale. Riscopriamo l’esame di coscienza fatto bene, a lungo, in attesa di
poter ricevere nuovamente l’assoluzione. E soprattutto, preghiamo con
l’orazione ufficiale della Chiesa, che è la Liturgia delle Ore. E poi, ancora,
preghiamo con il Rosario.
In questo momento, tutti, tutti
noi battezzati, siamo il popolo sacerdotale che intercede per il mondo e che
sparge sul mondo a piene mani l’acqua dissetante del Consolatore.
Un abbraccio paterno a tutti.
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Domenica 22 marzo 2020 – 4° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi
dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon
Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e celebrata dal Vescovo
Ausiliare della Diocesi di Roma mons. Gianpiero Palmieri
Nella vita ci sono le zone oscure, i
momenti bui. Pensiamo che possano capitare solo a qualcun altro. Invece questo
tempo è oscuro per tutti, nessuno escluso. E’ segnato da dolori e ombre, che ci
sono entrate in casa.
Meditare questo Vangelo, celebrare
questa Eurcaristia, ci possono aiutare. Si tratta di consentire alla luce di
Dio diradare le nostre tenebre, dal di dentro: questo lo può fare solo Dio. Da
soli noi possiamo darci un po’ di coraggio, rassicurarci, dirci l’un l’altro
“Ce la faremo!”. Ma sappiamo bene che questo non basta. Il buio di cui si parla
qui è quello del “nato cieco”. Cio cioè dell’uomo che, nel momento stesso in
cui è venuto al mondo, è esposto alla precarietà, all’imprevisto, alla malattia
e alla morte. In questi istanti ci domandiamo: “Ma io sono solo un’esistenza
fragile, appesa a un filo?”, “Sono soltanto questa tenebra fredda che mi entra
nelle ossa?”. Oppure il mio cuore è attraversato da una luce increata, quella
divina, e che sono impastato di terra, sì, ma di una terra destinata ad essere
trasfigurata dalla luce?
Nella prima pagina della
Genesi, nel giorno “uno”, che coincide con l’eternità, Dio dice “Sia la luce!”,
e la luce fu. I commentatori ebrei si chiedevano “Da dove proviene questa
luce?”, dal momento che Dio crea il sole, la luna, le stelle solo al quarto giorno.
E rispondevano “E’ la luce della Parola eterna, uscita dalla bocca di Dio”. Per
questo la comunità del Vangelo di Giovanni, rispondendo alla domanda “Ma chi è
questo Gesù, che abbiamo veduto, udito, toccato, scrive, fin dall’inizio, nel
Prologo, “E’ la Parola”, è il Verbo di Dio, colui che è presso Dio
ed è Dio, che porta la sua tenda in mezzo a noi. In lui è la vita e in lui è la
luce. “Io sono la luce del mondo”, dice Gesù.
Noi uomini, ci dice la
Scrittura, non siamo gettati nell’esistenza per caso. Noi siamo creati da
questa Parola luminosa di Dio e un raggio della sua luce ci rimane per sempre
nel cuore, fa parte di noi. Continua misteriosamente ad agire persino
nell’ombra, persino nella disperazione. Da questo raggio nascono la
spinta alla fraternità reciproca, il desiderio di rimanere umani, la speranza
al di là delle illusioni ottimistiche, la determinazione a non arrenderci, la
spinta ad occuparci dei poveri. Nascono da questa luce interiore che è, per
così dire, un pezzo di Dio, dentro di noi. Qualcosa che dobbiamo custodire e
lasciare agire a noi anche adesso.
Per riaccendere questa luce,
proviamo a identificarci con il cieco nato di cui parla il Vangelo. E’ una
persona per bene. Fin da piccolo ha imparato a saper contare sugli altri, a
vivere affidato alla carità dei fratelli e alla Provvidenza di Dio. E’ uno che
non ha a dire ciò di cui è manchevole - è un “mendicante”, un “menda dicere”
[espressione che in Latino significa “riconoscere i difetti”] -, né a
riconoscere di non sapere, per tre volte dice “Non lo so”, “Non lo conosco”. E’
uno che sa bene che cosa significa essere fragili, esposti al rischio, appesi a
un filo. E’ uno “autentico”. E’ un figlio saggio di Israele e di Dio. Un povero
che partecipa alla fede del suo popolo. Magari quella fede l’ha appresa sulle
ginocchia dei genitori. Non sembra aver mai dato retta alla teoria degli scribi
teologi farisei del suo tempo, per cui Dio l’avrebbe punito con la cecità in
previsione dei suoi peccati o a sconto di quelli dei suoi genitori.
Basta aver ascoltato almeno
una volta qualche brano del libro di Giobbe: ancora oggi Dio non punisce con la pandemia il peccato
degli uomini, ma la cecità, la malattia, anche la pandemia ci ricordano che
siamo inseparabilmente luce e fango, luce impastata nel fango.
Il cieco ha invece
imparato dalla fede semplice ma vera del suo popolo che Dio ascolta, ascolta
chi fa la sua volontà, e che, se Gesù l’ha guarito, è perché Gesù viene da Dio,
e che Dio esulta per la guarigione dei suoi figli, non importa se ha rispettato
il riposo del Sabato oppure no. Dentro di lui, dentro il cieco, la luce cresce
sempre di più. Quell’uomo di nome Gesù è un profeta, viene da Dio, e
nel momento in cui l’incontra, si prostra e fa la sua professione di fede.
“Credi nel Figlio dell’uomo?”, “E chi è Signore, perché io creda a lui?”, “Lo
hai visto. E’ colui che parla con te”: “Credo, Signore”. Questa luce per lui è
sempre più chiara. Lo conquista e lo commuove fin nelle viscere, come il
lebbroso su dieci guariti ritornato a rendere grazie. Non vede solo il miracolo
della guarigione, ma vede chi è colui che lo ha guarito. Il cieco, il lebbroso,
sanno che prima o poi si ammaleranno di nuovo, moriranno. Ma ora
hanno incontrato la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Per questo al
cieco non importa se passerà dall’esclusione sociale legata alla cecità a
quella dovuta al fatto che è stato cacciato dalla Sinagoga. Ormai è un
discepolo di Gesù. Fa parte della fraternità dei suoi discepoli. Ormai ha
imparato che Dio è uno che squarcia le tenebre più fitte, quelle legate alla
condizione umana.
Custodiamo questa luce nel cuore, anzi
lasciamoci custodire dalla luce di Dio. Rendiamo sempre più profonda
la nostra vita spirituale, in questo tempo in cui siamo reclusi forzatamente.
Attraverso l’ascolto della parola, la preghiera personale, in famiglia.
Coltiviamo, anche se a distanza, quelle relazioni che ci fanno bene al cuore, e
prendiamoci cura con tenerezza e con coraggio di chi è povero, di chi è in
difficoltà. Manteniamo uno sguardo fermo, ma luminoso, sulle situazioni. E non
si lasci avvilire il nostro sguardo. Ma sia pieno di speranza.
Alla lunga, non basterà la buona
volontà: servirà essere davvero in contatto con la luce che viene da dentro.
Sentiamoci in profonda
comunione con tutto il popolo santo di Dio, di ogni luogo e di ogni tempo, che
ha saputo affrontare le situazioni più difficili appoggiandosi con fede piena
al Signore. Ricordiamo la fede dei nostri nonni, che hanno attraversato la
guerra; la salvezza di tanti cristiani che in tante parti del mondo hanno
affrontato la persecuzione, le lotte fratricide, le pandemie, come quelle dell’Ebola. Ha
detto papa Francesco che è da qui che dovremo ripartire. Dovremo guardare
ancora di più alle radici. I nonni, gli anziani. Costruire una vera fratellanza
tra noi. Fare memoria di questa difficile esperienza vissuta tutti insieme, e
andare avanti, con speranza, la speranza che mai delude. Queste saranno le
parole chiave per ricominciare, ci ha detto il Papa: radici, memoria,
fratellanza, speranza.
E così sia.
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Domenica 29 marzo 2020 – 5° del Tempo di Quaresima Ordinario - sintesi
dell’omelia della Messa mandata in onda da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla cappella Gesù Buon
Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e celebrata dal (nostro)
Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma mons. Guerino Di Tora
Carissimi fratelli e sorelle,
la Liturgia della Parola di questa
quinta Domenica di Quaresima inizia con la visione di Ezechiele: «Aprirò le
vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri; farò entrare in voi lo
spirito e rivivrete». Visione profetica e di grande speranza. Ad essa fa eco
san Paolo nella lettera ai Romani: «Se lo spirito che ha risuscitato Gesù dai
morti abita in voi, darà anche ai vostri corpi mortali la vita». E ci
introducono nella catechesi del Vangelo. Itinerario di essenzialità, che ci
presenta Gesù che disseta la nostra sete, luce che illumina il nostro cammino,
vita vera che dà vita.
L’evangelista ci porta a Betania,
luogo dove il Signore si recava presso i suoi amici Lazzaro, Marta e Maria.
Siamo al culmine dei segni del Signore: la vittoria della vita sulla morte.
Lazzaro è malato, mandano a
chiamare il Maestro, ma lui non va: l’apparente silenzio di Dio. Quante volte
ci chiediamo: “Dove sei Signore?”. Gesù vuole dare un segno di fronte alla
morte, “Perché voi crediate”. E si vive la tragedia. Lazzaro, amico di Gesù, è
morto. Gesù si fa presente. Le sorelle, come tutti, sono in totale dolore di
disperazione, come accade anche oggi. Quanti di noi, di fronte a morti
improvvise, dolorose, tragiche, poniamo al Signore la stessa domanda di Marta:
“Se tu Signore fossi stato qui, se avessi dato un segno…”. Gesù dice
a lei, allora, ma anche a noi oggi - ricordiamolo, la Parola di Dio è
attualità, ci parla, ci interpella nell’oggi del nostro presente-: «Tu fratello
risorgerà. Io sono la resurrezione e la vita, chi crede
in me vivrà in eterno.» Questa, fratelli e sorelle, è la nostra fede.
Anche
a noi Marta oggi ci dice
“Vieni, il Maestro è qui e ti chiama”. Ci invita ad alzarci, a non stare fermi
nel nostro dolore. Anche di fronte al dolore della morte attuale, Gesù ha compassione. Cum-passio [parola latina, da
cui deriva quella italiana, e che è composta da con e patire, patire con]. Vive anche lui
la passione, il dramma, di ognuno di noi di fronte a quell’ultima barriera
invalicabile che è la morte. Volle essere partecipe: «Dove l’avete portato?».
«Vieni e vedi». Una giorno lui aveva invitato
dei pescatori ad andare a vedere dove lui era. Ora sono delle
persone affrante dal dolore che gli dicono: «Maestro, vieni e vedi». E’ l’uomo,
ognuno di noi, che chiama Dio ad essergli vicino e partecipe nel dolore. Gesù si commuove e
piange. Un Dio che piange! L’Assoluto, l’Eterno! Ci rivela il volto del Dio di
Gesù Cristo, il vero volto di Dio.
Fratello, sorella che soffri, che
sei nell’angoscia, Dio piange con te. Condivide il dolore, la sofferenza e,
sulla Croce, la morte. E Gesù si manifesta Signore della morte e della vita:
«Lazzaro, vieni fuori!». Anche a noi grida: «Vieni fuori!». Esci dalla tua
tomba, dalle tenebre, dalle piccole sicurezze, dai pregiudizi, dagli egoismi.
Torna a vivere!
Il Signore ci chiama a
testimoniare una vita nuova, che va al di là del mistero della morte.
In questi giorni di vita e
di morte, per alcuni di morte atroce, senza conforto, la fede ci fa gridare che
Cristo ha vinto la morte, e ci invita, meditando su di essa, ad un rinnovato
impegno d’amore, per la vita, per la vita di tutti, familiari, amici, poveri,
disagiati, immigrati, rom, nessuno escluso. A lui chiediamo questa forza.
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Sintesi
dell’introduzione alla Settimana Santa pronunciata dal parroco don
Remo Chiavarini all’inizio della la Messa della domenica “Delle Palme” celebrata
in parrocchia il 5 aprile 2020, senza il popolo a causa delle misure di
confinamento sociale per la prevenzione del contagio da Covid-19.
Sintesi di Mario Ardigò, per ciò che ha
capito delle parole del celebrante
Siamo arrivati
all’inizio della Settimana Santa, questa domenica delle Palme. Una Settimana
Santa inedita, unica, speriamo, nella nostra vita. Una Settimana Santa da
ricordare…
Comunque, sempre Settimana Santa
è.
Sempre ci introduce questa
celebrazione nella settimana che ci porterà poi alla domenica di Pasqua.
Chiediamo al Signore che ci
prepari, attraverso il dono della sua misericordia, a ricevere tutta la grazia
che il Signore ha preparato per noi in questi giorni.
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Dall’omelia pronunciata dal parroco don Remo Chiavarini durante la Messa
del Giovedì santo celebrata in parrocchia il 9 aprile 2020, senza il popolo a
causa delle misure di confinamento sociale per la prevenzione del contagio da
Covid-19.
E’ uno strano Giovedì santo.
Strano perché è così familiare e
unico, per lo meno nella mia vita.
Il Giovedì santo è la celebrazione
dell’Ultima Cena: è sempre stata una delle celebrazioni più solenni di tutto
l’anno. Da sempre.
Quando ero in Seminario, si
partecipava proprio il Giovedì Santo alla celebrazione presieduta dal Papa,
allora era Paolo 6°. La celebrava a San Giovanni in Laterano dove c’era il
Seminario. Perché allora le liturgie pasquali iniziavano in San Giovanni in
Laterano, con la Messa “In Coena Domini” [si legge “in
cena domini”. E’ espressione in latino che significa “nel ricordo
dell’(Ultima) Cena del Signore”]. Poi [continuavano] il venerdì a Santa
Maria Maggiore e il sabato a San Pietro. Il Seminario partecipava e serviva
anche; quindi diverse volta da seminarista ho prestato servizio a questa
celebrazione. Poi, dopo la cena, si andava a casa. Chi partiva subito dopo la
celebrazione, chi la mattina dopo, quelli che magari erano più lontani.
Ma poi anche subito nelle
parrocchie dove sono stato. A cominciare da San Saturnino: [lì] la celebrazione
del Giovedì Santo era solennissima, era stracolma, pienissima, e così anche in
tutte le altre celebrazioni. Perché il popolo cristiano sa che questa è una
celebrazione fondamentale. Qui c’è la Pasqua del Signore. C’è il mistero di
Gesù che dona se stesso in quella liturgia che ricorda quell’incontro nel
Cenacolo. E anche noi qui stasera siamo qui proprio nel Cenacolo: siamo dodici,
tredici, quattordici, non di più, come probabilmente erano quella sera nel
Cenacolo del Signore, quando, come tutte le famiglie degli ebrei, si iniziava a
celebrare la Pasqua.
[Quest’anno] anche gli ebrei [del
nostro tempo] hanno iniziato a celebrare la Pasqua ieri sera. Ieri sera
hanno celebrato nelle famiglie. Si inizia con una liturgia famigliare e poi si
continua in quelle altre celebrazioni che coinvolgono poi tutto il popolo, al
Tempio e così via.
Anche noi abbiamo riascoltato come
prima lettura l’inizio, addirittura in terra d’Egitto, [il racconto]
dell’uccisione dell’agnello pasquale, di quell’agnello nel cui sangue c’è
salvezza: l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo. Poi
abbiamo riascoltato come san Paolo ci dice che, in fondo, in quella Pasqua
bisogna inserire anche la nostra Pasqua; quell’agnello non è più l’agnello del
gregge, ma è Gesù, e ormai quel sacrificio è nuovo ed eterno, per
cui è l’unico ed eterno sacrificio del Signore nel quale noi ci innestiamo
facendone memoria nel tempo. In questo lungo Esodo nel quale la storia si trova
e vive in attesa di entrare nella Terra Promessa. Ricordiamoci sempre che la
Terra Promessa non è su questa Terra, ma per noi la Terra Promessa è “Cieli
nuovi” e “Terra Nuova”, nella quale Gesù è entrato con la
sua Resurrezione e dove, lì, tutti ci attende.
Stasera volevo ricordare innanzi
tutto il sacramento dell’Eucaristia, che è il luogo dove la comunità si
ritrova, l’unica Eucaristia del Signore che continua a vivere nel tempo.
L’Eucaristia è il luogo dove la comunità sperimenta di essere la Chiesa di Dio,
il Popolo di Dio. E poi il dono del sacerdozio, che è indissolubilmente legato
all'Eucaristia, quindi alla Chiesa. Non c’è Eucaristia senza sacerdozio. Non
c’è Chiesa senza Eucaristia. Quindi possiamo dire che non c’è Chiesa senza
sacerdozio, questo ce lo dobbiamo ricordare.
Ricordiamo poi in questo momento
soprattutto novantanove sacerdoti, così oggi diceva il giornale, che in
questi giorni sono morti a causa dell’epidemia, del corona-virus.
In fondo anche loro, veramente pastori, hanno accompagnato
quel gregge, quel numeroso gregge, che in questa epidemia è stato convogliato
nel gregge nuovo ed eterno del Paradiso.
Adesso, come sapete, doveva
esserci la Lavanda dei piedi: non c’è oggi. C’è subito la preghiera
universale, ma quel gesto ce lo portiamo nel cuore e ci ricorda che proprio
dalle relazioni primarie che comincia questo comandamento del Signore, quello
di far sì che la propria vita sia servizio, perché noi dobbiamo essere discepoli
di colui che è venuto non per essere servito ma per servire.
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Sintesi dell’omelia pronunciata dal parroco don Remo Chiavarini nel corso
della liturgia del Venerdì santo celebrata il 10 aprile 2020 nella chiesa
parrocchiale, senza il popolo dei fedeli a causa delle prescrizioni sanitarie
per la prevenzione del contagio della malattia Covid-19
Abbiamo proclamato il Vangelo della Passione secondo
Giovanni. Il Venerdì santo è di solito pieno di tante manifestazioni:
quest’anno è caratterizzato dal silenzio. Ma sempre Venerdì santo è.
Venerdì santo significa la Passione del
Signore. Noi sappiamo che questa Passione ancora
continua nel mondo. Ogni anno ha la sua caratterizzazione: quest’anno pensiamo
agli ospedali, alle sale di rianimazione, dei luoghi della sofferenza di chi ha
perso qualche caro. Ogni anno, sempre la sofferenza ci accompagnerà. Come ogni
sofferenza, si può affrontare in tante maniere.
Di fronte alla croce c’è chi si
ribella, chi prega, chi non l’accetta, chi l’accetta ma non ne comprende il
senso, ma se potesse con grande gioia, se dipendesse da lui, la eviterebbe. E
c’è l’esempio del Signore che ci presenta questo Vangelo, un racconto
estremamente sobrio: racconta in fondo una tortura, la condanna a morte, ma con
una serenità straordinaria, come colui che sa che la sofferenza ha un
significato e che quella sofferenza si può tradurre in fonte di vita, se
vissuta con amore.
Una delle caratteristiche
fondamentali della Passione del Signore è questa: non la
subisce, non è che gli cade addosso e purtroppo la deve portare avanti, ma
volontariamente, per ubbidienza, vi entra.
Il Signore ci doni di entrare in
questo Venerdì santo, così come in ogni Venerdì santo della nostra vita, con
quello spirito.
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Sintesi dell’omelia
svolta dal parroco mons. Remo Chiavarini durante la Messa di Pasqua
celebrata l’11 Aprile 2020, dopo la Veglia, nella chiesa parrocchiale,
senza il popolo dei fedeli a causa delle disposizioni di prevenzione sanitaria
del contagio della malattia Covid-19
Così finalmente siamo arrivati nel
cuore della Pasqua, di questa liturgia pasquale che abbiamo iniziato giovedì. E
nel cuore di questa liturgia troviamo il Vangelo della Resurrezione. Il comando
del Signore: «Andate ad annunciare quello che avete visto!». E’ quello che in
fondo la Chiesa fa durante tutto il tempo, e dunque anche in questa notte, in
questo anno della storia del mondo, della storia della Chiesa, la Chiesa
annuncia questo fatto: Cristo è risorto.
Ci sono due parole nel Vangelo che
forse sentiamo particolarmente presenti nel nostro cuore, in questa Pasqua.
La prima è «Non abbiate paura!».
Che poi è la stessa cosa di «Non temete!». La paura, il timore, è quello che
prende sia le donne che vanno al Sepolcro, perché loro vanno per dare una degna
sepoltura al corpo del Signore, e naturalmente, trovando la tomba vuota, la
tomba aperta, quella grande pietra rotolata via, capiscono che qualche cosa è
successo. Ma poi vedremo che la stessa cosa accade anche ai discepoli, gli
apostoli, addirittura Pietro, Giovanni: lo sconcerto. Ecco che anche a loro
verrà detto «Non temete!». E viene detto alla Chiesa e viene detto a noi oggi:
«Non temete! Non temete! Non temete!», «Non abbiate paura!». Come è bello
accogliere questo invito del Signore!
Non abbiate paura, perché…
«Perché io ho vinto la morte. Io ho vinto, sono ancora il Crocifisso». Perché
poi il Signore si manifesterà con le piaghe, per cui Cristo che vive in eterno
è sempre il Crocifisso e porta sempre con sé le piaghe della Crocifissione, ma
quelle piaghe non gli hanno portato la morte, perché lui ha vinto, è andato
oltre.
E questo è l’annuncio della
Pasqua. Noi siamo qui perché sappiamo che la Pasqua del Signore non è solo
la sua Pasqua, perché se fosse la sua Pasqua in fondo
sarebbe una gran cosa ma una cosa che interesserebbe lui, e invece no,
interessa anche noi, perché, come ci ha detto Paolo, Cristo è risorto per
donare per donare la sua vita a coloro che vogliono unirsi a lui attraverso i
sacramenti, primo fra tutti il Battesimo. Ecco perché nella notte della Pasqua
c’è a centro il Battesimo e siamo chiamati, noi tutti, a fare memoria del
nostro Battesimo, perché con il Battesimo siamo entrati con la nostra vita
vecchia nella tomba del Signore e siamo risorti a vita nuova. E noi anche, perciò,
siamo dei risorti. Questa è la cosa incredibile. Non soltanto Gesù
è risorto, ma noi siamo risorti già adesso, perché noi abbiamo già la vita
nuova. Quella vita che Gesù ha inaugurato con la sua Risurrezione.
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Sintesi dell'omelia
del parroco mons. Remo Chiavarini nella Messa di Pasqua celebrata il 12
Aprile 2020, con inizio alle 9, nella chiesa parrocchiale di San Clemente papa,
senza il popolo, in osservanza delle prescrizioni sanitarie per la prevenzione
della malattia Covid-19
Domenica: il Vangelo
della Pasqua ci racconta proprio quello che accadde in quel primo giorno della
settimana. Questo termine ricorrerà spesso, perché veramente con la
Risurrezione del Signore inizia un tempo nuovo.
Come la settimana era in po' il
paradigma che racchiudeva tutta la Creazione, e ogni settimana si ripeteva e ci
ricordava tutte le grandi opere di Dio, che aveva compiuto, così inizia una
nuova settimana, che significa, secondo il linguaggio biblico che inizia una
nuova Creazione.
Siamo in questo primo giorno della
settimana. Ecco perché la domenica è il giorno della fede, il giorno dei
cristiani. È il giorno che ci dice che noi siamo già in tempi nuovi. Siamo in
quella Creazione nuova che la Resurrezione del Signore ha iniziato.
Noi siamo in cammino, come gli Apostoli,
per arrivare a vedere e credere: "E videro e credettero", dice
il Vangelo. Questo deve essere anche per tutti noi.
Questo cammino è certamente molto
diverso l'uno dall'altro. Perché vediamo Pietro che va lento e Giovanni c'è
questo termine, particolare, che dice "Il discepolo che Gesù amava".
In realtà non si parla proprio di Giovanni; probabilmente dietro questa
terminologia c'è indicato ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è "il
discepolo amato dal Signore", che deve fare questa esperienza, mettersi in
cammino e andare verso la tomba del Signore. In una tomba, quindi in un
luogo che parla di morte, in una tomba, quindi in un luogo che parla di morte,
in un luogo che contiene anche segni di morte. C'è un sudario, ci sono delle
bende, tipiche proprio di una sepoltura. Ma in presenza di questi segni e anche
di quel luogo che indica il termine ultimo del cammino dell'uomo, lì anche
sperimentare né non si ferma lì, che c'è un inizio nuovo. E credere perciò che
il Signore Gesù è il Signore della vita. E che noi, insieme con lui, siamo
chiamati a questa vita nuova.
Questo
è il senso della Pasqua. Questo è l'annuncio della Chiesa: "Lode a te, o
Cristo!".
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Sintesi dell'omelia svolta dal parroco
mons. Remo Chiavarini durante la Messa delle nove nella seconda domenica di
Pasqua del 2020, il 19 aprile 2020, celebrata senza la presenza fisica de
popolo, a causa delle prescrizioni sanitarie per la prevenzione della malattia
Covid-19, ma trasmessa in diretta sul canale YouTube della parrocchia e lì
visualizzabile nuovamente.
Allora,
come dicevamo, siamo nell'Ottava di Pasqua, quegli otto giorni dopo in cui i
discepoli e la comunità Cristiana si riuniscono di nuovo. E, come vedete, c'è
al centro dell'attenzione, della nostra attenzione, una persona che si chiama
Tommaso. Oggi è la domenica di San Tommaso, possiamo dire. È una domenica
che ha tanti nomi. Il più antico è Domenica in Albis [Depositis. La
domenica in cui le persone che sono stare battezzare nella domenica di Pasqua
terminano di indossare vesti bianche che indossavano dal giorno del
Battesimo, le depongono].Poi c'è Domenica della
Misericordia, recentemente così chiamata su suggerimento del Papa Giovanni
Paolo 2^. Oppure la Domenica di Tommaso, perché in questo Vangelo,
che si legge sempre in questa domenica, c'è questa persona che ci rappresenta
tanto, e che rappresenta un pochino tutta la Chiesa. Perché lui fa un percorso
che è quello che ogni discepolo del Signore, e la comunità cristiana,
deve fare lungo la storia, e in modo particolare in questo Tempo di Pasqua.
Qual è il significato di questo
Tempo di Pasqua, di questi cinquanta giorni che vanno dalla Pasqua alla Pentecoste?
È proprio quello: rendersi sempre più convinti, fare l'esperienza, che c'è il
Signore, che il Signore risorto è presente in mezzo a noi. Quindi non essere
più incredulo ma credente. È il cammino della fede. E noi lo facciamo con
l'aiuto della Parola di Dio.
Che cosa ci dice questo Vangelo?
Ci dice che: le porte erano chiuse, c'era paura, lo shock era stato grande, la
crocifissione del Signore non era stata una passeggiata. Quindi c'è
paura, ci sono i segni della morte intorno che prevalgono. Ma sono riuniti i
discepoli. E, la cosa straordinaria: Gesù viene. Sta in mezzo,
addirittura dice, con una frase piuttosto forte, il Vangelo. È questo è quel
grande compito dello Spirito, lo Spirito Santo che compare, anzi comincia a
comparire come dono, questo è quello che lo Spirito Santo realizza: rendere
presente Gesù in mezzo
alla comunità. È quello che fa oggi e
farà sempre. Lo Spirito Santo rende presente Gesù, che si fa capire essere
vivo, nonostante, ecco l'altra caratteristica, porti ancora i segni della morte
del suo corpo. Perché Tommaso gli dice "Se io non metto le mie dita nella
piaga" -soprattutto nella piaga del costato, quella che rendeva
chiaramente presente la morte nel corpo di Gesù, perché era la piaga che
arrivava al cuore, che aveva squarciato il cuore - "io non credo!". È
lì, ecco la cosa incredibile e straordinaria, Gesù apre le sue piaghe e dice
"Io porto dentro di me, nel mio corpo la piaga aperta, il segno della
morte, e la porterò per sempre, tutta la storia sarà una storia in cui i segni
della morte sono presenti, ma nonostante questi segni però io sono il
vivente.
Ecco qua il grande ostacolo per
la fede, di Tommaso e di ciascuno di noi. Capire che, nonostante i segni della
presenza della morte, c'è Gesù che è vivo.
Come fa Tommaso a fare questo
passo? C'è lo dice il Vangelo stesso quando dice che Tommaso era
insieme con gli altri discepoli. Non dice "Voi siete degli illusi, per
cui io vado per conto mio". Ritorna e, quando sono insieme, Gesù si
ripresenta.
Ecco qua allora il senso della
nostra riunione domenicale: nel giorno di domenica la Chiesa si riunisce,
riunisce i suoi discepoli, i discepoli del Signore, non tutti con una fede
forte, anzi molti con dei grossi dubbi, con delle grosse difficoltà di credere:
ma nonostante tutto sono presenti. E piano piano Gesù a tutti fa fare questo
cammino. Questo cammino che li porterà a rendersi conto che il Signore è
realmente risorto.
E allora, con grande nostalgia noi
celebriamo questa domenica ancora divisi, in attesa di ritrovarci insieme.
perché abbiamo bisogno tutti di fare questo cammino.
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Sintesi dell’omelia pronunciata dal
parroco mons. Remo Chiavarini durante la messa della 3° Domenica del Tempo
di pasqua, il 26 Aprile 2020, celebrata nella chiesa parrocchiale senza la
presenza del popolo, per le misure di prevenzione sanitaria in corso di epidemia
di Covid-19, ma teletrasmessa mediante Youtube.
Come domenica scorsa ci
ha fatto compagnia Tommaso, così questa domenica, 3°
del Tempo pasquale, possiamo dire che ci fanno compagnia questi due discepoli ,
che scendono da Gerusalemme verso Emmaus. Il giorno è sempre
quello: quel primo giorno della settimana, giorno di grandi annunci, di grandi
incontri.
E, come Tommaso rappresentava
tutti noi, è la figura del discepolo che è chiamato a fare un cammino per
riconoscere che Gesù è il vivente, anche i discepoli di
Emmaus ci rappresentano, perché anche noi dobbiamo fare questo cammino.
Il primo tratto è quello di
ritornare ciascuno alla propria casa, dopo aver vissuto un’esperienza che
poteva essere molto promettente, molto coinvolgente, ma che ormai era finita, i
verbi che utilizzano nel loro linguaggio sono ormai al passato:
soprattutto speravamo è il verbo sintomatico.
Vanno ad Emmaus. Anche lì,
vedete, Emmaus è un grande rebus, nella geografia evangelica,
biblica, perché sia gli archeologi che gli esegeti sono alla ricerca di questo
luogo, e in Terra Santa, come sa chi qualche volta c’è andato, ci sono tanti
luoghi che vogliono essere la Emmaus del Vangelo. Probabilmente non c’è una
Emmaus fisica, perché ognuno ha la sua Emmaus, possiamo dire, cioè il luogo
dove è chiamato, e soprattutto a riconoscere il Signore.
Quindi ciascuno di noi ritorna, con un
cuore un pochino disilluso, e rientra nella sua casa, a volte con lo
stesso atteggiamento del chiudere le porte, si fa sera, e ormai tutto è
finito, non c’è più, possiamo dire, possibilità di futuro.
Ma succede un fatto, che è molto
interessante e il Vangelo lo esplicita bene. C’è l’invito: «Rimani con noi!».
Quindi si apre la nostra casa, la nostra vita, a uno straniero, uno
sconosciuto, e con lui anche si condivide la cena. E la cosa interessante è
che, mentre spezzano il pane, i loro occhi si aprono.
Ecco qua allora che cosa ci dice
il Vangelo. Per riconoscere Gesù bisogna fare questo passo: spezzare il
pane, che ha un significato grande. Certamente nel Vangelo quello
spezzare il pane è il gesto dell’Eurcaristia, Gesù prese il pane e lo spezzò,
per cui è nell’Eucaristia domenicale che si aprono i nostri occhi,
e siamo chiamati a riconoscere la presenza del Signore. Ma lo spezzare il pane,
anche umanamente, significa condividere, non rinchiuderci in noi
stessi, saper entrare in questa com-pagnia, che come sapete
significa spezzare e mangiare lo stesso pane. E allora lì
si aprono gli occhi e non c’è più bisogno di vederlo fisicamente il
Signore, perché si capisce che il Signore c’è. E riprende il coraggio,
la forza, e [quei discepoli] sono capaci, nonostante il buio, di
riprendere il cammino e di ritornare a Gerusalemme.
Anche noi abbiamo bisogno di
riprendere un cammino, di riprendere forza. Come possiamo farlo?
Secondo quello che ci dice il Vangelo. Se sappiamo condividere, spezzare il
pane insieme, allora i nostri occhi si aprono, e riconosciamo
che Gesù è sempre stato con noi, anche quando non lo percepivamo,
anche quando ci diceva che, lui il Messia, doveva soffrire.
Quindi possiamo dire: era necessario passare attraverso la prova, la
sofferenza, che non era fine a se stessa, ma era in preparazione di
qualcosa di più grande.
Allora [quei discepoli] non hanno
più paura e riprendono il cammino.
E’ quello che ci auguriamo
anche noi. Lo chiediamo al Signore: di saperlo riconoscere,
attraverso la nostra condivisione, in mezzo a
noi e riprendere con forza e
con entusiasmo il cammino che la vita ci presenta davanti.
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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco,
mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa
parrocchiale, il 3 maggio 2020, 4° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la
presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia
Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.
È sempre molto bello ascoltare
questo brano del Vangelo, che è preso dal capitolo 10° del Vangelo di Giovanni.
Nel lungo discorso in cui Gesù, prende l’immagine del pastore, che era molto
viva, presente, nella mente, negli occhi, di chi lo ascoltava in Palestina,
duemila anni fa, ma anche di tutti coloro che conoscevano bene la Bibbia,
perché l’immagine del pastore attraversa un po’ tutta la letteratura biblica.
Non per niente abbiamo pregato, dopo la prima lettura, tratta dagli Atti degli
apostoli, con le parole del salmo 22, «Il Signore è il mio pastore…»,
che è uno dei salmi che forse conosciamo di più, molto bello, «Se anche
dovessi passare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con
me». Quindi l’immagine del pastore è molto presente.
Oggi in Israele è sempre più
difficile vedere questi pastori, queste greggi, forse trent’anni fa era più
facile. Però basta andare in Giordania, in Siria, che ancora si vedono queste
immagini.
Ma che cosa ci vuol dire Gesù?
Gesù ci vuol dire questo: bisogna
stare attenti a chi seguire. Perché ci sono tanti pastori. Pastori, voi
lo capite benissimo, sono quelli che guidano. C’è la porta, dice Gesù, che fa
entrare e fa uscire. Poi in questo brano del Vangelo Gesù stesso dice «Io cammino
davanti a loro, faccio uscire le mie pecore e le porto al pascolo». E
le pecore lo seguono. Ecco è importante capire chi seguire.
Perché?
Perché non sempre il pastore che
si segue è un pastore che veramente si prende cura delle sue pecore, e si
interessa che le pecore arrivino a dei pascoli dove c’è del buon cibo, a delle
fonti dove ci sia dell’acqua veramente buona. In giro per il mondo, da sempre,
il cibo non è sempre adatto – naturalmente voi capite che cibo significa
tante cose -, non sempre le fonti che noi incontriamo danno veramente acqua
della vita, a volte sono anche fonti avvelenate.
Noi sappiamo sempre – ma
anche oggi, basta guardare, aprire la televisione -, quanti si propongono come
pastori, come coloro che hanno la ricetta magica, coloro che conoscono il
segreto per risolvere i problemi, e naturalmente invitano ad essere seguiti.
Molti vanno loro dietro. Poi purtroppo si capisce che queste persone che
si propongono come guide, come pastori, il più delle volte deludono, e alcune
volte si capisce che hanno ben altre intenzioni che fare il bene del popolo,
delle pecore.
Gesù ci dice: «Io sono
il Buon Pastore: il Buon Pastore perché voglio che voi abbiate la vita, e non
soltanto la vita, ma che questa vita sia abbondante, sia bella». Perché
non basta vivere, bisogna anche vivere bene, vivere una bella vita.
Una bella vita la si vive quando
si è in pace con se stessi, si è in pace con gli altri, si capisce il senso
delle cose che si affrontano, anche delle difficoltà che si devono affrontare e
superare.
Questo è quello che Gesù ci
propone. Lui è il Bel Pastore, il Buon Pastore, vuole
che anche noi abbiamo una bella vita.
E allora chiediamo al Signore di
essere furbi, di non andar dietro a tutte le lusinghe varie che ci
vengono, ma di avere il fiuto della pecora saggia,
pecore sagge, non pecore matte come direbbe anche
Dante (* vedi sotto), che vanno dietro a tutti; di saper capire chi ha
veramente parole di vita, e di vita piena.
Anche noi, insieme con gli
apostoli, i quali ad un certo punto, in un certo momento della loro vita,
si trovarono a dover scegliere e dissero al Signore «Signore, tu solo hai
parole di vita eterna», quindi tu solo sei colui che vale la pena di
seguire.
(*) citazione da:
Dante Alighieri, Divina Commedia,
Paradiso, canto 5°:
«Avete il novo e l’l
vecchio Testamento, / e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti
a vostro salvamento. / Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate,
e non pecore matte,…»
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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco,
mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa
parrocchiale, il 10 maggio 2020, 5° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la
presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia
Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.
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Vangelo
Io sono la via, la verità e la vita.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi
discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede
anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai
detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del
luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non
sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono
la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se
avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e
lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».
Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto,
Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: Mostraci il
Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi
dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue
opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro,
credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in
me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di
queste, perché io vado al Padre».
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Questo brano del Vangelo sembra un
po’ complicato. E potrebbe anche esserlo, perché le cose che ci trasmette sono
talmente tante, e sono talmente fondamentali, che potrebbero anche lasciarci
smarriti.
Ma una delle cose che poi
scopriamo, a mano a mano che si va avanti, e che in questa fede, che
sembra così complicata per le cose che ci dice e che dobbiamo credere, poi alla
fine, quando le abbiamo comprese bene, tutto si semplifica e diventa
molto semplice, molto essenziale.
Così quello che oggi il Signore ci
vuol dire è un discorso molto colloquiale, usa delle immagini che ci sono molto
care. Per esempio all’inizio si parla di un turbamento. Turbamento è
una parola che ci parla di paura, di smarrimento, di difficoltà a stare con i
piedi per terra, con serenità.
La paura è qualcosa di molto
presente nella nostra vita.
Teniamo conto che Gesù parla alla
vigilia della Passione, del tradimento, della Crocifissione. In quei giorni
terribili che sicuramente non devono essere stati semplici. Per lui
chiaramente, ma neanche per chi gli stava vicino, per i suoi discepoli, per il
suo ambiente: erano cose talmente truci, talmente grandi, che sconvolgevano la
mente anche di persone molto solide, abituate a tutto, come Pietro e come tanti
altri. Qualcosa di grosso. E quindi Gesù in quel discorso al Cenacolo, in
quell’Ultima Cena, prepara i discepoli e dice «Ci sarà un turbamento, ci
sarà una paura che vi prenderà».
La parola paura, turbamento,
timore è una delle parole che ricorre più spesso nella Bibbia.
Qualcuno sembra che si sia messo a contare quante volte c’è e addirittura la
cosa sorprendente è che, ricorre per ben – mi pare – 365 volte: un numero che
ci fa subito accendere una lampadina, perché sono tali i giorni dell’anno. In
tutta la Bibbia per ben 365 volte c’è proprio questa frase “Non temere! Non
avere paura!”. Perché probabilmente si sa che è un sentimento con cui
dobbiamo convivere. Un sentimento anche salutare: guai a chi non ha paura di
niente, perché è pericoloso! Rischia di fare passi falsi. Però neanche dobbiamo
rimanere prigionieri di questo sentimento. E come si fa a non esserlo? Gesù ci
dice: «Abbiate fede! Abbiate fede in Dio, abbiate anche fede in me». La
fede, il credere, dice Gesù, «Credete in me, credete nel
Padre che mi ha mandato», è la medicina per superare lo smarrimento, il
turbamento, la paura. E io credo che questa Parola, sempre ma anche in questi
giorni, in questo momento, ci arriva proprio diritta al cuore. E l’accogliamo
ben volentieri! E chiediamo al Signore che penetri in noi, che aumenti la
nostra fede in lui, quella fede che ci fa credere che realmente lui è la
presenza dell’amore di Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre»: perché
poi Gesù ci dice proprio questo: il Padre, questo termine che lui usa sempre
per indicare Dio – questo termine molto bello -, è in lui e, attraverso di lui,
arriva fino a noi, e compie delle opere grandi, che vedremo. Poi la cosa
incredibile - tra le tante che possiamo prendere da questo brano – è
quella che c’è quasi verso la fine: «Colui che crede in me compirà cose più
grandi di quelle fatte da me». Naturalmente non le compie
lui, ma le compie il Padre attraverso di lui - quindi attraverso di
noi!-. Perché, in fondo, Gesù è venuto per questo, per portarci la vita del
Padre. Questa vita che in Gesù, nella sua umanità, ha compiuto cose
straordinarie, ma poi, se il Vangelo è vero, come è vero, questa
vita che entra in noi compirà attraverso di noi cose più
grandi ancora. Che questo sia vero, lo possiamo dire anche tenendo conto che
Gesù è sempre stato in Palestina, ha predicato a qualche centinaio, qualche
migliaio di persone, ma poi i suoi discepoli sono usciti dalla Palestina, e
oggi parlano a tutto il mondo. La Chiesa parla di Dio con forza, con coraggio,
senza paura, a tutta l’umanità. Compie cose più grandi di quelle fatte da Gesù,
da questo punto di vista.
Gesù partecipa della vita del Padre
e questa vita poi l’ha trasmessa a noi, e la trasmette a noi
ancora!, e ci dà la forza per portare avanti queste opere del Padre. Come ce la
trasmette? Ce la trasmette attraverso i sacramenti.
Per esempio il sacramento
dell’Eucaristia. Perché ci manca tanto, in questo tempo? Nel
quale non vediamo l’ora di poter celebrare pienamente l’Eucaristia,
di poter ricevere la Comunione. Perché, anche se non lo comprendiamo fino in
fondo, sappiamo che attraverso i sacramenti, attraverso quel pane e quel vino,
che sono il Corpo e il Sangue del Signore, ci arriva la vita di Dio. Arriva lo
Spirito, che entrando in noi ci dà la possibilità di essere vivi e ci dà la
possibilità di compiere le opere che il Signore vuole che noi compiamo.
Per finire: un’immagine. Una
delle cose che abbiamo capito che questo maledetto virus fa, è che ad un certo
punto blocca i polmoni. E diviene quindi impossibile ai polmoni ossigenare il
sangue. L’ossigeno che ci arriva attraverso il respiro entra nel sangue e poi,
attraverso il sangue, arriva a tutte le cellule del corpo, che sono vive,
perciò possono portare avanti al vita. Se non c’è questo, se non c’è questo
ossigeno, che attraverso il sangue arriva a tutte le nostre cellule, non c’è
vita.
Vedete, come ci arriva
l’ossigeno di Dio, il suo Spirito? Attraverso il sangue di Gesù, che
entra in noi e, mediante la sua presenza, porta lo Spirito, la vita,
l’ossigeno, a tutta la nostra esistenza, e ci permette di essere
vivi e perciò operanti.
Ecco perché abbiamo bisogno della
celebrazione dell’Eucaristia. Ecco perché la desideriamo tanto. Ecco perché
ringraziamo Dio se ci dà la possibilità di poter celebrare e di poterci
ritrovare insieme. Perché dobbiamo fare cose grandi. Noi siamo
fatti per cose grandi, non per piccole cose. Il Signore ci ha dato un compito
incredibile, addirittura ci ha detto “Voi farete cose più grandi di quelle
fatte da me”. Questo è il nostro sacerdozio, che abbiamo ricevuto nel
Battesimo tutti e che dobbiamo esercitare per rendere gloria a Dio.
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Sintesi dell’omelia svolta dal parroco,
mons. Remo Chiavarini, durante la messa delle nove celebrata nella chiesa
parrocchiale, il 17 maggio 2020, 6° Domenica del Tempo di Pasqua, senza la
presenza del popolo, per le misure di prevenzione del contagio della malattia
Covid-19, ma diffusa in televisione mediante il network Youtube.
°°°
Dal Vangelo secondo
Giovanni
Gv 14,15-21
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i
miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito
perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non
può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli
rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora
un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e
voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e
io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi
ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a
lui».
Parola del Signore
°°°
E’ una domenica particolare
questa, sesta del Tempo di Pasqua, perché comincia a comparire nella Scrittura
che abbiamo ascoltato, in modo particolare con il Vangelo, nonché nel brano
degli Atti degli apostoli, un personaggio - chiamiamolo così -
che sarà sempre più centrale nelle prossime domeniche.
E chi è questo personaggio?
Ecco vediamo subito …
dice così: «Io pregherò il Padre ed egli vi dar un altro Paraclito». Poi
dice: «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo
vede e non lo conosce, voi lo conoscete.»
Quindi comincia a entrare in gioco
questo Spirito, questo Paràclito. E già noi
sappiamo, perché siamo un pochino smaliziati!, che siamo proiettati alla Pentecoste,
al culmine, al termine, alla conclusione, al frutto maturo, di tutto questo
lungo periodo che ha avuto la Pasqua come cuore, come centro, ma ha
avuto tutta la preparazione della Quaresima, e poi a questo sviluppo che porta
- come dire? - a questo frutto maturo che è il dono
dello Spirito. Questo Paràclito che ci viene donato, che - impareremo a capirlo
- è il modo in cui Dio si rende presente - possiamo dire - nella vita, nella
concretezza, nel cuore delle persone, di coloro che, attraverso la fede, hanno
aperto la loro vita a questo Dio che si vuole donare.
Quindi iniziamo idealmente
questa novena che ci porterà a Pentecoste, alla conclusione del Tempo di
Pasqua.
Il tempo corre veloce, anche
questo tempo che abbiamo vissuto quest’anno in maniera del tutto
particolare. Con una Pasqua inedita, possiamo dire, da un certo
punto di vista, almeno come celebrazione.
Ma la liturgia, con i suoi ritmi, ci
accompagna, ci fa capire che andiamo verso questa conclusione, questa
maturazione.
Noi vogliamo chiedere veramente al
Signore di non perdere questo ritmo, ma, anche in questo modo inedito, di
vivere bene questa Pasqua di questo anno unico e particolare, che la
Provvidenza ci ha dato da vivere.
Perché è il dono dello
Spirito che dobbiamo accogliere dentro di noi, perché è quel dono che ci rende
figli di Dio veramente, che crea in noi quell’immagine che il Padre vuole che
si configuri e che si disegni in maniera perfetta - possiamo dire -
, in maniera tale che ciascuno di noi possa essere figlio nel
Figlio.
Quando il Padre Dio ci
guarda possa vedere in noi l’immagine del Figlio, di Gesù. E questo è opera
dello Spirito, che è il vero dono dell’Incarnazione, il vero dono della
Passione e il vero dono della Resurrezione del Signore.
E quindi, con questo atteggiamento,
camminiamo verso questa pienezza del Tempo Pasquale, che ci attende, ormai tra
due settimane, quando celebreremo la Pentecoste. Domenica prossima ci sarà la
celebrazione dell’Ascensione e capiremo anche il messaggio che ci viene dato
dalla Parola di Dio, dalla Liturgia, e celebreremo la festa dell’Ascensione
finalmente di nuovo insieme, intorno all’altare del Signore!
[Camminiamo] con queste parole molto belle che il Vangelo
ci lascia, «Non vi lascerò orfani» - ricordiamo
sempre che siamo ancora nel Cenacolo, proprio alla vigilia della Passione del
Signore ed è Gesù che parla, e apre il suo cuore e ci dice che
rimane con noi, che vuole rimanere con noi, lui pregherà e ci sarà donato
questo Paràclito, questo avvocato difensore, questa vita nuova, che non ci
abbandonerà più-. E poi c’è questa comunione grande: «Chi ama me, sarà amato
dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». Il grande
comandamento dell’amore, che sempre ritorna al centro della predicazione del
Signore.
Dopo la Preghiera
dei fedeli
Dio grande e misericordioso che nel
Signore risorto riporti l’umanità alla speranza eterna, accresci in noi
l’efficacia del mistero pasquale, con la forza di questo sacramento di
salvezza, per Cristo nostro Signore!
E così, come ci siamo detti,
siamo in questo tempo particolare che ci porterà alla Pentecoste, passando
domenica prossima per la festa dell’Ascensione, alla conclusione di questo
bellissimo Tempo di Pasqua.
Possiamo dire che viviamo questo
tempo, nelle ultime due settimane del mese di maggio, come una grande Novena in
preparazione alla Pentecoste, per ricevere il dono dello Spirito, che è il vero
frutto maturo della Passione, delle Resurrezione del Signore, perché tutto
porta lì. Porta al fatto che Dio vuole rimanere in noi, nella nostra vita.
Vuole vivere con noi e questo è opera dello Spirito. Quindi viviamo questi
quindici giorni con questa invocazione particolare: «Vieni Santo Spirito! Vieni
in ciascuno di noi! Vieni sulla tua Chiesa! Vieni nel mondo intero!».
Perché c’è bisogno che lo spirito rinnovi e faccia
nuova la faccia della Terra, la faccia della Chiesa, la faccia
di ciascuno di noi, possiamo dire. Ciascuno si deve rinnovare attraverso questo
dono.
Ci saranno degli appuntamenti
importanti.
Domenica prossima ci sarà il
diaconato di Salvatore, in questa chiesa, nel pomeriggio, nella celebrazione
del pomeriggio. E, in vista dell’ordinazione di domenica, giovedì prossimo,
alle 20:30, faremo una veglia di preghiera.
Ci sarà da domani, di nuovo,
la possibilità di partecipare all’Eucaristia. Quindi si ritorna normalmente
all’orario di sempre, nei giorni feriali alle nove del mattino e alle sette del
pomeriggio, e poi, da sabato e domenica, nell’orario normale di ogni domenica [agli orari soliti], con la partecipazione anche della gente, con ancora delle regole un
po’ particolari, ma poi di volta in volta ci sarà detto come poter partecipare.
Che il Signore ci aiuti a vivere
bene queste norme, come abbiamo sempre fatto finora. Ci hanno permesso di
camminare sulla strada che ci porterà fuori da questo tempo
particolare, che la Provvidenza ha voluto che noi vivessimo. Come
tutti i tempi, come in tutte le cose, ci saranno dei messaggi dietro, che vanno
anche compresi, capiti. Il Signore che cosa ci ha voluto dire, ci vuol dire,
attraverso questa pandemia?
Detto questo invochiamo il
dono della benedizione di Dio per vivere bene anche questo tempo che ci
attende, che sia un tempo di grazia, un tempo nel quale si manifesta l’amore
del Signore. E noi siamo pronti ad accogliere questo amore e a leggere i
segni dei tempi. Perché il Signore parla, sempre, e
sta a noi capire questo linguaggio, e decifrarlo.
Prima della
benedizione finale
Da domani la celebrazione delle
messe riprenderà negli orari consueti, con la partecipazione anche della gente.
Non sia semplicemente un
ritorno ad una consuetudine, ma sia una ripartenza vera, che ci trovi
desiderosi di ripartire con un nuovo entusiasmo, per rimettere
veramente al centro questo appuntamento con il Signore, nella sua Eucaristia,
non soltanto per la nostra comunità parrocchiale, ma per tutte quelle comunità
sparse nel mondo.