Che cos'è e come si
fa la mediazione culturale
Miei appunti di
lettura del saggio di Bruno Secondin "Messaggio evangelico e culture -
problemi e dinamiche della mediazione culturale", Edizioni Paoline,
1982
1
L'umanità sta vivendo
un periodo della sua storia caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti: lo
si riconobbe anche durante il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) e di questo rimane traccia in particolare nella
costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (=la gioia e la
speranza), al n.4. In Occidente si è andata delineando una rottura tra
Vangelo e culture: sembra che i valori religiosi siano
considerati superflui, se non addirittura ostacoli al progresso nei campi della
giustizia sociale e della libertà. In realtà il problema di trovare nuove sintesi vitali e di superare schemi obsoleti si è sempre posto e ciò è attestato anche
nella Scrittura.
"…il problema della mediazione culturale mai esaurita non è
fantasia di teologi innovatori,
ma esigenza di fedeltà al Vangelo e al progetto di Dio nei riguardi degli uomini"[pag.6]
Il messaggio
evangelico deve raggiungere tutti gli esseri umani e parlare loro in termini
comprensibili e nel rispetto dei loro valori. Ma non ogni incarnazione [calare il Vangelo nella società contemporanea] del
Vangelo è corretta. Occorre mantenere fermi alcuni criteri di identità e risolvere sempre di nuovo classiche antinomie.
Siamo eredi di una
cultura profondamente imbevuta del cristianesimo. Essa manifestò una condizione
civile di cristianità totale, si
sviluppò in società evangelizzate fino
alle radici. Il Vangelo non può
legarsi ad uno schema culturale in modo assoluto, ma "il non incontro tra Vangelo e culture pregiudica di molto la profondità
dell'evangelizzazione e la piena efficacia operativa della verità salvifica
stessa" [pag.8].
Che cosa si intende
con la parola cultura ? Non solamente
una attività intellettuale. Secondo la definizione di E.B.Taylor in "Primitive Culture" (=la
cultura dei primitivi), Murray, Londra, 1871):
"Cultura o civiltà è un insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze,
l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come
membro della società".
Se ne trova un'altra definizione al n.53 della costituzione Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2°:
"Con il termine generico di «cultura»
si vogliono indicare tutti quei mezzi con i
quali l'uomo affina ed esplicita le molteplici sue doti di anima e corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo
stesso con la conoscenza ed il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che nella società civile,
mediante il progresso del costume e delle istituzioni;
infine, con l'andare del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze
ed aspirazioni spirituali, affinché possano
servire al progresso di molti, anzi di
tutto il genere umano. Di conseguenza
la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale, e la voce «cultura»
esprime spesso un significato sociologico
ed etnologico. In questo senso si
parla di pluralità delle culture.
Infatti dal diverso modo di far uso delle cose, di
lavorare, di esprimersi, di
praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi, di creare gli istituti giuridici, di
sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine le diverse condizioni comuni di vita e le
diverse maniere di organizzare i beni
della vita. Così pure si costruisce l'ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi
stirpe ed epoca, si inserisce, e da
cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà."
Sul rapporto tra fede
e cultura nel medesimo documento si osserva, al
n.58:
"Fra messaggio della salvezza e la
cultura umana esistono molteplici rapporti.
Dio infatti, rivelandosi al suo popolo, fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato
secondo il tipo di cultura proprio delle diverse
epoche storiche. Parimenti la chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle
differenti culture per diffondere e spiegare
il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e approfondirlo, per meglio
esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della
multiforme comunità dei fedeli".
La civiltà europea
ha ricevuto la sua fisionomia e la sua identità dalla storia della idee
religiose e dai conflitti e dalle divisioni della cristianità. Si tratta di un processo maturato nel giro di
secoli. Possono bastare pochi decenni per smentire questa storia. Secondo
Secondin non bisogna farsi troppe illusioni: siamo in una fase di transizione
culturale molto estesa.
Secondo il teologo
franese Marie-Dominique Chenu (1895-1990):
"La Chiesa del 20° secolo non ha più da
prendere in mano la guida della civiltà
e la promozione dei popoli, bensì ha da gettare il lievito evangelico in queste civiltà, in queste strutture
dell'umanità".
Per Secondin "la presenza della Chiesa nel mondo
deve essere oggi caratterizzata da una capacità illuminativa, critica,
costruttiva dell'annuncio del Vangelo all'interno delle situazioni
storiche" [pag.10].
La cultura
globalmente cristiana sta scomponendosi in un arcipelago di culture e
sottoculture. Ma nello stesso tempo il processo di planetarizzazione [oggi si
dice globalizzazione - nota mia] sta
omogeneizzando un po' tutto in una cultura di massa priva di profondità e
ostile alle provocazioni vitali del Vangelo. Sono due processi inversi, ma in
grado di rimescolare equilibri secolari e di creare e ampliae una instabilità "che si presta al gioco del più abile e di chi ha in mano le leve
dell'opinione pubblica".
"il
risultato è una civiltà senza radici,
con frammenti
di cristianesimo vaganti più nel
sottosuolo che nelle strutture portanti della società" [pag.10-11]
Note mie:
Nel testo che ho sopra sintetizzato occorre
distinguere tra le opinioni dell'autore, che sono il frutto di una riflessione
personale di uno studioso, le opinioni degli altri autori citati (Taylor e
Chenu), che sono il frutto della loro riflessione personale, e il pensiero
espresso nei brani della costituzione pastorale Gaudium et spes, che invece costituiscono parte del magistero sociale e che quindi hanno
valore normativo nella nostra confessione religiosa. Tuttavia, anche quel
magistero sociale è legato ad una determinata situazione storica,
è, in questo senso, una manifestazione culturale: questo significa il termine pastorale con la quale si denota quella
costituzione del Concilio Vaticano 2°.
Il libro è stato pubblicato nel 1982 e
la Gaudium et spes risale alla prima
metà degli scorsi anni '60. Chiediamoci se e come la situazione della società
in essi descritta è mutata. In effetti essa è mutata, mi pare. Il processo di globalizzazione su scala planetaria si è molto esteso,
favorito anche dalle nuove tecnologie e dall'affermarsi dei modi di produzione
e di scambio, quindi dall'economia, occidentale in gran parte dei sistemi
politici e nazionali della terra. D'altra parte il processo di disgregazione delle unità culturali in
una molteplicità di culture si è
trasformato in un processo di dissoluzione
delle culture su base individualistica, coinvolgendo addirittura gli stati
nazionali, i quali ancora agli inizi degli anni '80 detenevano il massimo della
sovranità sulle società da loro dominate. In qualche modo il processo di mediazione culturale risente dalla crisi
di uno dei termini della mediazione, quello costituito appunto dalla culture. Anche
l'altro termine della mediazione, la fede, è stata coinvolta in questo
processo, in ciò in cui essa è espressione di una cultura.
2
Ogni epoca storica ha
dato risposte nuove alle mutate situazioni culturali, pur cercando di non
sminuire il messaggio trascendente e assoluto del Verbo fatto carne. Fede è
storicità talvolta sono entrate in tensione. Se ne possono citare vari esempi
storici.
La definizione
dell'essere Cristo Figlio di Dio e vero uomo al medesimo tempo, adottata nel
Concilio di Calcedonia del 451 fu formulata in termini legati alla cultura
egemone dl tempo, quella greco-latina e trovarono incomprensione e reazione in
altre culture, portando al distacco delle Chiese dette "monofisite".
L'incoronazione come
imperatore di Roma di Carlo Magno re dei Franchi , il 25 dicembre 800, costituì
una ragione gravissima di lacerazioni con le Chiese cristiane orientali, in
particolare con la Chiesa di Bisanzio, capitale dell'Impero Romano d'Oriente,
che considerava i barbari, come i
Franchi, materialisti, rozzi e incapaci del cristianesimo.
Il pensiero
dell'antico filosofo greco Aristotele (4° secolo dell'era antica) considerava
la monarchia la forma perfetta di governo: questa concezione influì sui criteri
adottati per l'organizzazione della comunità cristiana, che divenne una
monarchia in un contesto di monarchie concorrenziali.
"Ne risulterà una concezione assoluta
del potere papale, di cui oggi si sente la
lontananza dal Vangelo e dalla chiesa primitiva". [pag.36]
Interessi economici e
ragioni di prestigio personale impedirono di capire che la riforma protestante
(16° secolo) partiva da esigenze profondamente evangeliche.
L'enciclica Rerum Novarum (=delle novità) del papa
Leone 13° (1891) ipotizzava una direzione autoritativa e centralizzata del
movimento cattolico "e anzi l'idea
stessa di un movimento cattolico
unitario alle dipendenze della gerarchia": tale idea è oggi obsoleta.
"Il [Concilio]
Vaticano 2° ha ribadito che identità e
ruolo sociale della Chiesa vanno affidati e recuperati non con parametri
socio-giuridici o politici, ma piuttosto teologici. Inoltre bisogna tener conto
della legittimità del pluralismo di opzioni e organizzazioni e della emergenza
di nuovi soggetti protagonisti: le donne e i giovani, per esempio" [pag.37].
In ogni fase storica
si possono cogliere costanti e varianti.
Ci sono tre criteri per giudicarla: la relazione con il passato, la relazione con il presente,
la relazine con il futuro.
Nella fede si
congiungono
"l'ispirazione
evangelica (l'impulso vitale) che viene dal passato e la creatività, cioè la capacita di far nascere qualcosa di
nuovo" [pag.38]
Bisogna anche
valutare il ruolo del magistero
nell'orientare come fattore di fedeltà
e di unità e quello "stimolante e profetico delle «minoranza
cognitive» più sensibili ai disagi dell'asfissia culturale, più
ardimentose nell'uscire dai sacri recinti del patrimonio ricevuto passivamente,
per confrontarsi con la storia che si muove".
E, infine, bisogna saper "distinguere fra il rivestimento
storico culturale ed elemento essenziale irrinunciabile".
Oggi noi cristiani ci sentiamo circondati da
incomprensione e compassione, se non
perfino da ostilità gratuita. Coloro che seguono i valori religiosi anno la
figura di minoranze con poco sèguito. Preti, suore, religiosi sembrano i più
arretrati nella cultura attuale, nel loro modo di vestire, nelle loro forme di
vita comunitaria, nelle loro attività specifiche, nella loro concezione della
corporeità e dei rapporti interpersonali.
Il linguaggio
religioso sembra essere diventato come quello espresso nei geroglifici
egiziani, che necessita di traduzioni e interpretazioni, ormai privo della
capacità di manifestare con immediatezza i suoi significati vitali.
Ci troviamo allora ad
essere come delle "figure estranee,
strane, forestiere nella casa dei contemporanei". Gli altri non riescono a cogliere un messaggio che a noi
sembra chiaro ed evidente e si fanno di noi un'immagine diversa (e poco
gradevole) a quella che vorremmo noi.
Allora ci sentiamo delle vittime.
La questioni più
grossa è il nostro progressivo isolamento dall'evolversi della cultura.
"Il ritardo
culturale provoca un'impotenza crescente nella trasmissione dei valori
evangelici" [pag.14].
Abbiamo fuso in un
blocco unico dati essenziali e contingenti, tradizioni evangeliche e costumi
locali, scelte di fondo e mode momentanee: "tutto rischia di fare la stessa fine, di essere messo in discussione,
di essere respinto, e fors'anche irriso. La forza del Vangelo ci appare
indebolita. Avvertiamo una "prevenzione
preconcetta e radicata verso tutto il messaggio a causa del riardo culturale
delle «mediazioni» utilizzate". Si tratta senza dubbio di sfasatura
e di ritardo culturale. Un modo di
far convivere fede e storia trovato dalle generazioni a noi anteriori non regge
più. L'aggiornamento promosso dal
Concilio Vaticano 2° (1962-1965) è stato lento,
disorganico e invisibile ritardo sul rapido scomporsi della cultura liberal
borghese. Abbiamo minori capacità di incidere sulla storia attuale, come
dimostrato in politica sulle questioni del divorzio e dell'aborto e, nella
società civile, dal massiccio calo dei
segni di appartenenza alla Chiesa (matrimoni, riti, associazioni). Le Chiese "non sono più in grado di farsi
ascoltare, né riescono più ad essere punto di riferimento se non per minoranza
sempre più esigue".
Si
pensa a nuove strategia di presenza della Chiesa, attraverso iniziative
profetiche e provocatorie, mediante "un
lungo processo di nuove sintesi, di mediazioni nuove fra eredità e nuovi
problemi".
Note mie:
La situazione
delineata da Secondin all'inizio degli anni '80 ha avuto in Italia imprevisti
sviluppi. Come segnalano le statistiche, anche ad esempio quelle citate in
questi giorni sul quotidiano La
Repubblica, è proseguita la crisi dei segni
di appartenenza (battesimi,
matrimoni religiosi, frequenza alle liturgie, adesione all'insegnamento della
religione nella scuola pubblica) e si è approfondito su alcune questioni, in
particolare su quelle procreative, il divario tra l'insegnamento dei vescovi e
le opinioni e la pratica dei fedeli, ma il peso delle questioni religiose e il
ruolo della nostra gerarchia è rimasto rilevantissimo nella nostra società
civile.
Infatti spesso
vengono pubblicate statistiche centrate sugli elementi di dissenso, che
sicuramente vi sono, ma che non dicono nulla sugli elementi di consenso, che
sono ancora molto importanti e, direi, preponderanti. In particolare il senso della giustizia diffuso tra le
nostre genti è ancora profondamente improntato alla nostra fede. E la figura del Papa è ancora considerata
come quella di un maestro di spiritualità ed etica anche al di fuori della
cerchia dei cosiddetti praticanti,
vale a dire di coloro che mostrano una maggiore assiduità alle liturgie
religiose. Ciò è dimostrato dalla
stupefacente spazio che interventi del
Papa attuale e del suo predecessore hanno avuto di recente su quotidiani
considerati espressione della più rigorosa laicità
di pensiero, nel senso di estraneità
al pensiero religioso.
Se effettivamente i praticanti, nel senso che ho sopra
precisato, sono effettivamente una minoranza
della popolazione, non condivido l'opinione di chi pensa che allora la nostra,
quella italiana, sia una Chiesa in
minoranza. In realtà, sulla gran parte delle questioni più importanti per
la vita civile della nostra nazione, il pensiero ispirato dalla fede è
ancora sicuramente maggioritario. Non comprenderlo ci fa perdere importanti
opportunità.
3
Nei momenti di
cambiamento e di transizione bisogna interrogarsi su quello che sta avvenendo e
"sui significati di fondo ella storia
che si vive e si progetta, su ciò che resta e ciò che muta, su quello che dal
passato si può imparare e su quello che non si deve ripetere": è il
lavoro del discernimento.
Non bisogna perdere
l'originalità del messaggio del Signore, ma occorre "riscoprire il senso di una presenza
a contatto vivo" con l'umanità nella quale la Chiesa è
impiantata.
"Una vita
cristiana … deve continuamente riferirsi alle proprie origini; deve orientarsi
verso le promesse future nella cui aspettazione vive; e radicarsi nell'oggi in
maniera realistica" [ da La
comunione ecclesiale, documento dei vescovi spagnoli del 1979 citato
dall'autore].
Nella storia si
celebra la rinnovata accettazione della "parola ultima" di Cristo da
parte della Chiesa: essa è sequela di
Cristo, " custodia gelosa e comune degli elementi imprescindibili del
patrimonio ricevuto".
Occorre però
rileggere il patrimonio delle tradizioni
"con occhi meno incantati",
"per discernere tra assoluto e
contingente, fra rivestimenti culturali, categorie antropologiche e verità che
conduce davvero alla libertà e che va pertanto custodita in tutto il suo
spessore".
Nello sforzo di
risalire alla genuinità delle origini evangeliche vi è il "pericolo
di travolgere tutto un cammino di storia e di tradizioni, senza le quali non sarebbe
giunta fino a noi neppure la forza di risalire alla sorgente". Ma
vi è anche il pericolo di svuotare i comandi del Signore per fare stare in piedi le
tradizioni degli uomini".
"Occorre
riprendere il contatto con le sorgenti anche attraverso il tracciato storico
del fiume di Dio: perché ne mostra la fecondità e la molteplicità degli aspetti
e dei contenuti nel migrare degli anni. E così si coglie l'incompiutezza sempre presente, il
protendersi verso nuove realizzazioni, il farsi ancora ricco di sorprese,
provocatorio e demitizzante, per chi si crede in possesso della formula
definitiva".
Note mie
Nell'ultima riunione
del gruppo abbiamo assistito ad un filmato in cui sono stati presentati diversi
modi di vivere come collettività religiosa nei tempi caratterizzati dal lavoro
innescato dal Concilio Vaticano 2°. Abbiamo visto le immagini di gruppi che si
sforzano di mantenere ritualità e impostazioni del passato, rifiutando del
tutto l'aggiornamento conciliare, e varie esperienze, in particolare nell'Europa settentrionale, in
cui si cerca di costruire nuove consuetudini. E' stato sottolineato che uno
degli sviluppi post-conciliari più interessanti è stata la promozione di un
nuovo ruolo (mai esistito prima e anzi di solito duramente contrastato) dei
laici di fede. Il filmato però non ha
sottolineato che proprio in questo campo si sono prodotti contrasti molto seri,
che riflettono in genere quelli più generali che originano dal modo di
affrontare il rapporto con la storia dell'umanità. Di solito il teologhese utilizzato per parlare di religione tra noi
tende ad attenuare (mascherare?) le caratterizzazioni e a trasferirle comunque
dalla Terra al Cielo, attribuendone la responsabilità a potenze soprannaturali.
La linea di discrimine non corre però in Cielo ma sulla Terra ed è rilevabile
dal modo in cui si affrontano le questioni relative alla democrazia
contemporanea: con questo criterio si possono distinguere molto nettamente
concezioni reazionarie da concezioni di tipo conciliare, nel senso di
maggiormente in linea con il lavoro promosso a partire dal Concilio Vaticano
2°. Le esperienze dove non c'è democrazia, dove quindi ci si propone di seguire
i comandi di gerarchie di tipo oligarchico sono di tipo reazionario: la nostra
Azione Cattolica non lo è. Essa infatti ha nel suo statuto il proposito di
essere palestra di democrazia e lo
espone con molto risalto come una bandiera.
Il lavoro di discernimento storico a cui si riferisce
Secondin nel testo sopra sintetizzato è
di tipo collettivo e richiede di essere fatto nel dialogo democratico:
non è un compito per oligarchi. Per capire veramente la realtà storica in tutte
le sue sfaccettature, occorre infatti la collaborazione e l'impegno di tutti.
4
La fede s'è trovata
sempre a sostenere un dialogo vitale con le culture, la sua inculturazione: oggi, più liberamente
che in altri tempi, di questo siamo coscienti e abbiamo la possibilità di dirlo
senza correre il rischio di essere accusati di tradire la fede. Tutto ciò che è
umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, per diventare una nuova
creazione. Questa è una esigenza intrinseca all'incarnazione, la quale è redenzione, completamento e unificazione. Ed è necessario trovare un
equilibrio tra il dato/memoria ricevuto (essenziale punto di riferimento) e lo
spazio dato alla profezia, al non ancora emerso, al non ancora vissuto.
La storia del
cristianesimo può essere vista come la presenza e il dispiegarsi di un
moltitudine di volti di Cristo, che è la prova più evidente del lungo e fecondo
processo di incontro, scontro e promozione tra i dati della fede e i parametri
culturali specifici delle generazioni, delle civiltà e delle stirpi. Essa
manifesta una profezia a carattere popolare, vitale, mistico, un carisma
messianico collettivo che si esprime nelle strutture sociali e nelle arti,
nelle leggi e nei proverbi, nelle liturgie e nelle associazioni varie, nelle
autobiografie e nel paesaggio.
Nel periodo più antico Cristo è visto innanzi tutto come
l'illuminatore, il maestro
di verità, il vincitore e il signore della storia, il dispensatore di immortalità e di vita
tutto però in forma frammentaria, vista la situazione di minoranza e di
sofferenza. Emergono soprattutto le figure dei martiri, che seguono la sorte
dolorosa di Cristo, come sue membra viva
e suoi testimoni fedeli.
Intorno al 3° secolo
emerge la via dell'ascesi, animata dalla fede, dalla verginità, dalla carità,
dal servizio. Contemporaneamente emergono apologisti e dotti convertiti
che tentano una presentazione più
raffinata della via cristiana.
Quando la Chiesa
ottiene di essere associata al potere politico, i confini dell'impero diventano
i suoi confini ideali e Oriente e Occidente elaborano diverse cristologie e
diverse sensibilità di fronte al mistero di Cristo: in Oriente prevale la
sottolineatura della divinità di Cristo, mentre nelle Chiese latine si svilupperà
di preferenza il modulo del Dio crocifisso.
Sparita quasi del tutto l'esperienza del
martirio, emergono le figure dei monaci, che conducono una vita dedita all'imitazione di Cristo nel senso di
assimilazione all'attualità dei suoi misteri, in una sintesi vitale. Il Cristo
del monaco non è senza storia, ma oltre la storia. I monaci inventano un nuovo itinerario spirituale
e pongono le basi di una nuova civiltà politica che doveva nascere dalla
mescolanza fra popolazioni antiche e nuove. Essi evangelizzarono l'Europa e
civilizzarono i numerosi popoli invasori, in una lunga gestazione durata
secoli, in cui si produsse la riqualificazione in chiave cristiana delle
basiliche e delle forme religiose romane.
Dopo il mille si
sviluppò la ricerca dottrinale, sganciandola dalla devozione e sviluppando una
seri di principi filosofici. Tommaso D'Aquino (1225-1274) ne è una figura
emblematica: "la sua capacità di
sistematizzazione rigorosa del dato rivelato alla luce dei nuovi apporti
culturali (soprattutto Aristotele, ma non solo) segnerà i secoli". Nei
monasteri si sviluppò contemporaneamente una particolare elaborazione
concettuale, quella che verrà chiamata teologia
monastica.
Emerse anche la
volontà del popolo di riappropriarsi della sua fede, della sua pietà e della
sua liturgia. Si assistette al grande risveglio pauperistico dei secoli
12° e 13°, alla ricerca quasi letterale
dei valori evangelici. Ne è modello Francesco d'Assisi.
"Il valore del
poverello di Assisi diviene emblematico ancor più quando si consideri che la
teologia speculativa si stava allontanando pericolosamente dal vissuto e la
celebrazione cultuale era divenuta troppo arcana e lontana per il popolo
semplice" [pag.29].
Emerge la devozione
moderna, rappresentata nel suo capolavoro, l'opera "L'imitazione di Cristo". Si manifestò una mediazione fra
le vecchie forme di vita devota e la nuova mentalità più dinamica e laica, più
democratica e soggettiva. Emerse la coscienza viva di un Dio salvatore che è
anche uomo tra gli uomini.
"Il realismo e il verismo del volto di Cristo
di questo periodo si smorza a poco a
poco e si confonde con il Cristo grande sapiente, potente e raffinato degli umanisti e del fascinoso
rinascimento italiano" [pag.29-30].
Note mie:
Per quanto mi consta, la storia delle
nostre esperienze religiose collettive è assente dall'iniziazione religiosa. Si
passa direttamente dai tempi del primo Maestro ai nostri, senza alcuna
mediazione. Così si può pensare che la sofisticata concettuologia che ai tempi
nostri utilizziamo per esprimere la fede fosse già presente alle origini, ma
non è così. Sembra che riconoscere la verità dello sviluppo storico dei nostri
dogmi di fede conduca a sminuirli, facendone delle invenzioni umane. Eppure la nostra
dottrina teologica non è scesa direttamente dal Cielo. Le nostre Scritture
sacre non sono trattati di teologia e penso che sia per questo che su di esse
si sono potute fondare tutte le nostre teologie, nei duemila anni della storia
del nostro pensiero religioso. I nostri fedeli non sono mai stati puramente di ripetitori e la sequela non è mai stata pura
imitazione, ma piuttosto uno
sviluppare certi principi ideali. La vita terrena e gli insegnamenti del nostro
primo Maestro sono all'origine di questo processo, ma la fede in lui ci
proietta oltre il passato, di nuovo verso di lui come destino finale della
nostra storia umana. Questo slancio verso il futuro, verso le novità della
storia, è l'impegno proprio di ogni persona di fede, che deve costruire la propria strada verso il
destino beato. La ricetta non la si trova già bella e fatta, richiede uno
sforzo. Spesso le cose, nell'iniziazione religiosa, vengono presentate come
troppo semplici. Viene troppo sottovalutato il contributo umano che la fede ha
richiesto e ancora richiede.
"Non è vero che basta predicare Gesù Cristo e
che in tal modo si sono risolti tutti i problemi. Gesù Cristo è un problema
anche oggi…Il problema consiste nel vedere come e in che senso uno possa
rischiare la propria vita per questo concreto Gesù di Nazaret alla fede creduto
uomo crocifisso e risorto. Proprio a ciò si deve dare una motivazione. Non è
quindi possibile cominciare da Gesù Cristo come dal dato semplicemente ultimo;
bisogna anche condurre a lui".
[da Karl Rahner, Corso
fondamentale sulla fede, Friburgo 1976 ; Edizioni San Paolo 1990].
5
Nel Cinquecento si
creò una situazione che ha similitudini con l'attuale. Una situazione
ecclesiale che si trascina da uno scandalo all'altro. La scoperta di un mondo nuovo, con il
cambiamento di equilibri di secoli, la frattura con l'Islam, la fioritura di
speranza derivata da un Concilio (quello di Trento, 1545/1563). Tutto questo
provocò un rimescolamento di equilibri e un vero cambio di cultura e civiltà.
Si era all'inizio di un nuovo umanesimo, in rottura totale con il medioevo. Si
cerca di recuperare l'antichità classica, perché si pensava che essa avesse
realizzato il tipo umano più riuscito. Si confida nella bontà della natura: ne
intravvede le conseguenze Tommaso Moro nel saggio Utopia (1516). Si forma un sistema di pensiero nuovo. Il sapere e
l'esistenza non sono più all'interno di prospettive di fede. E tuttavia, pur
nel discredito di vecchie forme di spiritualità, si liberano nuove energie
spirituali, ad esempio la riforma carmelitana o il caso di Ignazio di Loyola.
L'esperienza concreta ha il primato sulla dottrina. La conciliazione tra due esigenze contrarie,
azione e contemplazione, avviene attraverso l'attualizzazione di un'unica
decisione di libertà, ma che prende la totalità dell'essere: è
"contemplazione in azione", un movimento unitario di apertura a Dio e
al mondo.
Si produce la riforma
protestante, centrata globalmente sul Cristo della croce. Solo Cristo, in
questa concezione, può rendere possibile la vita sociale degli uomini; da ciò
deriva un ideale di vita sociale basato sulla sequela di Cristo e perdura la collaborazione tra stato e Chiesa.
Gli anabattisti
invece, movimento evangelico pacifico fondato sulla non violenza, sull'amore
fraterno, sulla comunione dei beni e sull'universalismo della salvezza
rifiutavano qualsiasi ingerenza negli affari politici, vivendo in radicale
opposizione con le strutture del mondo.
Anche nell'ambito
della riforma vi furono quindi diversi tipi di mediazione: alcuni furono pi propensi
alla collaborazione in nome di Cristi, altri nello stesso nome più ostili a
qualsiasi progetto che non fosse la pura e semplice presenza nella storia della
novità dell'evento di Cristo.
Altri volti di Cristo emersero nei secoli
successivi: il cristocentrismo della Croce, quello dell'Eucaristia, quello del
Cuore, quello del Sangue. Nell'Ottocento
vengono recuperate, in Cristo, l'eccezionalità, la moralità elevata, la
grandezza storica. Viene anche messa in
risalto la globalità dei misteri di Cristo e si trovano negli eventi pasquali i
significati pasquali, per collegare meglio Cristo, il cosmo, la Chiesa.
La religiosità
popolare preferisce un Cristo più umano e concreto, critico e contestatore,
solidale e sofferente, amico dei poveri. Si pensa allora a un Cristo liberatore e un Cristo di
poveri.
"Ogni epoca ha espresso a suo modo la insondabile ricchezza di
Gesù Cristo con gli strumenti culturali di
cui disponeva; sul piano materiale, sociale, spirituale … anche oggi questa
novità e insonnia per Cristo non si è esaurita" [pag.34]
Secondin ricorda il
cristocentrismo del papa Giovanni Paolo 2°, secondo il quale alla base del
discorso religioso sull'uomo sta l'esperienza storica di Cristo e del suo
mistero.
"In conclusione ogni epoca storia, anche la
nostra, ha riascoltato la domanda «voi chi dite che io sia?».
E vi ha dato risposte sempre nuove, sollecitata anche dalle cangianti
situazioni culturali e pur sempre premurosa di non sminuire il messaggio
trascendente e assoluto del verbo che si è fatto carne per la nostra salvezza e
per fare dell'uomo l'icona del Verbo" [pag.35-36].
6
Il fenomeno delle
mediazioni culturali si manifesta anche nella Bibbia. Il significato della
storia, la presenza di Dio, gli effetti di essa su Israele e sul suo destino
vengono espressi e compresi attraverso le culture mesopotamiche, quelle
dell'Egitto, di Canaan, della Siria, della Persia, della Grecia, dell'Asia
Minore e poi di Roma. Non si tratta di un patrimonio che via via cresce e si
completa: si hanno accentuazioni ora di questa ora di quella prospettiva, a
seconda delle circostanza storiche e culturali. Il messianismo delle origini,
con prospettive vaghe e cosmiche, si fa più concreto e realistico al tempo dei
profeti. Israele dovette darsi un re per
proteggere meglio la propri indipendenza nazionale. Inizialmente questo fu interpretato dalla tradizione profetica
come un tradimento della sovranità unica
di Dio su Israele. In Isaia la monarchia
fu vista come una mediazione tra il popolo di Israele e il suo Signore, che
doveva tendere alla giustizia e alla pace. La figura del Messia viene
tratteggiata come un "nuovo Davide". Sulla base della visione
sessualistica/naturalistica della religione cananea, Osea presente l'alleanza di Dio con il suo popolo
come delle nozze e la terra premessa come dono nuziale. Le diverse tradizioni
culturali presentano il Messia, a seconda delle prospettive e delle
accentuazioni come mediatore regale, mediatore sacerdotale, mediatore profetico.
Le relazioni fra il Messia mediatore e Dio stesso sono espresse dai titoli di Servo, Aiuto, Figlio di Dio, Figlio
dell'Uomo, Unto. La presenza di questi titoli e attestati non è uniforme ma
discontinua. Le variazioni dipendono dalle situazioni, dai fallimenti
nazionali, dal prevalere di correnti spirituali con esigenze peculiari. La
tradizione deuteronomistica si
propone di rifare la storia con il senno del poi, organizza il culto secondo
esigenze di centralismo e di legalismo, introduce forme vitali e strutture
organizzative mutuate da altri gruppi etnici. Insomma, persone e avvenimenti
storici continenti divengono strumento di rivelazione di un messaggio assoluto
e trascendente, la parola divina e lo stesso mistero si fanno linguaggio e
segno umano. Le diverse tradizioni hanno lasciato profonde tracce nel libro
sacro. La fede degli israeliti mostrò una capacità peculiare di assimilare
elementi culturali altrui per esprimersi.
"La mediazione
culturale dell'Antica alleanza è durata fino ai tempi di Gesù: si pensi alla
corrente sapienziale e alla traduzione del libro in lingua greca. La traduzione
in lingua greca dei libri sacri - la cosiddetta «dei Settanta»
- più che una traduzione si sa che fu opera di interpretazione culturale originale".
Note mie:
Quando ci occupiamo del tema della mediazione culturale
nelle cose di fede, ci rendiamo conto che la questione va molto oltre la
semplice necessità di tradurre il
linguaggio religioso, di spiegare i suoi simboli, per la gente alla quale
vogliamo parlare della nostra fede per diffonderla. E' la stessa fede che ci
giunge portata da culture che non sono quelle del nostro tempo, quindi mediata da esse, che nello stesso tempo in cui la
trasportano nei secoli e nello spazio in qualche modo la nascondono. Questo
riguarda le stesse nostre Scritture sacre come anche ogni altra espressione
della nostra fede. Bisogna sempre fare uno sforzo per capire ed esso si fa
tanto più intenso quanto la cultura che media un certo messaggio è lontana
dalla nostra. Non è come quando ci facciamo la Comunione, prendiamo in mano
l'ostia consacrata e la mangiamo, non trovando alcuna difficoltà ad
assimilarla.
Non è così facile,
come talvolta sembra che si ritenga, estrarre la Parola dalle parole dei testi
sacri. Ma questo vale anche per scritti molto più vicini a noi, come i
documenti del Concilio Vaticano 2° che risalgono solo alla metà degli scorsi
anni Sessanta.
E spesso applicare
imprudentemente alla situazione dei nostri giorni principi che riguardavano
tempi storici molto diversi causa problemi. Ad esempio, considerando il
principio "Dare a Cesare quel che è
di Cesare" spesso non si tiene conto che esso fu formulato nella
Palestina sotto occupazione romana, in cui "Cesare" significava la
potenza occupante, che aveva lasciato una limitata autonomia alle istituzioni
locali giudaiche, quelle che ruotavano intorno al Tempio di Gerusalemme e alle
dinastie sovrane israelitiche sottomesse. Nell'Italia di oggi, dove "Cesare", siamo tutti noi che
partecipiamo al potere sovrano con i metodi di una democrazia popolare può non
essere così semplice e le nostre autorità religiose non possono essere
assimilate a quelle di quell'antico Tempio. Le cose si complicano, e molto,
quando, negli scritti "storici" e "profetici" ci si
riferisce a complicate vicende politiche dell'antico Vicino Oriente, che
coinvolsero Assiri, Babilonesi, Egiziani, come anche le altre popolazioni con
le quali gli antichi israeliti entrarono in conflitto in Palestina. Così anche
quando il cosmo, le sue origini, le sue evoluzioni, il suo destino, vengono
interpretati secondo i canoni culturali correnti in antichissime culture
mediorientali. Così l'edizione delle Scrittura Sacre commissionata dai nostri
vescovi, quella che risale al 2008, come anche la precedente, del 1974, sono
corredate da un corposo apparato di note e tutte le varie edizioni delle Scrittura in commercio
non si distinguono solo per la qualità delle traduzioni, ma per l'estensione
delle note e delle altre spiegazioni. Un accostamento troppo semplicistico e
ingenuo alle Scritture rischia di farne travisare il senso. E spesso non c'è un solo senso da capire.
L'accumularsi delle varie tradizioni ha comportato una molteplicità di
significati. Questo è piuttosto sensibile anche nei testi neotestamentari, che
pure si sono condensati più velocemente di altre parti della Scrittura e sono
stati mediati da culture più vicine a noi, in particolare quelle antiche greca e romana, che ancora permeano
profondamente la cultura del nostro tempo.
7
Gesù Cristo stesso si
è servito di elementi contingenti e parziali tratti dalla cultura ebraica del
suo tempo, a volte contestandoli o modificandoli, il più delle volte
mantenendoli inalterati. In questo senso
egli è figlio del suo tempo, del suo popolo, della cultura locale e perfino
legato alle forme linguistiche della Galilea. Fa su e le modalità religiose
della tradizione ebraica: feste, pellegrinaggi, rito pasquale, culto al tempio,
presenza alla sinagoga metodologia pedagogica rabbinica e altro ancora.
Approfitta delle feste popolari per dar loro un significato più pieno, nuovo:
ad esempio della festa dei Tabernacoli, della Pasqua e della Pentecoste. Nei
suoi insegnamenti utilizza schemi diffusi e praticati dal popolo: digiuni, oblo
al tempio, abluzioni, offerta all'altare, attese popolari sul messia e sui
profeti ultimi, credenze negli spiriti
del male. Nel Padre nostro utilizza
praticamente tutti gli elementi dell'esperienza orante tradizionale ebraica,
fatta eccezione per l'espressione originale Abbà
(=babbo, papà). Si pone però anche in tensione con la realtà del suo tempo,
facendo di se stesso il parametro di giudizio: in tal modo relativizza ogni
tentativo di manipolare il divino per esercizi di potere umano. Smantella tutte
le pareti divisorie e ricapitola in sé
l'eredità di tutti i popoli.
Il Vangelo venne predicato originariamente in
lingua aramaica. A poco a poco avviene però un distacco dalla originaria
matrice culturale. Il problema principale diviene la Legge, cui viene opposta la fede. Avviene la fissazione scritta del contenuto
nella buona novella in greco: in essa si dà prova della fedeltà all'evento
conosciuto e visto e alla sensibilità
delle persone alle quali gli scritti sono rivolti; si tratta di una legge incarnatoria. Ne è emblematico il
lavoro di san Paolo tra le genti. Nel Nuovo Testamento vi è una pluralità di affermazioni
cristologiche, di formule kerigmatiche (kèrigma,
dal greco antico: sono le formule sintetiche e fondamentali dell'annuncio
evangelico), di titoli messianici. Essi manifestano una pluralità nella
comprensione di fede del mistero di Cristo.
Carlo Maria Martini
propose una schema di interpretazione del messaggio evangelico sulla base del
tipo di discepolo al quale si rivolge: Marco sarebbe il Vangelo del catecumeno,
Matteo quello del catechista, Luca quello del teologo, Giovanni quello
dell'anziano.
Si propone anche una classificazione per
cristologia: cristologia dal basso (a Gesù di Nazaret alla fede in Cristo
Signore); cristologia dall'alto (si ha sempre come riferimento l'immagine del
Cristo pasquale, vivo, potente, rivelatore del mistero nascosto nei secoli),
cristologia funzionale (parte dall'azione salvatrice di Gesù), cristologia
epifanica o sacramentale (Gesù di Nazaret è per la fede la riveliazione del vero Dio, suo Figlio, sua Parola eterna,
la salvezza qui e ora).
La fisionomia dei
gruppi primitivi dei credenti (a Gerusalemme, Antiochia, Efeso, Corinto,
Tessalonica, Roma) stimolò i missionari
a raggiungere una conoscenza più complessa e articolare del mistero di
Dio.
Negli ultimi scritti
neotestamentari (Giovanni, Pietro, Ebrei) all'insistenza sul kèrigma si andò sostituendo quella sulla
testimonianza attraverso buone opere o bella condotta: già alla fine della
prima generazione cristiana la responsabilità del messaggio era vissuta
diversamente secondo i tempi della storia delle comunità e le situazioni
socio-religiose.
Il tema ellenistico
del corpo visto come un organismo viene reinterpretato da san Paolo in chiave
cristologica proponendo il Cristo glorioso come la testa del corpo costituito
dalla chiesa universale. Il catalogo delle virtù tratto dall'etica ellenistica
viene da san Paolo utilizzato per descrivere gli obblighi morali di ogni essere
umano dentro il cristianesimo. In epoca post-apostolica l'universalità di tali
norme non verrà più mantenuta.
Dalle origini la
storia della rivelazione proseguì e prosegue in un continuo andirivieni tra
tradizioni dei popoli e mediazioni della Parola.
"Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad
ogni uomo" [dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (=la gioia e la speranza), del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), n. 22].
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L'Europa come civiltà
superiore si avvia alla fine. La sostituisce la cultura di massa, meno
riflessiva. La Chiesa non può [non risentirne]. In essa si scontrato spinte opposte:
quella che vuole rifondare tutto da capo e quella della conservazione. Molti si
trascinano [consuetudini culturali e di culto del passato], frutto di
stratificazioni di secoli, e non hanno ancora coraggiosamente vagliato quanto
[in esse è] essenziale e quanto [è] contingente. Oppure si crede che la
soluzione della crisi stia nel ritrovamento da part dei credenti di una loro
presunta coscienza e identità di popolo , che fa da elemento unificante e
distinguente rispetto alla collettività: tale via conduce alla [emarginazione]
della fede religiosa.
Bisogna cambiare
strategia, evitare soprattutto di condurre la Chiesa ad alienarsi
nell'isolamento sdegnoso, come se fosse a sola a capire il vero bene. La Chiesa è chiamata ad essere segno
profetico nei ritmi della storia e coscienza critica [contro ogni soluzione e
mediazione che pretenda di porsi come assoluta]. E' chiamata [a contrastare]
ogni progetto che [si ponga] come ultimo, pur accettando [gli] apporti
positivi.
Il problema della
mediazione non è mai un problema chiuso, ma è in continua evoluzione, perché la
cultura non è un sistema chiuso. Come dice il Concilio [Vaticano 2° -
1962/1965]:
"Inviata a tutti
i popoli di qualsiasi tempo e luogo, la Chiesa non si lega in modo esclusivo e
indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere,
a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua
missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di
cultura … in tal modo la Chiesa compiendo la sua missione, già in questo fatto
stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e civile" [dalla
Costituzione pastorale Gaudium et spes (=la gioia e la speranza), n.58]
Il problema della
mediazione culturale in quest'epoca di grandi cambiamenti è al centro
dell'aggiornamento ecclesiale attuale, un processo enorme. Il ritardo culturale
e la persistenza di mediazioni non rispondenti
al nuovo corso sono ancora [un
motivo di difficoltà] nelle nostre comunità ecclesiali. Tuttavia lentamente sta
prendendo corpo la convinzione che [la distanza] culturale che si separa dalla
storia è una provocazione non solo alla fedeltà ai valori ricevuti, ma anche all'approfondimento
[delle possibili aperture al Vangelo] insite nelle correnti umanistiche
attuali. Non è sufficiente avere a disposizione dei valori, è necessario
diventare, essere un "valore, costruirsi in forma di valore significativo.
Tutti i [documenti
del Concilio Vaticano 2] hanno di mira una verifica dei valori essenziali per
un nuovo dialogo con il mondo contemporaneo. [Si tratta] di entrare in dialogo
con la storia attuale e i problemi culturali delle nostre generazioni per una
duplice fedeltà, a Dio e all'uomo: non si tratta di fedeltà contrapposte; esse
formano un unico atteggiamento spirituale che porte la Chiesa a scegliere le
vie più adatte ad esercitare la sua funzione di mediazione tra Dio e gli
uomini.
Per credere veramente
nell'Incarnazione occorre essere coinvolti
nell'esperienza di una sempre nuova "assunzione" della carne.
Il messaggio cristiano, si potrebbe dire, deve morire entro ogni cultura e
risuscitarvi con nuovo splendore: non deve farsi strumentalizzare, ma deve
sempre di nuovo provocare e alimentare.
"come Cristo fatto uomo -scrive Mancini- la cultura
cristiana deve incarnarsi nel mondo. Come Cristo crocifisso deve resistere al
mondo, deve progressivamente demondanizzarsi
e rappresentare per il mondo una riserva critica, la forma perennemente
alternativa. Come Cristo risorto, la cultura cristiana deve aiutare il mondo a
rigenerarsi, ad attuare prassi di liberazione".
Il disagio attuale
alquanto profondo e al conoscenza di
varianti storiche e bibliche notevoli nella trasmissione e nell'esperienza
del messaggio della salvezza, dovrebbero pacificare in noi eventuali timori di
essere alle prese con falsi problemi o di intaccare i fondamenti della nostra
fede.
9
Nel processo di
secolarizzazione emerge la prevalenza della cultura dell'indifferenza nei
confronti di qualsiasi domanda sul senso della vita umana. Il cristianesimo in
Occidente va perdendo la sua famosa caratteristica di "religione di
tutti", ma quel che preoccupa di più è il venir meno dell'idea di
trascendenza che si fa storia. Si perde allora l'alterità di Dio rispetto alla storia
e anche la non riducibilità dell'uomo alle realtà materiali e alla situazione
presente. La cultura dell'immediato e
del razionale sembra precludere ogni spazio all'annuncio di fede.
E' urgente rendere
contemporaneo il Vangelo ai nostri contemporanei.
Occorre conoscere i
vari progetti di uomo attualmente proposti da altre forze collettive e
movimenti di massa, individuare i filoni consistenti delle culture secolari che
hanno ampiamente occupato gli spazi disponibili. Gli esperti hanno cominciato a
indagare sulla consistenza di culture sommerse, dette anche subalterne: quella contadina, quella dei
pastori, quella dei migranti, quella che si sta formando nelle cinture delle
grandi città industrializzate, quella delle minoranze etniche e religiose.
[Nei tempi passati]
toccava alla Chiesa progettare l'uomo: oggi il progettare è diventato un fatto
autonomo, se non a volte in opposizione, rispetto alla tutela della fede. Molti
sono i soggetti elaboratori di nuove antropologie, primari e autonomi. Alla Chiesa
è chiesto di entrare in questo processo di progettazione.
Dei progetti/uomo se ne individuano almeno
una mezza dozzina.
Si va da quello da
quello portato a privilegiare nell'uomo la categoria della storicità, del
divenire se stesso entro la storia al modello [centrato sul fare e sulla
rivoluzione, secondo il quale] una teoria senza influsso [sul fare] è vuota.
[C'è il modello che recupera il primato dei bisogni [e li assolutizza]. C'è
quello che sottolinea la dimensione [di gioco] e festiva, contemplativa e
disinibita della persona. C'è infine il
modello di uomo pacificato con la natura e con la sua corporeità, capace di
gestire le relazioni con il cosmo e la sua interiorità mediante una disciplina
e una sapienza vitale.
Certo [serve
conoscere quei modelli], ma ancor più serve "farsi prossimi",
accostarsi e confrontarsi con queste prospettive esistenziali. Per dirla con
padre Bartolomeo Sorge la comunità cristiana è chiamata "a fare coagulo
tra culture diverse, a far emergere quei valori veri che sono comuni a diversi
umanesimi, e che si ritrovano in parte in ogni elaborazione sull'uomo".
[Lo scrittore
Bernanos] ammonisce: "Tutte le brecce si aprono sul cielo"; alle
volte la presenza del divino si scopre dove non si sarebbe pensato di trovarla.
Lo scambio vitale tra Chiesa evangelizzatrice e culture antiche e nuove è
criterio di fedeltà alla volontà di Dio di far discepole le genti.
10
I valori culturali
non sono degli assoluti. Nel dialogo occorre rispetto reciproco, donare e
ricevere. Non sempre forse è avvenuto così, anche nelle chiese.
Possiamo
guardare ai metodi di evangelizzazione
missionaria e scorgervi una evoluzione.
Abbiamo avuto un
processo di assimilazione, [inteso come] trapianto totale nella nuova
situazione del modello già costituito altrove. Si pensi ad esempio
all'evangelizzazione delle Americhe.
Una tappa successiva
è stato il processo di adattamento, [vale a dire] il processo di accostamento di
un modello culturale ad alcuni elementi di linguaggio, di sensibilità, di
espressione simbolica di un'altra cultura. E' il processo classico e il
concetto di missione fino quasi ai nostri tempi.
Si è parlato ancora
di acculturazione, [intendendo] il
confronto tra cultura e cultura, lo scambio di beni, modelli, istituzioni in
una osmosi bilaterale. E' questo il processo in atto nella pastorale italiana
postconcilare.
Si perla da un po' di
tempo anche di inculturazione,
[intendendo] l'immissione del seme evangelico in una determinata cultura, [per]
rifondare la stessa cultura, illuminandola dall'interno.
Inculturazione [è] un
neologismo usato ufficialmente nei documenti della chiesa forse per la prima
volta nel Messaggio a Popolo di Dio"
del Sinodo dei Vescovi del 1977. Il messaggio e la fede cristiana devono
tendere a "contestualizzarsi"
, a fermentare e trasformare la situazione
"locale". [Il
concetto di] inculturazione si pone ai confini tra scienze antropologiche e
scienze teologiche. "Enculturazione"
i veniva in genere chiamato dagli antropologi il processo di inserimento e crescita di un
individuo in una data cultura, attraverso varie fasi di apprendimento e di
corresponsabilizzazione. Per analogia alcuni missionari hanno cominciato a
chiamare con il termine "inculturazione"
il rapporto vitale tra messaggio cristiano e culture quando esso si sviluppa
nella linea di un vitale e progressivo inserimento e di profonda fecondazione.
Questa riflessione teologica [si è] sviluppata primariamente nelle zone di
missione [e] si riferisce anzitutto all'esperienza di chiese locali.
"La chiesa locale
è una chiesa incarnata in un popolo, una chiesa indigena e integrata in una
cultura. E questo significa una chiesa
in continuo, umile e amorevole dialogo con le tradizioni vive, le culture, le
religioni, in breve con tutte le realtà di vita del popolo" [da un
documento del Sinodo dei vescovi dell'Asia, del 1974].
L'inculturazione del Vangelo non è mai
finita, perché la cultura è una realtà vivente e in evoluzione. Ciò comporta
ovviamente individuare la diversità delle fasi, quella del prima apprendimento
che è più passiva e quelle ulteriori che vedono in gioco anche la capacità di
una partecipazione attiva. Ma il tutto avviene in modo preminente a livello delle chiese locali, e si deve
evitare di stabilire modelli e processi a
priori uniformi, come appunto invitano ad imparare non solo la storia del
passato, ma anche le attuali esperienze delle chiese nei vari continenti.
V'è in atto una
feconda stagione di riplasmazione culturale di una chiesa forzatamente
monoacculturata: [essa] esige pazienza e rispetto per un pluralismo che è segno
di una cattolicità viva e reale. Anche per noi europei e italiani [è] urgente
uno sforzo di "re-inculturazione"
della fede nel genio e nel sistema
dei valori del nostro popolo.
Occorre uno sforzo
per integrarsi e per integrare il Vangelo in un paese, in una lingua, in una
vita che in buona parte si sono fatti per noi e per la fede cristiana estranei.
Occorre ripensare il messaggio e i valori evangelici all'interno dei dinamismi
propri della nostra cultura.
In questi temi di fuga nel privato e nell'egoismo di
massa, bisogna scoprire di nuovo al forza di comunione del Vangelo.
Non [si tratta] di
piantare alberi, ma di gettare semi. E' nascondere un pugno di lievito nella
pasta per farla fermentare. E' nella carne della chiesa locale, della comunità
particolare, che il Vangelo va seminato e nascosto.
Tutto questo comporta
un processo collettivo e individuale,
una discrezione prudente, una apertura interiore capace di
umiltà e fiducia. C'è bisogno di lunga pazienza nel cercare [gli] elementi e
[i] valori evangelici che ogni cultura possiede. Si richiede audacia, umiltà [e]
passione per la comunione. La fede [allora]
darà forma alla realtà umana e sociale, trasformandola alla luce del
Vangelo in un lungo processo di tentativi e di seminagioni, che impegneranno
generazioni.
Mie considerazioni
Stiamo vivendo tempi
straordinari per la nostra collettività religiosa, in cui sembra che la storia
si sia rimessa in moto. Viverli da soli, da semplici spettatori, è triste. Si
sentono tante idee e propositi interessanti e coinvolgenti. Ma lavorarci su
richiede un'azione collettiva. Dove sono però, nel nostro quartiere, quelli che
sono interessati a questi impegno? Possibile che tutte le forze che potrebbero
collaborare siano state definitivamente disperse? Che non ci sia da noi, ad
esempio, un nucleo di dieci persone tra i quaranta e i sessanta e un numero
analogo tra i venti e i quaranta con i
quali ricominciare? Laici di fede disposti a riprendere a confrontare le
proprie esperienze religiose e di vita e a studiare per progettare e
sperimentare l'attuazione di un rinnovato modello di re-inculturazione. Disposti a stringere un patto per il rinnovamento
e per sostenere la rigenerazione delle esperienze vitali di fede, in particolare
nei più giovani.
Il nostro vescovo ci
ha esortati a essere Chiesa in uscita,
ma io voglio lanciare un appello forte alla Chiesa
uscita. Tornate, amici, a prendere il posto che è vostro! Senza timore, senza
ritegno, senza timidezza, con audacia, rivendicando ciò che è vostro e che non
può e non deve esservi tolto. Tornate in quella che è casa vostra, patria
vostra. Forzate i confini, abbattete i muri invisibili che vi trattengono fuori, entrate di forza, senza esibire i
passaporti, al modo dei migranti che attraversano i deserti geografici e quelli
della vita, le grandi acque del globo e della società, e si fanno stranieri per
non esserlo più, mai più. Invadete la vostra parrocchia. Entrate a viso aperto
e a testa alta. Portate con voi tutto ciò che siete e che ritenete buono.
Portate le vostre vite, le vostre esperienze, i vostri dolori, i vostri dubbi,
le vostre certezze, i vostri successi. Entrate gridando e cantando, al modo di
un esercito vincitore, non sussurrando e con gli occhi bassi. Tornate, tutti
voi, che siete usciti, da poco o da
molto! Tornate, voi che avete fatto il catechismo con me, in parrocchia, tanti
anni fa, e forse, passando davanti alla vostra
chiesa un po' di nostalgia ce l'avete. Tornate, ragazze e ragazzi che avete
fatto il catechismo con le mie figlie e che ora non vedo più, ma che anni fa
vedevo venire il parrocchia con la Bibbia in mano e cantare in chiesa, e ora vi
dite non più credenti e lo scrivete
anche. Tornate mamme e papà del quartiere che avete santificato la vostra vita
nella famiglia, affrontando con coraggio tante difficoltà, tante traversie,
tanti rovesci, riuscendo comunque a mantenere un ambiente amorevole o
sforzandovi di farlo,
non sottraendovi alle vostre responsabilità: non sentitevi stranieri per la Chiesa, non lo siete e non avete bisogno che, ai confini sacri, vi si timbri
il passaporto con il bollo "misericordia",
le frontiere non hanno ragione d'essere per voi, varcatele senza riserbo,
d'impeto, al modo in oggi si circola liberamente nella nostra nuova Europa
varcando confini che un tempo apparivano fatti d'acciaio. Torna Chiesa uscita a riprendere ciò che è
tuo! Fatti Chiesa in entrata! E,
innanzi tutto, prendi coscienza di essere e di essere sempre stata Chiesa.
11
Quello che forse fa
problema per noi è il tasso di profezia che
circola nel nostro sangue: cioè quell'audacia profetica che viene dallo Spirito
e rende capaci di mettere in moto la storia.
"Il
Concilio ha scosso le coscienze, è stato una grande fonte di ispirazione
e di rinnovamento; ma non ha dato (e non poteva dare) una cultura nuova. E' un
compito tutto da svolgere" (cita P.G. Cabra, 1980).
Nessuna cultura è
perfetta, non esiste una cultura totalmente cristiana, non esiste una cultura
totalmente impermeabile al Vangelo.
"L'eccessivo sviluppo del ragionamento ci ha
resi buoni dialettici, ma ha isterilito la vena profetica" (cita Carlo
Molari, 1981).
"Se l'inculturazione è un fatto vitale, è
chiaro che suppone anche l'identificazione con le sofferenze di un popolo e con
le sue ansie di liberazione e di crescita di valori autentici. Inculturazione e
promozione della giustizia si suppongono mutuamente" (cita p.Pedro
Arrupe, 1978).
Mie considerazioni
Secondin scriveva nel
1982 e ragionava ancora nell'ottica degli anni precedenti, in cui, ad esempio,
si poteva ancora parlare di popolo e delle sue ansie e sofferenze. Nel
corso degli anni '80 si è assistito, almeno in Occidente, al progressivo
allentamento dei legami sociali, fenomeno che all'inizio venne definito come un
riflusso nel privato, ma che in
seguito si è rivelato assai più serio e duraturo, fino a coinvolgere
pesantemente anche le organizzazioni politiche, che si sono fatte molto più
deboli e molto meno stabili. Ai tempi nostri si tende ad affrontare tutti i
problemi della vita in un'ottica individualistica, sulla base dell'interesse
del singolo o, al massimo, di coloro che al singolo sono maggiormente prossimi,
come i familiari più stretti. Si pensa in genere che la collettività sia più
fonte di problemi, ad esempio di nuovi doveri, che di vantaggi. Questo ha
inciso anche sulla vita e sulle consuetudini delle nostre collettività di fede.
E' diventato difficile ottenere un impegno altruistico della gente con
carattere di continuità e ciò anche in cose minime, come può essere ad esempio
un qualche servizio in parrocchia. Ma è divenuto più complicato anche solo
riunire le persone per un'attività comune, ad esempio per certe liturgie. In
una società così atomizzata, in cui
ognuno pensa più che altro ai propri interessi particolari, anche la cultura
popolare, il complesso delle convinzioni, usi, consuetudini, linguaggi, rituali
condivisi, si è venuta scomponendo in una molteplicità di culture che si
riferiscono a settori ristretti della popolazione, ciascuno in lotta con gli
altri per l'accesso a risorse scarse, per cui è problematico parlare di giustizia sociale come se ne parlava fin
dalla metà dell'Ottocento, perché mancano criteri di giudizio al di fuori di
quegli interessi particolari, incomponibili al di là di transitori e precari
accomodamenti. Si dice, ad esempio, che la nostra collettività di fede deve
avere un'attenzione preferenziale per i poveri, ma ciascuno poi, dal suo particolare punto di
vista, si ritiene povero e
ingiustamente discriminato, perché rivolge lo sguardo a coloro che hanno di più
e non a quelli che hanno di meno, e non accetta di condividere nulla con
nessuno, salvo che questo si inserisca in un accordo che comunque gli
garantisca qualcosa in cambio. L'ideologia dell'era che stiamo vivendo fu
espressa bene, negli anni '80, da Primo ministro britannico Margaret Thatcher
quando sostenne che la società non
esiste, esistono solo gli individui.
La nostra fede
religiosa si basa molto su un impegno collettivo, fondato sull'idea che ci
siano forti legami tra le persone. Si crede "tutti insieme". Le nostre liturgie, e in particolare la Messa,
manifestano chiaramente questa convinzione. Ma essa è costantemente espressa
anche dal magistero dei nostri capi religiosi, con molta forza. La fede non è
un fatto privato, che possa riguardare solo l'individuo nella sua interiorità. L'atomizzazione
della società ha pertanto colpito anche le nostre collettività religiose,
indebolendole e indebolendo la loro presa nella società. Le grandi folle che
negli anni passati sono state protagoniste di eventi con grande risonanza
mediatica, in particolare organizzati intorno alle persone dei Papi, si sono
rivelate un po' come il pubblico dei grandi concerti rock, volubili e incostanti. Creavano solo l'apparenza di un
consenso sociale che in realtà, al dunque, non c'era realmente. Riescono a
mantenersi in qualche modo coesi gruppi organizzati al modo di confraternite,
con impegni di solidarietà interpersonale molto forti, nel quadro di accordi che garantiscono un dare e un
ricevere, creando una dimensione di famiglia
allargata, di focolari domestici allargati, che però rimangono forti
quando si separano dal resto della società e
quindi la indeboliscono nel mentre rafforzano sé medesimi.
Il primo e più
urgente sforzo di inculturazione ma
pare quindi che sia proprio quello diretto a ricostituire legami più forti
nella società nel suo complesso, per creare il terreno fertile in cui il seme evangelico possa germogliare. Il
problema è che, negli scorsi anni Ottanta e Novanta, le nostre organizzazioni
religiose dell'Occidente, che erano egemoni a livello globale, hanno stretto
una sorta di patto con organizzazioni politiche che seguivano l'ideologia
dell'atomizzazione della società e dell'individualismo, contrastando le
correnti ideali e le esperienze pratiche che spingevano verso un'unità di popolo fondata su ideali altruistici di
giustizia sociale. Ciò è accaduto nel contrasto con l'ideologia del declinante
impero sovietico, che, dopo la sua dissoluzione, ha manifestato dinamiche
sociali analoghe a quelle Occidentali.
Ma quella che
definiamo dottrina sociale non ci può
aiutare, perché, al di là di generiche affermazioni di principio, essa nasce,
con l'enciclica Rerum Novarum (=sulle
novità), proprio per moderare aneliti
e correnti di giustizia sociale, temendo i riflessi sulle attività religiose
dei conflitti sociali, dai quali storicamente sono nati sistemi sociali e
politici che consideravano gli interessi di fasce più ampie delle popolazioni.
Ma, ai tempi nostri, occorre suscitare
più che moderare.
Sulla via della
moderazione, per molto tempo siamo stati in genere dei ripetitori. Ogni innovazione è stata vista con sospetto. E'
possibile che qualcosa però stia cambiando. Vedremo. Quello che è certo è che il cambiamento non potrà essere
programmato dal vertice, ma dovrà prodursi dalle basi della società. Occorre
una nuova interpretazione dei segni dei tempi e una serie di progetti comuni, a seconda delle
situazioni. Tutto questo non potrà essere contenuto nell'ennesima enciclica o
esortazione. Non è ordinando di
costituire nuovi legami che essi si produrranno nella società. Bisognerà
inventarseli e sperimentarli nelle
situazioni concrete, vedere se e come funzionano. Bisognerà costruire nuove
ideologie, intese come forme di comprensione della realtà. E' un campo in cui i
laici sono chiamati a svolgere un lavoro essenziale. Ma non siamo più abituati
a farlo. Troppo a lungo abbiamo accettato di farci ripetitori, soggiogati dalla straripante personalità dei nostri
padri universali. Il punto di partenza credo che possa essere la considerazione
che in una società atomizzata, in cui nessuno crede di avere motivo di fidarsi
degli altri, si vive male, come la
gravissima crisi economica e sociale che stiamo vivendo dimostra in modo
eclatante. Sganciandoci dalle grande ideologie sociali del passato siamo finiti
nelle mani di persuasori occulti che, sfruttando le nostre emozioni e le nostre
debolezze, ci manovrano a loro piacimento. Chi è che veramente comanda oggi nel
mondo? Nessuno lo può veramente dire. Anche l'uomo più potente del mondo, il
presidente statunitense, si è trovato a dover subire. Questo rende chiaro che
il problema che dovremmo affrontare riguarda in primo luogo la democrazia, che
nella concezione contemporanea è intesa
in primo luogo come potere di tutti, condiviso
fra tutti, l'omnicrazia della quale scrisse Aldo Capitini (filosofo,
insegnante universitario, politico; 1899-1968), in cui chi comanda ha sempre un nome e accetta
limitazioni nell'interesse collettivo e, innanzi tutto, per garantire la partecipazione più ampia ed
effettiva alle decisioni collettive. Che
c'entra la democrazia con la fede religiosa? C'entra in quanto la democrazia
crea il popolo (è il demo- della parola democrazia) ed è solo
in un popolo che la nostra fede religiosa
può attecchire e crescere, tanto che, nella nostra concezione di fede,
riteniamo di essere chiamati a radunare
un popolo.
12
In questo processo di
mediazione culturale, una specie di pellegrinaggio che si compie assieme e in
compagnia con tutti i popoli, si può essere presi dalla paura di rischiare
troppo, che può essere provocat[a] dalla fatica di cambiare, dall'intendere la
tradizione in modo fossilizzato, il che impedisce di condurre la Chiesa per vie
ignote, in terra estranea dove c'è da fidarsi solo sulla Parola di Dio e sulla
sua fedeltà.
Legge fondamentale
del Vangelo [è] far sì che la fede, penetrando in ogni cultura, la faccia altra da quella che è, lievitandola in
senso dinamico.
Ci sono epoche nelle
quali alle Chiese è chiesto di usare di più la libertà e la fantasia, la
profezia per promuovere il gusto e il sentimento della differenza qualitativa.
La nostra è una di queste.
Amore e unità devono
accompagnare e fondare il cammino di inculturazione sempre ripreso. Questa
comunione nell'unità si qualifica come professione di una sola fede e deve
essere vissuta non solo con l'animo del possesso, ma anche con quello del
progetto, perché ancora attendiamo di vedere e di vivere tutta la pienezza di
santità e di verità.
Il paradosso del
destino umano è che si diventa sé stessi diventando qualcosa d'altro. Ciò non
toglie che bisogna individuare gli elementi di continuità. Ci sono alcuni
elementi dinamici dell'identità cristiana che devono rimanere costanti. In
questo tempo la questione è diventata importante, anche perché la stessa
concezione della Chiesa e della sua
relazione con la storia e con il mondo si è modificata profondamente. Il volto
della Chiesa emerso in questi anni è
meno giuridico e istituzionale, e più sacramentale e missionario. In effetti la
Chiesa esiste perché il mondo creda. Essa non può limitarsi a parlare una
lingua intesa e comprensibile solo tra credenti, ma deve di continuo imparare il linguaggio degli uomini e
della loro storia.
[Nello] schema
classico degli Atti degli Apostoli, e
più precisamente [nei] sommari (At
2,42-47; 4,32-35] sono evidenziati alcuni elementi qualificanti [dell'essere
Chiesa]: la perseveranza nella dottrina degli apostoli, la comunione fraterna,
l'assiduità alla frazione del pane e alla preghiera, la simpatia presso il
popolo.
Mie considerazioni
Storicamente, gli
intenti di mantenere l'unità ideologica delle nostre collettività religiose hanno
originato movimenti mortiferi e oppressivi. Questa esigenza di unità di
pensiero è presto degenerata in quella che, con gli occhi contemporanei, può
essere vista come una vera e propria ossessione. Essa ha fondamenti
scritturistici ed è perciò assai difficile da superare. La sfida dei tempi
nostri è di provare a farlo.
Utilizzando la chiave
di lettura dell'analisi dei moti repressivi, può essere individuata, nella
storia della nostra confessione religiosa, un'era, che va dal Concilio di
Trento allo marzo 2013, che definirei l'era
del Sant'Uffizio, quella dell'ultima Inquisizione romana, caratterizzata da
una organizzazione burocratica centralizzata e globale della polizia ideologica
religiosa, che ha avuto termine con un nostro sovrano religioso che a lungo era
stato a capo di quella burocrazia. Negli ultimi quarant'anni l'azione di
polizia ideologica ha prodotto il progressivo inaridimento del pensiero
religioso e un gravissimo scollamento tra il popolo dei fedeli e la burocrazia
da dove quell'azione repressiva scaturiva. Quella macchina poliziesca avrebbe
tuttavia continuato a girare efficacemente, essendo un meccanismo
particolarmente perfezionato ed efficiente, basato su raffinati schemi di
pensiero e dotato di una notevole potenza mediatica, se non che altri settori
della nostra burocrazia religiosa centrale hanno ceduto, disgregandosi, in un
gravissimo processo degenerativo causato dall'inaridirsi delle nostre più
coinvolgenti idealità di fede, per cui ciò che viene definito mondanità, intesa come smania del
potere, del prestigio, della ricchezza e del piacere, e desiderio di
compromessi e alleanze con altri potenti della Terra, ha fatto, di nuovo,
irruzione negli ambienti di governo centrale della nostra confessione
religiosa, arrivando a minacciare direttamente colui che dell'unità di fede è
il simbolo mondiale. E' la storia della drammatica crisi che abbiamo
collettivamente vissuto l'anno scorso, come ci è stata riferita direttamente da
sui protagonisti e come è emersa dalle cronache.
La polizia ideologica
religiosa è stata esercitata, negli ultimi anni, secondo lo schema della lotta
all'indifferentismo, basata su una
sorta di tirannia della ragione,
secondo una concezione per la quale, razionalmente, la verità è una e una sola. Uno schema analogo fu utilizzato, con
conseguenza molto più gravi, sotto il regime stalinista, in Unione Sovietica,
sistema politico caratterizzato anch'esso da forti azioni di polizia
ideologica. In quest'ottica la ragione divide:
separa coloro che manifestano un pensiero corretto, ortodosso, da quelli che ne
manifestano uno deviato. Quest'ultimo deve essere rettificato.
Nell'ottica della mediazione culturale la ragione non è
invece un fattore di divisione, ma di
relazione. La verità è ricercata,
ma mai posseduta. Ci possono essere diversi approcci, accostamenti alla
verità. Secondo questo schema il pluralismo
ideologico non minaccia l'unità di fede e non va combattuto, ma è
espressione di operazioni di inculturazioni
della fede.
13
Quella che si chiama
anche ortodossia [deve] intendersi
come adesione vitale alla realtà
annunciata. Si tratta di una testimonianza di vita.
Come l'evangelista
Giovanni richiama spesso, occorre
"fare la verità" (Gv 3,21; 1Gv 1,6), cioè interiorizzare
anzitutto in se stessi la verità di Gesù Cristo perché essa diventi la sorgente
segreta di ogni azione.
Sempre secondo
Giovanni la verità non è nozione
astratta. Indica [invece] la rivelazione storica di Dio in Gesù Cristo, che si
attualizza nel cuore dei credenti in virtù dello Spirito Santo. La Parola e la
verità sono come un seme (1Gv 3,9), un olio di unzione (1Gv 2,20.27), acqua
viva (Gv 4,10.14); trasforma a poco a poco il credente dall'interno e lo fa
"nuovo" in tutto il suo agire.
C'è una tensione
molto feconda nel rapporto tra messaggio cristiano che è irreversibile e
definito e la varietà delle espressioni dottrinali, culturali e pratiche, entro
cui esso viene veicolato, adattato e spiegato nella vita. C'è il rischio
continuo di diluire la forza del Vangelo, ma c'è anche il pericolo che [il]
contenuto evangelico sia sopraffatt[o] da contaminazioni ideologiche proprie di
certe stagioni culturali, o sia soffocat[o] da assolutizzazioni [esterne] alla
rivelazione.
Il magistero dei
successori degli apostoli come anche quello della "collettività dei
credenti" uniti ai pastori e sostenuti dalla Spirito nell'unità (Costituzione
dogmatica Dei Verbum - =la Parola di Dio - del Concilio Vaticano 2°
- 1962/1965) [aiutano] "non
sbagliarsi nella fede" (Costituzione dogmatica Lumen Gentium - =Luce per le
genti - del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965).
Il centro essenziale e sostanziale di tutte
le verità cristiane è la proclamazione della misericordia di Dio nell'evento di
Gesù Cristo, uomo e Dio incarnato, morto
e risorto per noi, e perciò salvatore e vivente nei secoli. E attorno a simile
proclamazione e professione sostanziale e sulla base di essa che va giudicata
l'ortodossia o anche la sola compatibilità (o no) delle prospettive e delle
opzioni culturali e vitali nuove, emergenti dal mutare degli anni.
Qualcuno potrebbe
pensare che il processo di inculturazione metta in pericolo l'universale forza vincolante
dell'unico Vangelo, in quanto apre la via ad un pluralismo pernicioso e
relativizzante. Ma si deve osservare che l'universalità del messaggio
cristiano, dell'etica cristiana e dell'esperienza cristiana, non è da
intendersi in modo fissista e statico, ma dinamico.
Cita Tullo Goffi, Cattolicità dell'etica acculturata,
1979: "Il Signore ha offerto alla
Chiesa il messaggio evangelico come fermento di unità cattolica da realizzare
progressivamente; come grazia che orienta faticosamente verso la comunione
nell'unica fede; come visione dottrinale destinata a riunire tutti i disparati
valori in unità solamente alla fine".
Mie considerazioni
La questione dell'ortodossia, del corretto
modo di pensare ed esprimere la nostra fede religiosa, ha travagliato le nostre
collettività religiose fin dalle origini e ne è rimasta traccia evidente in
quella parte delle nostre Scritture sacre che riflette l'esperienze delle prime
nostre aggregazioni di fede, in particolare negli scritti di Paolo di Tarso.
L'intento di realizzare l'ortodossia ha suscitato storicamente incredibili
efferatezze e violenze, fino ad arrivare a vere e proprie guerre, realtà dalle
quali oggi, seguendo il magistero del papa Giovanni Paolo 2°, possiamo
onestamente prendere le distanze. Cambiare la storia non è possibile, è
possibile invece falsificarne la memoria e ciò è stato fatto, a lungo. Oggi
siamo invece chiamati ad un lavoro contrario, vale a dire a quella che è stato
definito purificazione della memoria,
che implica innanzi tutto fare realistica memoria di ciò che è accaduto e proporsi
di distaccarsi dal male che è stato
fatto, prendendo un'altra direzione per il futuro. Non si tratta di ergerci a
giudici di personaggi del passato, i quali vissero, ragionarono e agirono
secondo la cultura dei loro tempi, per certi versi tanto diversa, e tanto più
feroce e intollerante, di quella dei tempi nostri. Si tratta invece di non
farsi dominare da un passato che contiene tanta brutalità. E' ciò che si fa, ad
esempio, nel confrontarsi con certi brani crudeli delle nostre Scritture Sacre,
in particolare di quelle che abbiamo adottato dall'antico giudaismo, in cui si
fa l'apologia dell'omicidio, delle stragi, addirittura del genocidio, dello
sterminio di interi popoli. Oggi, ad esempio,
non saremmo più disposti a passare tra le case dei nostri concittadini
per trucidare, per sacro zelo, coloro che si sono dati agli idoli. Quello che sto scrivendo può apparire ovvio,
ma in realtà non lo è. Per certi versi sembra che solo l'anno scorso si sia
usciti dall'era, durata cinque secoli!, dominata dal Sant'Uffizio, la rigida burocrazia di polizia ideologica che,
secondo una visione ancora corrente ai tempi nostri, sembrava indispensabile
per mantenere l'universalità del messaggio di fede, quasi che esso non si espandesse,
in realtà, per forza propria,
soprannaturale.
Noi laici non abbiamo
voce nella riforma delle strutture del clero che esprimono il governo della
nostra confessione religiosa. Decideranno quindi i vegliardi che occupano i
posti di comandi. Può piacere o non piacere, ma così è. Viviamo comunque nel
secolo giusto: le loro decisioni, qualunque esse siano, non sconvolgeranno le
nostre vite. Fossimo stati, ad esempio, nel Cinquecento, sarebbe stato diverso.
Quello che possiamo
fare è sperimentare nuove forme di convivenza tra di noi, in cui si sia
maggiormente tolleranti delle differenze di modi di pensare, di agire, di
relazionarsi con gli altri fedeli e con le società intorno. E poi cercare di
essere meno clericali, meno dipendenti in tutto, anche in quello che
competerebbe primariamente a noi, dai sacerdoti. Cercare quindi di approfondire
le questioni, di farsi carico dell'unità, di non rimanere sempre a rimorchio,
come pesi morti, di qualche prete. E cercare di non prendere parte nelle lotte
clericali, tra fazioni di preti. Non è una cosa facile perché ci hanno
cresciuti insegnandoci a farci dipendenti dal clero, obbedienti e docili, al
modo di un gregge. E a diffidare di tutti i devianti. Per non avere problemi,
che poi potrebbero riflettersi duramente sulla nostra vita spirituale, si tende
quindi, nelle questioni controverse, a concedere un assenso formale, mantenendo
però riserve interiori. Questo non fa progredire le nostre collettività, che si
sono infatti inaridite dal punto di vista del rinnovamento ideale. Si tende ad
essere semplici ripetitori. Ecco che
ora ci accusano di essere diventati delle mummie,
di aver trasformato i nostri templi in musei. Sicuramente noi laici abbiamo le
nostre responsabilità, ma bisogna pur dire che, finora, quelli che comandavano ci hanno voluti
proprio così, semplici comparse in uno spettacolo in cui i protagonisti erano i
nostri sovrani religiosi. E, in effetti, non è ancora cambiato molto.
Nell'esperienza
religiosa si hanno ciclicamente a che fare con forme individuali e collettive
di eccesso e stravaganza, movimenti visionari o tiranneggiati da guide
spirituali dispotiche, correnti di bellicoso ritualismo, gruppi che cercano di
scalare l'organizzazione feudale della nostra organizzazione religiosa per combattere
guerre sante dall'alto dei troni religiosi e via dicendo. Una fede che si
propone di fare unità nel genere umano e, in prospettiva, di unificarlo in un
solo popolo animato dagli stessi
ideali religiosi deve indubbiamente fare i conti con tutto ciò. Tuttavia,
probabilmente, la questione va posta, ai tempi nostri, in termini diversi che
come ortodossia, intesa come
accettazione di un'unica autorità spirituale che tracci i confini con atti
normativi e poi giudichi la conformità di pensieri e prassi nel quadro di una
sorta di procedimento giudiziario. E, innanzi tutto, quello che si fa in questo
campo deve essere forse svincolato dalla burocrazia del clero, che viene talvolta ad assumere le funzioni di una
polizia ideologica, se non esplicitamente politica.
Dovremmo ideare e
sperimentare meccanismi di riconoscimento reciproco condivisi che consentano di
far coesistere pacificamente la diversità in una unità benevolente. Mi pare che
proprio sviluppando le tematiche che dal secolo scorso hanno riguardato in
religione la questione della pace si
potrebbero raggiungere dei risultati. Ai tempi nostri infatti parliamo di pace in senso molto diverso dai secoli
passati, nei quali una realtà pacificata
era in definitiva concepita come quella in cui cessasse ogni dissenso, il
pluralismo, la diversità di pensiero e prassi. La pacificazione era intesa quindi come repressione della ribellione. Nell'era
contemporanea pace significa accettazione delle diversità e
ricerca di forme organizzative che consentano di farle coesistere senza che
diano luogo a conflitti sociali. Il dialogo interreligioso si basa proprio su
questa idea. Ciò ha consentito alla nostra confessione religiosa di fare pace con altre confessioni
religiose in passato duramente combattute come eretiche. Si tratta di un
portato dei tempi nuovi che stiamo vivendo, che, dunque, non esprimono solo il
male e il degrado, come taluni sembrano ritenere. Sono le democrazie
occidentali contemporanee ad aver raggiunto i
migliori risultati e, in religione, ci siamo messi alla loro scuola. E,
insomma, il nostro magistero professionale si è fatto in questo discepolo, pur
continuando, formalmente, a dettare legge. Alcuni vedono in questo un male, ma
i frutti sono buoni. Ai tempi nostri non si rischia più la vita per questioni
religiose. I laici di fede italiani, che vivono da protagonisti queste nuove
dinamiche democratiche, hanno ora la possibilità di essere creativi in campi in
cui la polizia ideologica religiosa precludeva l'accesso, pretendendo
uniformità e obbedienza. Mancano però le forme organizzative, perché la nostra
confessione è ancora struttura al modo feudale. Ma sperimentazioni di base
possono essere attuate, ad esempio nei rapporti di diversa ispirazione e
tendenza che vivono nelle parrocchie. Dobbiamo innanzi tutto, per come la vedo
io, iniziare dal proporci di non far
fuori le esperienze degli altri, sebbene diverse dalle nostre.
14
Faticosamente stima
riscoprendo in questi anni [l'autore scrive nel 1982 - nota mia] la concezione neotestamentaria della fraternità, ben
lontana dalla fratellanza di tipo stoico, dall'egualitarismo democratico oggi
di moda, come anche dalla concezione di gruppo "settario" e isolato.
Fraternità è frutto ed esigenza di un nuovo rapporto col Padre unico e con la
sua volontà di salvezza universale in Cristo.
Attualmente si
cercano nuove forme di fraternità, di
condivisione dei beni, di povertà evangelica gioiosa e liberante.
Logico che vi siano
in questi tentativi a volte delle radicalizzazione non sempre equilibrate o che
si cada nella reciproca diffidenza fra gruppi. Ci sono gruppi che svendono
quanto la Chiesa è stata ed ha fatto fino ad oggi, in nome di una purificazione
radicale e di una rifondazione alla luce di un Vangelo inquadrato in schemi
ideologici di moda. Ma ci sono anche gruppi che al contrario assolutizzano forme storiche tradizionali
fino ad accusare di illegittimità ogni tentativo altrui di rinnovamento. Tali
gruppi si fronteggiano oggi nella Chiesa con reciproche repulsioni che
dilacerano la comunione.
Occorre distinguere
bene il pluralismo di opzioni temporali
e la professione di fede nel valore singolare dello spirito delle
beatitudini e nella speranza del compimento in Cristo di tutta la storia umana.
Cita san Giovanni
Crisostomo (4° secolo dell'era antica): "la Chiesa non è fatta per
dividere quelli che si riuniscono, ma per riunire insieme quelli che sono
divisi".
Il centro visibile
della comunità e della comunione fa recuperato a livelo locale, ed è il vescovo
con il suo presbiterio. Senza comunione con essi, ed insieme ad essi con il
Papa, non si dà autentica comunione cattolica, e l'esperienza di mediazione
culturale rischia di assumere i connotati della provocazione settaria. Ma anche
questa comunione non è fine a se stessa, ma è in vista del popolo di Dio
chiamato a modellarsi sull'unità trinitaria e della riunione fra tutte le genti
(Lumen Gentium -=luce per le genti;
Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965), il che è la vera
missione della Chiesa (Mt 28,19). Una
comunione che significasse la fine della creatività e della ricerca profetica,
non sarebbe la comunione ereditata da Cristo.
Mie considerazioni
La fraternità universale supera i limiti fisiologici di un
individuo della nostra specie. Si è calcolato, sulla base di sperimentazioni,
che una persona umana è in grado di stabilire relazioni sociali profonde con non
più di circa 150 persone (è il cosiddetto numero
di Dunbar). E' solo in un gruppo con questo numero di persone che si
possono stabilire, per così dire naturalmente,
relazioni sociali non conflittuali. Ma le società umane, e anche le nostre
collettività religiose, sono composte da un numero molto più grande di
individui. La strategia escogitata dalla nostra specie, con notevoli sviluppi
per evoluzione culturale, è quella di non cercare di guardarsi in faccia gli
uni con gli altri, tutti quanti siamo, cosa che appunto supera di gran lunga le
nostre possibilità fisiologiche, ma di guardare tutti verso determinati
modelli o persone. Questo rende possibili relazioni pacifiche tra un numero
enorme di individui e l'organizzazione della complessità delle nostre società. Il
metodo democratico contemporaneo è il modello più evoluto di questa strategia e
combina il guardare insieme verso
modelli e persone, mentre il modello feudale monarchico era basato
sostanzialmente sul guardare tutti
insieme a delle persone, i sovrani fra loro coordinati gerarchicamente
tutti rivolti verso un monarca a tutti superiore, che impersonava l'unità. Il vantaggio del modello
democratico è di essere meno conflittuale
di quello feudale perché basato sulla pari dignità delle persone umano e
quindi limitativo degli eccessi dispotici delle varie persone alle quali,
secondo certi modelli, è attribuito il ruolo di guide. I conflitti tra coloro che ambiscono di impersonare tali ruolo è
condotto secondo procedure altamente formalizzate e, per questo, si proclama che
ogni autorità è soggetta alla legge,
a un certo modello ideale. Il sistema di tipo feudale ha storicamente prodotto
un maggior livello di violenza, nella lotta tra i sovrani feudali per il
predominio. Ciò è accaduto e accade nella nostra collettività religiosa che è ,
anacronisticamente, ancora organizzata sul modello feudale. In realtà noi
sperimentiamo nella vita delle nostre collettività che non vi è, in genere un
modo di composizione pacifico dei conflitti se non quello di decidere di
sottomettersi tutti ad un unico sovrano. Questa organizzazione è
un prodotto dell'evoluzione culturale, non esisteva alle origini, anche se in
teologia si pretende di trovarvi agganci con le nostre Scritture sacre. La
concezione basata sull'idea che vi sia un popolo
unito dalla fede e che esso deve potersi esprimere in ogni cosa della fede,
emersa con forza all'inizio degli scorsi anni Sessanta, non è n realtà componibile con la concezione
feudale, secondo la quale l'unità consiste nella comune sottomissione a un
sovrano, anche se le due concezioni continuano ad essere proposte insieme, come
integrabili a vicenda. Presentare la dialettica che oggi si è prodotta nelle
nostre collettività religiose come quella tra i vescovi e il Papa significa
riproporre schemi antichi (più volte nella storia della Chiesa conflitti basati
su di essa si sono accesi, anche con conseguenze tragiche): il centro della
questione è se mettere o non mettere radicalmente in questione il sistema
feudale di organizzazione che abbiamo ereditato dai secoli passati. Non si
verte quindi in materia di contrasto tra un re e i suoi lords, i suoi feudatari ma tra re
e popolo. Dove spira il vento del soprannaturale: sul re e i suoi feudatari
o sul popolo? Si sostiene che quest'ultimo avrebbe un particolare senso della fede, ma poi, in realtà lo
si ascolta poco e, innanzi tutti, di solito lo zittisce. Esso non parla con una
voce sola, è infatti una realtà pluralistica. Questo spaventa. La verità, si
dice infatti, è una e una sola ed è
quella proclamata dal monarca supremo. Se così non fosse il gregge si
disperderebbe, si sostiene. Ma un popolo può
essere visto ancora, realisticamente, come un gregge? Avere voluto continuare a considerarlo tale ha prodotto la
gravissima e drammatica crisi che la nostra collettività religiosa sta vivendo.
Questo mese saremmo
invitati a celebrare due nostri grandi sovrani religiosi. Accorreranno le
folle, qui a Roma. In occasione di precedenti eventi simili, esse sono state
solo comparse di uno spettacolo liturgico diretto a manifestare il grande consenso
verso il nostro sistema feudale di organizzazione religiosa, andando dove
veniva detto loro di andare, recitando e cantando le parole che veniva detto
loro di recitare e di cantare. Questo grande convergere di gente potrebbe però
essere anche l'occasione propizia per interrogarsi se quel ruolo ci soddisfi
veramente ancora.
15
Afferma fortemente
S.Paolo: "Poiché c'è un solo pane,
noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo a
quest'unico pane" (1 Cor
10,17).
Nei molteplici gruppi
e nelle esperienze varie spesso la celebrazione dell'eucaristia rimane il punto
di incontro più alto e intenso.
L'eucaristia della ecclesìa (termine del greco antico, che
significava assemblea del popolo, passato
poi nel latino come ecclèsia, da cui Chiesa) locale rende presente la sostanza
della Chiesa tutta intera, facendo dinamicamente tutte le esperienze cristiane
comunitarie.
Nel fare memoria di
quanto Dio ha fatto per noi nella pasqua del suo Figlio, la Chiesa viene
chiamata ad assumersi delle responsabilità in ordine alla liberazione degli
uomini.
"Una volta
attirati alla sequela di Cristo nell'eucaristia, i cristiani trovano la forza
di liberare se stessi e i loro fratelli da ogni manipolazione e di divenire
costruttori di un mondo nuovo, dove i diritti e la dignità di ciascuno siano
rispettati, non a parole ma a fatti" (cita un testo sul Congresso
eucaristico internazionale di Lourdes, 1981).
Mie considerazioni
L'esperienza dimostra che la nostra fede
funziona molto meglio come fattore di liberazione
individuale, personale, che
collettivo. Solo nei primi quattro, cinque secoli della nostra storia religiosa
le nostre collettività hanno espresso potenzialità di innovazione e
liberazione. Per un tempo veramente lunghissimo, durato fino alla meta del
secolo scorso esse si sono aggregate in un impero religioso che ha sempre teso,
dove ha potuto, a stipulare alleanze con i sovrani civili, senza tener tanto
conto del loro orientamento etico. In genere la religione come manifestazione
collettiva viene tuttora sperimentata
come espressione di orientamenti conservatori e di azioni repressive. Appare
superficialmente che, per essere religiosi, ci si debba sottomettere ai preti
ai loro alleati politici. Solo approfondendo si può scoprire e sperimentare il
potenziale liberatorio che è insito nella nostra fede. Coloro che hanno cercato
di teorizzare e di attuare prassi liberatorie a sfondo religioso sono stati
duramente repressi, in particolare dalla fine degli anni Settanta. Ogni volta
che in religione si affronta il tema della libertà
inizia col precisare, pignolescamente, che cosa non deve intendersi per libertà. Sembra poi che quando si passa a
dare una definizione di libertà in
positivo rimanga poco. In genere ai fedeli viene posto come pio obiettivo l'obbedire liberamente al volere dei nostri sovrani religiosi.
In effetti, finché si
rimane sul generico, le parole libertà
e liberazione fanno effettivamente
parte del lessico religioso. Quando però si cerca di dare un po' di concretezza
a questi aneliti liberatori, le cose si complicano.
L'unico campo in cui
l'azione collettiva a sfondo religioso appare ottenere risultati di un certo
rilievo è quello del volontariato sociale. Per il resto, quando uno si propone
di agire in altri settori della società civile, gli viene di solito intimato di
farlo sotto la propria responsabilità e senza manifestare motivazioni
religiose: viene in sostanza sconfessato.
Così, la grande
emotività che deriva dalle nostre grandi celebrazioni liturgiche rimane in
genere ad un livello collettivo piuttosto superficiale e le folle, dopo essersi
adunate e aver pregato insieme, si disperdono e se non lo fanno ci si preoccupa
di disperderle. Per tanto tempo è andata bene così. E' possibile cambiare? E'
possibile. Ma bisogna prepararsi, riprendere in mano i libri, correre il
rischio di sperimentare. In genere, noi laici si va dietro ai preti e loro sono
inseriti in un sistema feudale che ha sempre funzionato bene come strumento
repressivo in tutti i sensi. Oggi forse non si arriverebbe alle inaudite
asprezze che furono riservate, ad esempio, a Lorenzo Milani, ma mi pare che un
certo conformismo continui ad essere apprezzato.
Effettivamente nella
fede si può fare l'esperienza che viene definita come rinascita. La fede può cambiare molto profondamente la vita. Ma poi
sembra che non si possa realizzare una unità
collettiva se non rinunciando a gran parte di ciò che si è diventati da rinati.
Rinunciando quindi ad essere costruttori
di un mondo nuovo. La Gerusalemme
celeste, la nuova casa degli essere umani nel soprannaturale, giungerà del
cielo già pronta e adorna per essere abitata, si dice, senza che noi si debba fare granché. E' solo
allora che i sovrani saranno deposti dai troni e innalzati gli umili, come è
scritto.
Il problema è il
voler avere un solo mondo nuovo.
Bisognerebbe pensare se invece si debba accettare il nuovo in una sua
dimensione pluralistica, in modo che l'esigenza di unità non divenga il motivo di costruire non nuove città, ma un grande carcere planetario.
16
Pregare è un po' come
il respiro profondo di una comunità che sa di essere sotto la potente
attenzione di Dio.
Sono molte le
comunità ecclesiali che stanno
riscoprendo la preghiera non come un qualcosa di accessorio, alienante e
fors'anche di falso, ma come un'avventura verso la pienezza della propria
identità cristiana.
Ha scritto uno dei
leader delle nuove comunità di base italiane [cita Franco Barbero, Maestri di nessuno, Claudiana, 1978]:
"La preghiera non esaurisce la fede, ma
una fede senza preghiera è inconcepibile.
Senza la preghiera la fede o si estingue o diventa dottrinale … Anche nel vivo della lotta politica,
anche nel vertice dell'impegno sapremo ancora
e sempre ricevere, attendere dalla mano del Signore, ci lasceremo sempre e ancora fare dono del suo
amore. Impiegheremo le nostre mani, ma
continueremo a fidarci del suo braccio … Pregare è anche una grande croce, perché esige disciplina, fatica,
silenzio".
Pregare è uno dei settori nei quali in questi anni si sono rivelate le
stratificazioni culturali sorpassate (linguaggio,
universo simbolico, ritualità, ritmi, ruoli ecc.), ma anche le potenzialità di
nuove mediazioni, di nuove interpretazioni anche di elementi tradizionali come
i salmi, la proclamazione della Parola, la riunione comunitaria, il canto
collettivo, le immagini, le fonti liturgiche. La preghiera ha bisogno di essere
sempre evangelizzata: cioè ricondotta alla fisionomia dell'ascoltare e
rispondere, dell'adorare e supplicare nella prospettiva del mistero di Cristo.
Talvolta purtroppo si ha a che fare con una preghiera comunitaria fondata su
esperienze magico-taumaturgiche, sull'eruzione incontrollata dell'inconscio, su
esigenze epidermiche, sull'euforia isterica.
La preghiera va
fondata teologicamente e collocata nel fiume della storia e della speranza non
conclusa (Il cosiddetto tempo intermedio). La preghiera di cui parliamo è anche
superamento di una preghiera di consumo.
Mie considerazioni
La fede, nella mia esperienza, sia come
fatto personale che collettivo si esprime nella preghiera. Anche se fatta
insieme ad altri la preghiera rimane un fatto interiore e come tale in gran
parte incomunicabile. Quindi si può insegnare
a pregare solo fino ad un certo
punto. Poi ognuno dovrà addentrarsi in un territorio che rimarrà inaccessibile
agli altri. Ma dovrà farlo, se vorrà conservare la fede. Questo è ciò che ci
insegnano i maestri e ciò che si può verificare nella pratica, ottenendone una
conferma per così dire sperimentale.
Dicono che una voce
dall'alto ci parla per prima, ma bisogna intendersi su quello che così si vuole
intendere. Non è che ci si debba attendere di vedere gli angeli o di udire veramente una voce soprannaturale. A me
non è mai accaduto e penso che non sia accaduto nemmeno alla maggior parte
delle persone religiose. Nella preghiera si fa un'esperienza interiore e,
ricostruendola a posteriori, una persona può concludere che è stato come dopo aver udito una voce
soprannaturale. Non è poco, comunque.
Per capire
ciò che intendo è necessario sperimentare la preghiera, a cominciare da quella
liturgica che si fa insieme ad altri. Chi ha ricevuto fin da piccolo una iniziazione
religiosa conosce le formule classiche di preghiera, innanzi tutto quella
evangelica del Padre nostro e poi
un'altra, caratteristica della nostra confessione, quella dell'Ave Maria. Con quella del Gloria al Padre e del Salve
Regina compongono la salmodia del popolo, il Rosario, una di quelle
preghiere che Carlo Maria Martini, grande maestro di spiritualità, chiamava a ritmo, destinate a dispiegarsi
all'occorrenza per un tempo indefinito legandosi con il ritmo stesso
dell'esistenza biologica della persona, innanzi tutto sul ritmo del respiro e del battito del cuore. Un buon test per capire
se si è ancora, nonostante tutto, una persona di fede, che può dirsi ancora nel
solco della tradizione del nostro primo Maestro, è provare a recitare una di
quelle preghiere. Quando non si riesce a
finire il Padre nostro si è fuori e
non sarà facile riavvicinarsi. Un buon
inizio è proprio partire dal Padre nostro.
Ma non basta memorizzarlo come una qualsiasi poesia. Occorre avere molto, molto
tempo. Nella preghiera infatti si fa uno spreco enorme di tempo, secondo i
canoni dell'industria contemporanea. Quindi poi la preghiera è liberare il nostro tempo per la
preghiera. E' incredibile come, nella contemplazione, una preghiera semplice
come il Padre nostro si possa dilatare all'infinito prendendo tempi
lunghissimi. Insegnano i maestri che occorre cercare un luogo in cui si possa fare silenzio, in cui taccia il mondo
intorno, taccia il nostro mondo interiore, si stia in meditazione delle cose
della fede. Le nostre chiese, e comunque alcune parti di esse, in genere sono
luoghi adatti per queste attività. Alcune chiese di Roma, storiche, molto
frequentate dai turisti, non lo sono, perché il vagare e il chiacchiericcio dei
visitatori distrae. Altre invece lo sono particolarmente. Ci si può mettere in
una sorta di pellegrinaggio e cercarle. Ma, in fondo, perché girare, quando c'è
la nostra chiesa parrocchiale, a due passi da casa nostra? Bisogna però dire
che l'esperienza del viaggio, del muoversi, prepara alle esperienze
spirituali e, innanzi tutto, favorisce quel distacco
dal mondo di tutti i giorno, in cui siamo per così dire incapsulati come una rotella in un ingranaggio, che è essenziale
all'esperienza di preghiera. Tuttavia questo lavoro per liberare il nostro tempo e di distaccarci
dagli ingranaggi sociali non deve essere un'esperienza saltuaria, destinata a
tempi straordinari, ma quotidiana e abituale. Dirlo sembra facile, nella
pratica non lo è. "Pregare è anche
una grande croce, perché esige disciplina, fatica, silenzio", scriveva
Barbero e, nella mia esperienza, è proprio così. In qualche modo bisogna forzare la nostra vita per liberare tempo per la preghiera.
17
[La] simpatia presso il popolo è una delle
costanti dell'avventura della Chiesa primitiva (si vedano ad esempio i richiami
[negli] Atti degli apostoli 2,47;
4,21.33; 5,13) [ed è] quindi uno dei criteri per riconoscere se si appartiene
alla "cattolicità".
Secondo gli
esegeti questa karis [parola greca che
significa carisma = dono soprannaturale] può essere intesa come la forza di Dio
che accompagna il ministero con segni e prodigi ma [ad avviso dell'autore vi
deve essere] incluso e sottolineato il
valore particolare di questa simpatia del popolo.
Nello
sforzo di creare una vera fraternità attorno al Signore, i credenti si guardano
bene dal trasformarsi in ghetto.
Questo
dialogo intenso con il mondo circostante
[procura] simpatia e favore: è vero sempre. La vita costringe ad
organizzarsi in fraternità compatte, in strutture sociali che consentano di
rinnovare e rafforzare la fede a contatto con i testimoni qualificati e con la
celebrazione orante della frazione del pane, rito specifico. Ma nel contempo i
credenti si devono rendere conto che per poter svolgere la loro azione
profetica devono essere aperti agli altri.
La stessa
cosa del resto raccomandava Pietro ai cristiani
dispersi ed emarginati:"Adorate il Signore, Cristo, nei vostri
cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta
coscienza" (1Pt 3,15).
Il ruolo di
minoranza conoscitiva e profetica nel Nuovo Testamento è sempre visto in osmosi
con tutto il cammino dell'ecclesìa (=Chiesa)
e della società civile, per non degenerare nell'illuminismo esoterico o nella
situazione settaria tipica degli esuli della storia.
Mie considerazioni
Spesso i sacerdoti, in parrocchia, ci fanno notare
come il mondo che ci circonda, e anche nel nostro quartiere, si sia allontanato
da una visione religiosa della vita. Questo è senz'altro vero. Questa
situazione è molto progredite in questo
senso dai tempi in cui scriveva Bruno
Secondin, all'inizio degli anni '80. Mi capita di notarlo spesso quando devo
sentire delle persone nel mio lavoro e, quando gli chiedo informazioni sulla
loro situazione familiare, alla voce "coniugato?",
mi rispondono "convivente".
È però, a mio parere, un fenomeno diverso dal secolarismo, perché non ha comportato una diminuzione delle
credenze nel soprannaturale, un aumento della razionalità della gente. Mi pare
invece di capire che le persone si muovano pensando che ciò che loro accade sia
determinato da un contesto, per così dire, magico,
che interpretano secondo criteri che, per una persona religiosa, sono pure superstizioni. Quindi, in realtà, non è
la religione ad aver fatto passi indietro, ma è la nostra religione ad aver
perso presa tra la gente e questo per vari motivi. Di solito, per spiegare ciò
che accade, si fa riferimento, ad esempio, ai costumi sessuali più disinvolti
della nostra epoca, che contrastano con la severa morale religiosa. Ma invito a
riflettere sulla circostanza che nei duemila anni della nostra storia religiosa
le condotte sessuali delle genti cristiane, in realtà, clero e popolo, sono
state sempre assai divergenti dai modelli proposti nella predicazione. Ci sono
state epoche in cui gli stessi Papi avevano concubine, chiamate, appunto, Papesse. Da questo punto di vista uno
dei punti più bassi, nella storia della nostra Chiesa, si è raggiunto intorno
all'anno Mille, proprio alla vigilia di cambiamenti epocali, dell'introduzione
di leggi della nostra confessione religiosa che hanno profondamente segnato le
istituzioni della nostra collettività religiosa, per cui, ancora oggi, il
modello organizzativo della nostra
confessione religiosa, pur dopo i mutamenti decisi nel corso e a seguito
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), risale ancora a quell'epoca.
In qualche modo è la dimensione collettiva
della vita di fede ad essere stata colpita e ciò è dimostrato, in Italia ma anche
in tutta Europa, dal distacco dalla liturgia, in particolare dalla frequenza
alla Messa domenicale. Possiamo considerarlo un'espressione di un male che ha
colpito in generale tutta la società civile, in particolare nella sua
organizzazione politica, che in democrazia richiede una intensa partecipazione
alle decisioni collettive. Si preferisce vivere la propria fede religiosa nella
propria individualità, o al massimo in piccoli gruppi amicali che mimano la
vita in famiglia. Questo comporta, distaccandosi dalla matrice originale, lo
sviluppo di una incredibile varietà di concezioni religiose, talvolta
coincidenti con le visioni del singolo individuo, con tutti i limiti derivanti
dalle capacità di comprensione di una persona isolata. Spesso, a questo proposito,
si parla di ignoranza religiosa, nel senso che la gente sembra non
avere più consapevolezza delle verità fondamentali della nostra fede, ma credo
che, in realtà, si tratti di qualcosa di diverso, vale a dire della difficoltà
di vivere la propria fede insieme ad altri e in particolare a molti altri, a moltitudini
di altri. E' l'organizzazione delle
società Occidentali del nostro tempo, in particolare nel settore dell'economia,
con il marcato accento sulla competizione
come fattore di miglioramento sociale (lo ritroviamo addirittura nell'atto
fondativo della nostra nuova Europa, nel Trattato
di Lisbona, del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009), a spingerci
verso questo orientamento, di diffidenza verso le masse. In genere non si pensa
di avere nulla da guadagnare agendo tutti
insieme, in molti. Si pensa
invece di migliorare distinguendosi, come quando, in certi naufragi, prevale
l'istinto di sopravvivenza e tutti si accalcano verso la salvezza,
spintonandosi e spingendo indietro gli altri per farsi strada e guadagnare
l'uscita.
Finora i
tentativi del nostro clero di modificare la situazione riaffermando la propria
autorità normativa sulla gente sono risultati vani. Del resto lo sono stati
anche durante tutta la storia della nostra confessione religiosa, a parte i
primi tre secoli in cui si è prodotta una straordinaria espansione delle nostre
visioni religiose in un mondo che, come cultura di massa, era a loro
completamente estraneo.
L'affermazione
di ciò che chiamiamo cristianità, in
Europa e nelle parti del mondo che vennero egemonizzate dalle genti europee,
non si è fondata, dal quarto secolo in poi, vale a dire da quando la
nostra ideologia religiosa è divenuta
quella fondante delle istituzioni politiche, sulla simpatia delle genti, come invece era avvenuto nei tre secoli
precedenti, ma essenzialmente sull'esigenza di obbedire ad un'autorità comune
per rafforzare la potenza delle proprie politiche di popolo, verso l'interno e
verso l'esterno. Questo è rimasto il modello corrente fino al definitivo
affermarsi delle democrazie di popolo, in un processo che è partito dalla fine
del Settecento e può dirsi concluso nella seconda metà del secolo scorso. In
questa epoca è gradatamente venuto meno il valore della nostra fede religiosa,
almeno di quella esplicita, come fondamento ideologico delle istituzioni
politiche. E' questo il processo di secolarizzazione,
quello appunto riguardante la secolarizzazione della politica, che ha inciso
fortemente sull'affermazione della nostra fede religiosa nelle società del
nostro tempo. Del resto la secolarizzazione
della politica è stata anche
un'istanza religiosa, dagli scorsi anni Sessanta in poi. L'ideologia politica a
sfondo religioso si era infatti dimostrata storicamente piuttosto mortifera,
nella lunghissima era della federazione tra capi politici e feudatari religiosi
(la nostra organizzazione religiosa fu infatti, e sostanzialmente è tuttora,
organizzata secondo criteri feudali).
Ai tempi
nostri la situazione è complicata dal fatto che ad essere in crisi sono anche
le istituzioni politiche democratiche della nostra società civile: il processo
di secolarizzazione della politica si sta evolvendo in un processo di dissoluzione della politica, che è
determinato dall'incapacità di accettare visioni per così dire religiose della politica, vale a dire
fondate su qualcosa di più della semplice contrattazione su interessi spiccioli
e concreti. In realtà le democrazie di popolo nascono proprio da queste nuove
visioni religiose della politiche: ad esempio nel proclamare il principio universale dell'eguaglianza in dignità tra tutti gli esseri umani, a prescindere da
ogni condizione storica di distinzione. L'idea di una fraternità universale ha specifiche matrici religiose nella nostra
fede, come appare evidente se si considerano i principi proclamati nella
rivoluzione che portò alla costituzione degli Stati Uniti d'America, ancora
oggi il modello delle grandi democrazie di popolo.
L'accomodamento
politico che ha prodotto nei secoli passati il modello della cristianità è finito per sempre, con il
declino dell'ordinamento feudale delle nostra società politiche, che prima o
poi finirà per riverberarsi anche nella nostra organizzazione religiosa. Tuttavia
le nostre società dimostrano di non potersi reggere senza una visione religiosa
della vita che però non può più essere veicolata efficacemente (solo)
dall'organizzazione del nostro clero. In qualche modo ciò che sta accadendo ai
nostri tempi ha inaugurato un'era nuova che definirei l'era del laicato, quella in cui è il popolo, tutto il popolo, a dover divenire protagonista. Si tratta di un'esigenza
evidente dei tempi, ma noi laici non vi siamo preparati. Siamo ancora troppo clero-dipendenti, che è come dire clericali in senso proprio. Del resto è
stata l'ideologia religiosa affermatasi dagli scorsi anni '80 ad averci spinto
a questo. E sicuramente il clericale non raccoglie la simpatia della gente.
Eppure, a ben vedere, vi sono effettivamente settori del laicato che raccolgo
questa simpatia, che quindi sono capaci di coalizzare consenso intorno alle
proprie proposte, ai propri stili di vita. Essi però, nel recente passato, sono
stati sconfessati e si sono dovuti
mantenere, per così dire, anonimi. Sono stati sconfessati in quanto non
clericali. Quali sono? Essi sono molto evidenti. Il fatto di non riuscire a vederli dipende proprio da quel
pervicace lavoro di sconfessione che ha segnato profondamente, e in senso molto
negativo, la vita delle nostre collettività religiose negli ultimi trentacinque
anni; un periodo lunghissimo, il nostro grande
inverno, la nostra era glaciale.
18
La
mediazione culturale comporta stima e simpatia per tutte le ricchezze delle
culture e delle nazioni e strati etnici. Ricchezze sono le consuetudini e le
tradizioni, arti e scienze, sapere e modi di vivere, avvenimenti storici e riti
collettivi. Ma la simpatia di fondo per la storia e per le possibilità umane di
gestirla non si significa accettazione
acritica di qualsiasi corrente culturale popolare o elitaria
emergente. Una serie di tensioni dialettiche
o di antinomie spirituali ci fanno sempre compagnia nella ricerca delle
mediazioni culturali. Sono situazioni di contrasto, di conflitto
insopprimibile. Essi si radicano nello stesso mistero della salvezza: la pasqua
-come tensione e come dialettica fra morte e vita- è la prima delle antinomie
(Rm 6,1-11). E lo Spirito santo è il principio generatore delle antinomie,
perché è lui che spinge alla fedeltà in alto e in avanti, alla terra e al
cielo, orizzontale e verticale insieme.
Mie
considerazioni
Nel corso
delle conversazioni sul tema "La norma nelle scienze e nella morale"
tenute nell'incontro del gruppo MEIC romano della Sapienza lo scorso 22 maggio,
di cui ho dato conto in uno dei precedenti interventi su questo blog, ci è
stato spiegato che la produzione di varianti
è alla base dell'evoluzione delle
specie viventi, che può condurre a progressi, quindi all'affermazione delle
popolazioni portatrici di una variante fortunata, o al contrario anche
all'annientamento di popolazioni portatrici di varianti negative. Questa legge biologica, che esprime ciò che di
norma accade nella natura, si applica in fondo anche all'evoluzione delle
culture umane, delle quali la religione, come fatto sociale, fa parte. Ed in
effetti la nostra collettività religiosa non è rimasta sempre uguale a quelle
delle origini, anch'essa ha subìto una evoluzione: questo è un fenomeno molto
evidente, ma si ha una certa ritrosia ad ammetterlo e, a volte, si vorrebbe
invertire il corso della storia, tornando a un lontano passato nel quale si
situa ogni bene. In un canto che facciamo in parrocchia durante la Messa ci si
propone di tornare alla Chiesa primitiva,
che significa voler annullare tutta l'evoluzione culturale che c'è stata in
duemila anni, vagheggiando di riprodurre la situazione di effervescenza e di
espansione del primo secolo. Questo è, in fondo, un atteggiamento propriamente
reazionario, ma irrealistico, irrazionale, perché ciò che si vuole riprodurre
come ritorno al passato, come forma ideale di esperienza sociale religiosa, nel
passato non c'è mai veramente stato. E' stato infatti osservato che si tende a costruire un lontano passato situandovi il
modello di progetti per il futuro che in realtà non sono che varianti reazionarie dell'oggi. Quindi: pensiamo un
certo futuro e cerchiamo di accreditarlo proiettandolo
nel passato.
Volendo invece essere realistici, nel nostro
passato c'è la nostra tutta la nostra tremenda, sanguinaria e mortifera storia
religiosa, inestricabilmente connessa con una storia diversa, di bene, di
compassione e solidarietà universale, come sempre accade nella storia delle
società umane: non è possibile recuperare solo quest'ultima, distillandola dal passato; se si evoca il passato esso
ritorno anche con i suoi orrori, dai quali, faticosamente, ci siamo iniziati a
liberare solo di recente, diciamo dagli scorsi anni Sessanta. Nei primi secoli,
ad esempio, c'è, molto evidente, un forte antigiudaismo, che riflette una
situazione di vivissimo contrasto delle nostre prime collettività con l'esperienza
religiosa dalle quali originarono e si differenziarono (una variante che si è dimostrata fortunata). Esso si manifesta già nei nostri scritti sacri, ad
esempio nel Vangelo di Giovanni, ed è fortissimo in altri scritti che riteniamo
fondativi della nostra ideologia religiosa, quelli che attribuiamo
genericamente ai Padri della Chiesa.
Che cos'è
che attira nell'esperienza delle origini? Mi pare che sia una certa unità e
concordia spirituale, che si vuole contrapporre alle discordie dei tempi
nostri, in cui come ricorda Secondin viviamo una serie di forti antinomie. In
realtà la lettura dei nostri scritti sacri dimostra con molta chiarezza che
antinomie e contrasti vi furono fin dalle origini, addirittura vivente il
nostro primo Maestro. L'evoluzione culturale, divenuta indispensabile per la
conservazione dell'umanità a causa dell'organizzazione estremamente complessa
delle sue società che consente la sopravvivenza delle moltitudini, richiede di
imparare ad accettare e vivere positivamente queste antinomie, senza sognare
semplicemente di sopprimerle. L'ideologia democratica consiste proprio in
questo.
19
Il processo
di mediazione culturale e di inculturazione non deve significare affatto
sminuire la forza del radicalismo
evangelico, il rigore di una sequela che comporti associazione alla vita del
maestro.
Seguire è
credere dirà Giovanni, seguire è abbandonare e rinnegarsi dicono i Sinottici;
seguire è imitare spiegherà meglio Paolo.
Mediazione
culturale significa ancora riconoscere che la storia del cristianesimo in fondo
non è che una storia di imitatori e seguaci.
La vera
teologia della chiesa è la storia degli eventi salvifici che di contino si incarnano
nella vita dei credenti. E' la storia di racconti che sono insieme memoria e
testimonianza di una vita che "conquista senza bisogno di parole quelli
che si rifiutano di credere alla Parola".
La nostra
storia è una storia di peccato e di grazia, di sequela e di attesa. Anche
quella delle singole comunità ecclesiali. Occorre [quindi] "demitizzare" la
nostra storia e le nostre "narrazioni": scomponendo di continuo il
monolite delle tradizioni decodificando nella memoria e nell'identità ereditata
gli elementi che sono realmente tipici, essenziali e irrinunciabili, per
distinguerli da quelli che sono contingenze culturali, stratificazioni prodotte
dal pessimismo o dall'ottimismo [nell'espressione delle concezioni di fede],
dai rapporti ereditati con civiltà obsolete, da limitazioni personali,
pastorali, socio-economiche connaturali ad altre epoche e non alle nostre.
Le nostre
comunità di credenti hanno bisogno di ascoltare di nuovo ciò che devono
credere, le ragioni della propria speranza, il comandamento nuovo dell'amore.
In altre parole hanno bisogno di essere riconvocate e convertire.
Mie considerazioni
L'evoluzione culturale delle società umane si sviluppa secondo criteri in
parte analoghi a quelle dell'evoluzione biologica: per conservazione e accumulo
e per varianti che vengono mantenute, con in più, trattandosi di processi
consapevoli, effettivamente in parte determinati da disegni collettivi intelligenti, un continuo lavoro di correzione e
adattamento, da una parte, e di imitazione dall'altra. Queste ultime
caratteristiche consentono un'evoluzione complessivamente estremamente più
veloce delle società umane rispetto a quella biologica e non determinata esclusivamente
dal risultato di sopravvivenza dopo conflitti. Le capacità cognitive degli
esseri umani consentono infatti una stupefacente capacità delle società umane
di interagire tra loro anche nelle modalità della solidarietà e dello scambio
per equivalenti oltre che in quella, spietata e cieca al modo delle dinamiche
naturali, del conflitto. E' proprio la cultura, intesa come "un insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto,
il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall'uomo come membro della società [E.B.Taylor in "Primitive Culture" (=la
cultura dei primitivi), Murray, Londra, 1871, citato nel testo da Secondin - si
veda parte n.1 di questa sintesi], che ha fatto storicamente la differenza, tra
gli umani, per questo tipo di evoluzione. Questo aspetto differenzia
profondamente le società umane dalle altre popolazioni animali, che
fondamentalmente sono assoggettate alla dura legge di natura del conflitto e
della predazione, secondo la quale, in particolare, tutti mangiano tutti, pesce
grosso mangia pesce piccolo, una legge spietata e sanguinaria che in religione
consideriamo come il frutto di una caduta,
immaginando una originaria diversa realtà da erbivori, alle origini della
storia dei viventi animati.
Spesso non
ci si rende conto dell'importanza che ha, nell'evoluzione delle società umane,
la capacità di farsi volontari imitatori
e seguaci. E' proprio questo che ha consentito lo straordinario processo di
conservazione e accumulo di informazioni che ha determinato, finora, il
successo degli umani su tutti gli altri viventi terrestri e, in particolare, il
prevalere sociale su quasi tutti i viventi nemici naturali dell'umanità, ad eccezione,
per ciò che ne so, di batteri patogeni e virus. Le società umane, a differenza
delle popolazioni degli altri animali, non hanno bisogno di attendere il
lunghissimo esito del processo di selezione
naturale indotto dalla spietata legge della natura, ma possono introdurre varianti fortunate per imitazione e
scambio di equivalenti, in quest'ultimo caso secondo le dinamiche di mercato.
La possibilità di interazioni di progresso tra società umane che, secondo le
leggi di natura, dovrebbero tendere semplicemente a prevalere l'una sull'altra, sterminando tutti gli individui delle
società concorrenti e in tal modo eliminando i loro codici genetici, sono date
secondo le modalità dell'agàpe,
quindi della possibilità di scoprire solidarietà con società teoricamente
concorrenti e di radunarne gli individui in un convegno festoso, condividendo risorse e facendo in tal modo unità. Questa opportunità venne
sottovalutata dalle correnti del cosiddetto darwinismo
sociale le quali, dalla metà
dell'Ottocento, applicarono alquanto semplicisticamente le leggi
dell'evoluzione biologica delle specie animali all'evoluzione della società
umane, ritenendo un bene che la sanguinosa legge di natura fosse volontariamente applicata anche a queste
ultime, finendo poi per dare le basi culturali al razzismo novecentesco, che
pretese di avere fondamento scientifico e fu diffuso anche in Italia negli anni
'30.
L'evoluzione delle società umane ha anche
un'altra importante caratteristica che la rende più veloce: la capacità degli
esseri umani di individuare razionalmente e combattere gli errori nella replicazione
dei modelli e di introdurre volontariamente varianti,
in quest'ultimo caso senza attendere i tempi lunghissimi della produzione
casuale e dell'affermazione con le modalità della selezione naturale. Questa
capacità, che negli ultimi millenni ha riguardato la dimensione sociale, ora, con il progresso della
bioscienze, comincia a riguardare anche
la nostra fisiologia. In un certo senso è vero, quindi, che noi
abbiamo la capacità di creare esseri
umani nuovi. Questa possibilità di
incessante rinnovamento riguarda anche la religione; è sempre stato un fatto
molto evidente, ma se ne è cominciato a prendere veramente collettivamente
coscienza e, soprattutto, ad accettarla come un fenomeno anche positivo solo
dagli scorsi anni Sessanta.
Scrive Paul Paupard, in un articolo pubblicato
sull'ultimo numero di Coscienza,
trattando della genesi della costituzione conciliare Gaudium et spes [=la gioia e la speranza] del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), e, in particolare, del n.54 di quel documento normativo:"…aggiunge il testo, le scienze
storiche giovano a far considerare le cose sotto l'aspetto della loro
mutabilità ed evoluzione. Basta pensare al significato del tempo nella storia
della salvezza, dalla Genesi all'Apocalisse. Viene dopo, l'industrializzazione,
l'urbanesimo e le altre cose che favoriscono la vita comunitaria e creano nuove
forme di cultura (cultura di massa), da cui nascono nuovi modi di pensare, di
agire, di impiegare il tempo libero. Il n. 54, dedicato a questi nuovi stili di
vita, conclude, secondo la confidenza di monsignor Moeller su una visione
proprio teilhardiana [dal teologo Marie-Joseph Pierre Teilhard de Charidn,
filosofo gesuita - 1881-1955] Così poco a poco si prepara una forma più
universale di cultura umana che tanto più promuove ed esprime l'unità del
genere umano, quanto meglio rispetta la particolarità delle diverse
culture".
Ora,
usciamo da un'era storica in cui, nella nostra organizzazione religiosa, quel
lavoro di correzione degli errori di cui dicevo ha comportato non
solo la funzione molto importante di contenimento
del male (riprendo il concetto da un
recente libro del filosofo italiano Cacciari), ma anche un lavoro piuttosto
pervicace di inibizione di ogni variante. Questo ha oggettivamente impoverito
la nostra vita di fede e ne ha determinato il regresso nella società, questa
volta, sì, quasi al modo in cui un fenomeno simile viene indotto dal processo
di selezione naturale nelle popolazioni animali. Ripensare a fondo questo
orientamento è così diventato, veramente, questione di vita o di morte, di
sopravvivenza; fatto di cui possiamo renderci ben conto nel nostro gruppo di
Azione Cattolica.
20
Gesù Cristo salvatore deve essere davvero lo
specifico, il centro e il tutto della
vita del cristiano. E mai si riduca al ruolo di presidente onorario.
Ogni mediazione umana -anche quella
privilegiata della Chiesa- veicola, propone, prepara, contestualizza l'unica
salvezza, ma non è la salvezza. Essa [la salvezza] scende dall'alto (Ap 21,12),
sempre, per dono continuo di colui che
ne è la fonte e l'amministratore e si serve di strumenti e segni umani.
Ma occorre anche volgersi continuamente verso
l'uomo. La verità sull'uomo che la Chiesa ha ricevuto deve tradurla in
atteggiamenti conseguenti, facendosi testimone, serva, vindice della dignità
umana. La fedeltà alla via dell'uomo è fedeltà all'uomo concreto, ferito e
ribelle, presuntuoso o povero, minacciato e amministrato, autocompiaciuto o senza speranza né dignità.
Vi può essere una vera esperienza di fede
ancor oggi se la forma di Gesù di
Nazareth -la sua obbedienza radicale, il suo abbassamento, il suo farsi
maledizione e schiavo- con-forma qui
e ora un pezzo di storia, penetra e vivifica realmente una situazione reale.
Mie considerazioni
Organizzare tutta la nostra vita di fede
intorno alla persona del nostro primo Maestro, riconosciuto come persona
divina, può sembrare un obiettivo coerente con le nostre concezioni e finalità
religiose, ma è piuttosto problematico, se noi con questo intendiamo di voler
fare a meno di ogni mediazione culturale, per cercare un accesso diretto a lui. Infatti noi possiamo conoscerlo solo per via di mediazione culturale. Prescindendo
da quest'ultima, quindi dalla cultura della fede, anche la sua figura storica
ci diviene inaccessibile. Quindi poi, come ricordato da Secondin in altra parte
del suo saggio, nel corso della storia sono state costruite diverse immagini del Nazareno e, correlativamente, sono
state proposti diversi modelli di santità, di perfezione. Ai
tempi nostri, ad esempio, abbiamo riscoperto
la condizione di ebreo del nostro fondatore, e quindi i legami culturali che le
nostre concezioni di fede hanno con il giudaismo delle origini, il che ha
costruito la cornice ideologica che ha consentito lo spettacolare incontro
interreligioso di ieri in Vaticano, con una preghiera
comune con maestri dell'ebraismo contemporaneo. Questa, in realtà, più che
una riscoperta è una conquista culturale, se si considera il duro
antigiudaismo degli scrittori ai quali, per la loro rilevanza nella formazione
delle basi della nostra ideologia religiosa, riconosciamo la qualità di Padri, che si espresse con fraseologie
che alla nostra sensibilità contemporanea appaiono sconvolgenti. E lo è ancor
di più a confronto con l'ideologia della sostituzione
degli israeliti come popolo eletto
che, presente fin dai primordi delle nostre collettività di fede, è stata costruita, nel modo in cui per secoli
l'abbiamo predicata, nel corso del secondo millennio della nostra esperienza
religiosa, costituendo la base culturale di un pervicace antiebraismo che, oggi
siamo disposti a riconoscerlo, ha
travagliato tutta la nostra storia religiosa.
Anche la
stessa nostra mistica, che vuole
proporre esperienze di relazioni dirette
con il soprannaturale, si è sempre espressa
in determinati contesti culturali, a prescindere ovviamente dall'emotività che
le è connaturata e che, come tale, è però incomunicabile.
Piuttosto,
quando ci si propone di concentrarci sulla persona del nostro primo Maestro, lo
scopo in genere è di relativizzare
tutte le mediazioni culturali che di volta in volta sono state raggiunte e
proposte, nel senso di rendere possibile un loro costante superamento e quindi poi il rinnovamento
della nostra fede.
Naturalmente possiamo riconoscere alcune
importanti costanti nelle teologie, quindi nei sistemi concettuali, che
storicamente si sono succedute. Questo
convince di trovarsi di fronte, in fondo, a un'unica confessione di fede, pur con moltissime varianti, moltissimi
stili di vita, diverse liturgie, diverse tradizioni culturali. Anche questa
tuttavia è una conquista culturale recente, mentre solo
fino alla metà del secolo scorso la questione veniva posta in termini
drammatici di vero/falso e di ortodossia/eresia. Questa conquista ha reso possibile l'ecumenismo come ai tempi nostri lo si
concepisce, vale a dire come la pratica di relazioni
pacificate con le altre confessioni religiose della nostra medesima fede,
mentre per un tempo lunghissimo esso venne invece concepito, dal punto di vista
della nostra confessione di fede,
come il processo storico per ricondurre tutte le genti di fede sotto il dominio
assoluto di un unico Padre terreno,
del nostro sovrano religioso romano.
La via che si
propone per il superamento di ogni storica mediazione culturale è quella della misericordia
verso i patimenti degli esseri umani, il voler essere collettivamente via di
salvezza non per l'uomo dei
filosofi, ma per l'umanità della
storia, per la gente concreta, sull'esempio del nostro primo Maestro i cui
insegnamenti erano sempre accompagnati, e avvalorati, da gesti di salvezza e di
liberazione e da una marcata empatia con i sofferenti. La legge dell'agàpe, il voler sempre radunare in un
convito benevolente e festoso tutta l'umanità
concreta, porta sempre a superare le
leggi dei giuristi teologi, anche qui secondo uno schema molto antico, che ha
evidenti espressioni fin dalla teologia espressa negli scritti biblici prodotti
dalle nostre prime collettività di fede. E' un movimento che anche di questi
tempi è potentemente evocato dal nostro nuovo sovrano religioso romano, senza
però, mi pare, una vera corrispondenza nella base dei fedeli, in Italia. Era
esattamente l'inverso negli scorsi anni Cinquanta, che costituirono l'ambiente
vitale in cui si manifestarono e crebbero i fermenti vitali che sorressero il
moto di aggiornamento del Concilio
Vaticano 2° (1962/1965). Per certi versi siamo ancora nel pieno dell'inverno che rapidamente seguì la primavera conciliare. L'Azione Cattolica è uno degli ambienti in cui si cerca di
andare in controtendenza; essa ha cercato di conservare una tradizione
culturale che è stata piuttosto contrastata fino a tempi piuttosto recenti. Per
convincersene basta dare un'occhiata catalogo della casa editrice
dell'associazione, la A.V.E. .
21
Fondamentale nella vita cristiana è la
disponibilità allo Spirito e alla sua azione. Duplice è il movimento provocato dallo Spirito tra i
credenti: chiama alcuni ad evidenziare il superamento della storia nella
profezia delle beatitudini, e altri li spinge invece ad una testimonianza di
incarnazione per il servizio della terra.
E' fondamentale che la Parola sia letta e
interpretata sotto l'impulso dello Spirito e in situazione: cioè fuori dalle genericità e dalle astrattezze che
la bloccano in alto nei cieli e nell'eternità. E' presunzione voler afferrare
la Parola allo stato puro, disancorata dalla storia, senza contaminazioni, come
se scendesse in verticale.
Occorre accogliere la Parola non tanto con
l'animo del possesso quanto con l'umiltà dell'attesa, del progetto e del
religioso ascolto.
Mie
considerazioni
Con molti argomenti si è cercato, in
particolare dagli scorsi anni Sessanta, di far accettare l'idea che le
concezioni della fede possano, e anzi debbano, mutare nel tempo, che quindi
abbiano uno sviluppo storico. Tanto che essa, esposta ai tempi nostri, forse
non scandalizza più tanto. Eppure, in fondo, essa è ancora fortemente
controversa. E tutta l'organizzazione della nostra collettività religiosa è stata, e per certi versi è ancora, quasi totalmente concentrata, nelle sue attività
ordinarie, al di fuori di certi momenti speciali e spettacolari in cui ha
vissuto il brivido dell'inatteso, nella repressione di ogni proposta nuova, di
ogni stile di vita diverso da quello consacrato
dalla tradizione, di ogni contaminazione con le culture
contemporanee. Insomma essa si è manifestata essenzialmente come reazionaria. Questo non ha impedito i
cambiamenti, ma li ha resi lentissimi e travagliati. Gli innovatori hanno
sofferto molto, per poi magari essere anche creati
santi. C'è chi in questo, nel
contrastare pervicacemente le manifestazioni di santità che emergono tra la
nostra gente, vede qualcosa di positivo. Ecco che quindi vengono creati santi anche grandi
reazionari. Il loro merito, si dice, è quello di aver salvato la continuità della tradizione. Sarebbe
quindi addirittura un merito, ad esempio, non aver riconosciuto, ed anzi aver
duramente represso ed emarginato, la santità di un Lorenzo Milani.
Di solito si cerca di rendere un'idea di come
dovrebbe essere il giusto moto di
rinnovamento affermando che la Parola
deve essere letta e interpretata sotto l'impulso dello Spirito: questo in realtà significa poco. Che cosa è la Parola, che cosa, e anzi chi, è e dove e in chi e in che cosa si manifesta lo
Spirito? Si tratta di interrogativi
problematici appena si voglia approfondire la questione e non accontentarsi del
suono delle parole.
Per certi
versi, nella nostra confessione la Parola appare prigioniera di un ceto feudale
di interpreti privilegiati. D'altra parte essa, a contatto con la gente, ha
generato ogni sorta di stravaganza, e anche di pericolosa stravaganza. Una
situazione che spaventa e che storicamente ha permesso di accettare l'azione di
una inesorabile polizia ideologica. Per cui sembra che l'alternativa sia solo
tra la reazione e il disordine stravagante. Questa concezione, che ha ancora
piuttosto credito nella nostra ideologia di fede, ricalca quelle delle forze
antidemocratiche che, dalla fine del Settecento, hanno cercato pervicacemente
di mantenere sui troni, realmente o metaforicamente, le vecchie dinastie
sovrane assolute. Secondo quest'ordine
di idee la democrazia era anarchia. Come si è visto storicamente, le cose sono
andate diversamente.
Una delle
finalità principali del processo di aggiornamento
promosso dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965) fu quella di istituzionalizzare, vale a dire di far considerare normale, non più
come eresia e ribellione, i processi di cambiamento nelle concezioni di fede.
Questo risultato non è stato conseguito, come molti altri che ci si proponeva
di raggiungere, di attuare. Nella
pratica hanno continuato a succedersi una serie infinita di sconfessioni, provvedimenti che hanno
sostituito le brutali scomuniche del passato mantenendone però la sostanza, per
cui, ad un certo punto, gli innovatori venivano privati della qualifica di
innovatori della nostra confessione, in questo modo insterilendo la loro azione. E' successo ad un certo numero
di teologi, ma in modi più decisi a una schiera molto vasta di altra gente di
fede. In genere però non si è andata a colpire la stravaganza, che, anzi, in
genere si è tentato di riassorbire e inquadrare nei ranghi, ma ogni concezione
che legasse l'attuazione degli ideali di fede alla giustizia sociale nel senso
in cui la si intende nel mondo contemporaneo, non tanto quindi come
riaggiustamento equitativo del processo
spartitorio delle ricchezze prodotte in una società, ma come elevazione e
parificazione della dignità personale. Superare questa situazione, nella quale
il nostro clero appare inestricabilmente intrappolato, deve essere uno dei
principali obiettivi della sperimentazione laicale: come vivere l'innovazione
senza che essa diventi stravaganza anarchica, mantenendo la responsabilità
dell'unità, la modo in ci si riesce a farlo nelle democrazie politiche.
"I
problemi del nostro tempo, per la loro difficoltà e ampiezza, sono troppo
gravosi non solo per la loro risoluzione,
ma anche per la loro comprensione, ameno per la maggior parte di noi.
Tuttavia ognuno li deve avvertire, se non altro per non perdersi e per
rafforzarsi spiritualmente. Allo sconvolgimento della Chiesa e del mondo
bisogna guardare come a uno sconvolgimento radicale e sostanziale. Occorre con
ciò vincere i noi la paura, il sentimento di debolezza e di spossatezza e
lottare contro lo spirito di una reazione e di una restaurazione decadenti, che
è la più dannosa di tutte le forme di utopismo che ora possano esistere. Certo,
questo va compreso in modo religioso, non politicamente; le persone estranee
agli interessi di fede cercano di servirsi dei valori ecclesiali per i loro scopi ed effettuano in tal modo
una sostituzione religiosa furtiva. La nuova creatività meno di tutto deve essere
innovazione rivoluzionaria quand même
(franc., pron. kaa mèem=a tutti i
costi). Tuttavia, non è meno dannoso e cieco un amore all'antico e lo sforzo
per restaurarlo, sotto l'influsso dello smarrimento e dell'insicurezza
spirituale. Nella Chiesa tutto è eterno e non c'è niente di nuovo, ma allo
stesso tempo tutto deve essere nuovo." (citazione da S.Bulgakov, Russia, emigrazione, ortodossia, 1924,
tratta dall'articolo di Stefano Biancu, Dall'ombelico
alla città, in Coscienza, n.5 2013).
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Occorre attendere il Signore che tornerà. Il
ritorno del Signore non sarà però un mero completamento ultimo di un processo
evolutivo in mano agli uomini. Il suo arrivo è una sorpresa e bisogna tenersi pronti e vigila per non
farsi trovare impreparati. Noi non abbiamo quaggiù una città stabile. Siamo
nomadi attraverso la storia e il cosmo, ma il nostro passaggio li deve
trasformare entrambi in senso salvifico. Rimane pertanto egualmente impegnativo
evangelizzare.
Le tradizioni religiose dei popoli sono segno
della pedagogia di Dio plasmatore delle identità culturali e preparazione
evangelica. [Occorre] rispettare nel popolo la sua capacità di narrare e
profetizzare, sperare e confessare Dio dentro gesti e simboli umani trasmessi
da generazioni. [Ma] non tutti quelli che ne parlano hanno attenzione a
rispettare il popolo e la sua dignità. Col pretesto della religiosità popolare
si ribadiscono le proprie ostilità alla storia attuale e la nostalgia per altre
epoche ormai relegate agli annali e ai musei etnografici.
La religiosità popolare ha certamente i suoi
limiti: la superstizione, la magia, il ritualismo senza vita, il fatalismo e la
rassegnazione, egoismo e frustrazione collettiva. Ma è anche ricca di valori
genuini. E' in fondo il grido di
speranza e idi redenzione di un popolo che attende giustizia e fraternità.
Mie
considerazioni
La vita in una delle nostre collettività di
fede di base, come la parrocchia, rende manifesto che in religione ci sono
diverse tradizioni culturali, quindi vari concezioni, costumi, tipi di relazioni a sfondo religioso,
finalità e attese. Credere è un fatto sociale e ognuno, in fondo crede nel modo in cui lo ha appreso in una collettività viva. Questo
pluralismo crea inevitabilmente problemi e prima di tutto quello di fare unità ed un'unità pacificata, come
richiesto dai nostri ideali di fede ispirati alla finalità dell'agàpe universale, di riunire tutta l'umanità in un
unico convito festoso e amicale. Storicamente la strategia prevalente nella
nostra organizzazione religiosa, soprattutto nel secondo millennio della nostra era, è stata quella di
fare unità soggiacendo ad un'unica autorità suprema terrena, concepita come
direttamente delegata e ispirata da quella soprannaturale. Questo ha comportato
che l'unità si facesse prevalentemente per via di repressione del dissenso e
dei costumi oggettivamente devianti. Ai tempi nostri questa strategia
costituisce essa stessa un problema. E questo per l'avanzare
nell'organizzazione delle nostre società dei principi democratici
nell'estensione che essi hanno avuto nel mondo contemporaneo. In particolare
quella forma di dispotismo a fini unitari non è più ritenuta conforme alla dignità delle persone umane. Noi
attualmente siamo in una fase di passaggio culturale: ci siamo pentiti dei suoi
eccessi, ma la manteniamo come fattore generale unificante.
Il fare
unità è anche un obiettivo democratico come dimostra il motto della
rivoluzione americana: e pluribus unum, espressione in latino che significa fare dei molti un solo popolo, dove però
è sottinteso che l'unificazione si debba fare nel rispetto dei diritti inalienabili che vanno
attribuiti a tutti gli esseri umani e ad ognuno di essi per il fatto di essere
stati creati uguali in dignità. In una concezione democratica
dell'unità infatti si rifiuta il dispotismo gerarchico come fattore unificante,
vale a dire che nell'unità si rispetta il pluralismo ed anche che l'unità è
affidata a un progresso culturale della base, quindi di tutta la società,
invece che ad un'azione di polizia ideologica sviluppata dal vertice.
Storicamente
le due strategie fondamentali per fare unità sono entrate in conflitto e,
generando vari tipi di precari compromessi e di armistizi, hanno prodotto le varie
fasi di un processo che è ancora in corso e che può essere riassunto in un
progresso dal dispotismo alla democrazia, dall'unità affidata a una gerarchia
feudale a quella basata sull'integrazione culturale generata alla base delle
società. Ai tempi nostri, però, non è questo il conflitto dominante nel nostro
mondo, come da tempo si comincia ad osservare da parte di molti commentatori
dei fatti sociali.
Il
contrasto all'ordine del giorno è tra concezioni culturali che ancora si propongo di fare unità, in uno dei modi in cui essa
può essere ottenuta, e quelle basate sull'idea che il conflitto tra le società
umane e i gruppi all'interno di esse sia fonte di progresso e non un male da
combattere e che quindi esso vada stimolato e non combattuto. Queste ultime
concezioni, che sono state elaborate da ultimo sulla base del pensiero
economico dominante che vede nella competizione di mercato un fattore di
progresso, condividono l'ideologia sviluppata a partire della fine
dell'Ottocento del darwinismo sociale,
che sulla base della lotta di tutti contro tutti che ha caratterizzato e
caratterizza l'evoluzione naturali delle specie viventi e che è stata esposta
per la prima volta dal naturalista britannico Charles Darwin (1809-1882), propongono
di vedere nei conflitti sociali di tipo egoistico, basati sulla lotta per
accaparrarsi risorse scarse, una fonte di progresso in quanto mezzi per
favorire la sopravvivenza del più adatto. Lo sviluppo di questa concezione
nelle nostre società, in particolare in quello Occidentali, ha portato alla
crisi sia dei dispotismi tradizionali sia delle democrazie di popolo. Essa sta
avendo riflessi anche in religione e in particolare nella religiosità popolare.
Leggendo
nostri testi sacri si ha un panorama molto vasto di forme di religiosità
storicamente attuate e quegli scritti sono stati organizzati e ci sono stati
proposti in modo da evidenziare uno sorta di progresso da concezioni primitive
ad altre successive che sono conseguite a particolari illuminazioni
soprannaturali e, in particolare, dal politeismo al monoteismo. Le forme
primitive di religiosità sono più in linea con l'attuale ideologia del
conflitto egoistico permanente come fonte di progresso sociale. In quell'ottica
ogni popolo aveva il suo dio e la storia era vista anche come una lotta tra
dei, in cui prevaleva il dio più forte, in quanto più forte. Questo tipo di
religiosità non si propone alcun fine di giustizia, i suoi dei non sono forti in quanto più giusti. E' il tipo
di religiosità che vediamo espressa, ad esempio, all'interno di alcune società
criminali correnti in Italia e, sotto un certo profilo, alcune concezioni
economiche per così dire estreme manifestano profili criminali.
Ai tempi
in cui scriveva Mondin, si avvertiva il problema dello sfruttamento di tipi
primitivi di religiosità a fini reazionari, quindi per contrastare i moti
democratici nella nostra organizzazione religiosa e pertanto dell'indebito
utilizzo a tali di fini del potere
sacrale. Oggi la questione si pone in modo piuttosto diverso. E consiste
appunto nell'integrazione di concezioni a sfondo religioso in stili di vita
collettiva che non hanno di mira l'agàpe,
ma la prevalenza in una lotta sociale con altri gruppi. Essa viene espressa
direttamente dalla base sociale ed ha una chiara valenza magica, in quanto ritiene di poter modificare con certi riti religiosi il corso degli eventi. E, alla fine, risulta
frustrante perché comporta l'accettazione dell'ingiustizia sociale. In
quest'ordine d'idee si mira ad ottenere di volta in volta il favore
soprannaturale in una specifica situazione. Rispetto all'ideologia dell'agàpe costituisce una involuzione, un
regresso. E' tuttavia lo specchio dei tempi.
23
Il tempo
nel quale la chiesa e la società vivevano una integrazione profonda è quasi
solo un ricordo; la forza di socializzazione è diminuita. Eppure occorre visibilizzare l'unione di tutti coloro che ubbidiscono
all'imperativo divino della fraternità e della speranza. Affinché anche
l'ordine materiale e le strutture temporali portino traccia del rinnovamento
evangelico. La comunione di fede e di carità impedisce di chiudersi nel ghetto
e nel particolarismo.
[Ci] è
chiesto di fare attenzione all'uomo concreto attraverso una comunità concreta.
La chiesa cattolica è la chiesa che si mostra in realizzazione, che passa dagli
universali oggettivi agli eventi soggettivi. Ciò comporta una valorizzazione
delle specificità.
A volte
ci manca la pazienza e il rispetto.
[Cerchiamo] schemi di uniformità e di
perfezione puramente teorici.
Ogni
cultura ha bisogno di redenzione. E' vero:
non esiste una cultura totalmente cristiana. Ma non è meno vero che è necessario accettare di
passare da una presenza istituzionale alla presenza personale e per piccoli
gruppi. Bisogna arrivare alla presenza totale per un cammino di presenze
parziali. Per fare una ecclesiologia che non si impantani nel formalismo, ma
sappia stare attenta al concreto, la via
è quella di porre "al centro, prima di tutto, l'evento originario
che fa la chiesa, il fatto, cioè, che esistono due o tre persone, riunite nel
nome di Gesù, che credono e comunicano nella fede" (cita il teologo Severino
Danich).
Siamo gente
troppo abituata al centralismo e all'uniformità, non sappiamo gestire in modo
costruttivo il ruolo delle autonomie locali, né quello di minoranza, né la
presenza policentrica, né un sano pluralismo
nel pregare e nel celebrare, nell'amare e servire, nel vivere e
nell'attendere. L'identità cristiana è anche identità in via, e allora
"senza spazio concesso alla critica, alla sperimentazione, all'opinione …
la chiesa rischia di ridursi a museo di esperienze del passato e di non aprire
speranza per il futuro" [cita il teologo Luigi Sartori].
Mie considerazioni
A
conclusione del suo libro, Mondin segnalò problemi che ad oggi non sono stati
superati, anzi semmai si sono aggravati. La critica alla chiesa-museo si
ritrova anche nelle parole del nostro nuovo vescovo e padre universale. Ma
ormai ci siamo abituati ad attendere dall'alto le parole d'ordine, le soluzioni;
troviamo difficoltà a sperimentarle, provando ad attuarle lì dove concretamente
abbiamo possibilità di operare, di influire. Il lavoro in un gruppo di Azione
Cattolica è l'occasione per farlo, il luogo in cui si possono sperimentare
nuove mediazioni culturali a partire dalle proprie concrete esperienza di vita.
Chi vi cercasse schemi per
irreggimentare la propria vita di fede, rimarrebbe deluso. Non così chi,
nell'era che sembra stia per concludersi di questi tempi, venne allontanato da
una vita collettiva di fede perché insofferente dell'uniformità e degli
schematismi che parevano doverla necessariamente caratterizzare. Per queste persone l'impegno
in Azione Cattolica potrebbe offrire l'opportunità per riprendere a vivere e a
manifestare la fede in una comunità concreta, viva, e come parte viva di essa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente
papa - Roma, Monte Sacro, Valli