Commemorazione
di don Nino Miraldi in parrocchia
Ieri sera in parrocchia, insieme al vescovo di
Velletri Vincenzo Apicella, abbiamo commemorato don Nino Miraldi, che per tre
anni fu viceparroco a San Clemente papa quasi sessant’anni fa e poi andò in
Missione in Brasile come Fidei donum, appunto sacerdote diocesano
missionario, e laggiù morì nel 1990. C’era molta gente in chiesa e probabilmente
molti che conobbero don Miraldi qui a Roma.
In parrocchia don Miraldi si occupava dei più
giovani ed era da loro molto stimato. Qualche tempo prima di andarsene, ci ha
raccontato Apicella, distribuì tra loro un questionario in cui chiedeva di
indicare i suoi difetti, ma i ragazzi lasciarono in bianco quella parte.
Aveva dentro il desiderio di dimostrare con la
propria vita, con la propria persona, la forza dei suoi ideali religiosi e questo lo spinse nella difficile missione
in America Latina, di cui tratta l’articolo di Emilio Grasso che trascrivo di
seguito.
Don Miraldi è una figura eminente della nostra
collettività, che ci ricorda da dove veniamo, ha detto Apicella. Nelle
difficoltà, quando ci sembra che tutto vada male, possiamo ispirarci alla sua
figura, soprattutto per rafforzare la virtù della speranza religiosa. La sua missione in Brasile non fu facile: il vescovo della sua città
brasiliana, comunicando al cardinal vicario la morte di don Miraldi, scrisse di
“una sofferenza silenziosa, aggravata dal disprezzo e dalla
calunnia dei poteri di questo mondo e molte volte anche dall’indifferenza”.
Per fare memoria della vita di don Miraldi c’è
ora una lapide sul muro della chiesa parrocchiale, alla sinistra della porta
principale. E’ stata scoperta ieri sera.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Trascrivo dal sito:
Sttp://www.missionerh.it/Articoli-Emilio-Grasso/Povert%C3%A0-Fede-Coraggio-di-affrontare-la-realt%C3%A0.php
POVERTÀ, FEDE, CORAGGIO DI
AFFRONTARE LA REALTÀ
La testimonianza di don Nino Miraldi
missionario
romano in Brasile
Il 29 luglio 1990
moriva a Rio de Janeiro Nino Miraldi, prete romano che dal 1967 lavorava
in Brasile.
Una raccolta di alcune sue lettere, pubblicata con un’ampia e stimolante
introduzione di Giuseppe Ruggieri[1], indica un percorso di esercizio delle
virtù teologali e delinea una traccia di spiritualità missionaria di notevole
aiuto e chiarificazione sia per chi opera in missione sia per chi vive in paesi
di antiche tradizioni cristiane.
Nello stesso tempo questi scritti operano in favore di una demitizzazione di
motivazioni spurie ed equivoche che conducono a fraintendimenti
sull’autenticità di una presenza missionaria, fraintendimenti che il più delle
volte provocano facili illusioni con conseguenti delusioni e improvvisi, ma non
imprevisti, abbandoni.
Ciò che impressiona nella lettura di queste lettere è la profonda e sofferta
fedeltà di don Nino al Signore e ai poveri.
In esse si delinea un cammino geografico che dal centro (Roma) conduce alla
periferia (Brasile), ma che nello stesso movimento ricongiunge la fede alla
carità nell’esercizio della speranza.
Mi sembra che in queste lettere ci troviamo di fronte a una testimonianza che
diventa luogo teologico e che indica delle direttrici profonde per la
fondazione e lo sviluppo di un’autentica spiritualità missionaria.
Nel contesto del Brasile delle favelas e dell’oppressione da
parte delle dittature militari che caratterizzano gran parte dei paesi
dell’America Latina di quel tempo, colpisce la capacità di coniugare e
interpretare, con totale donazione e distacco ironico e profetico nel contempo,
la passione unica per Dio e per gli uomini.
Alunno del Collegio Capranica, nello splendido clima di umanità schietta, di
libertà e di fraternità creato dal rettore, mons. Cesare Federici, don Nino
approfondì — come sottolinea nella sua introduzione Giuseppe Ruggieri — le idee
chiave che avrebbero segnato il suo ministero: primato della fede da una parte
e intelligenza critica dall’altra, scelta per i poveri e per una Chiesa
evangelizzatrice[2].
Primato della fede
La testimonianza di
don Nino Miraldi risulta ancor più stimolante e preziosa se si considera il
luogo (Brasile) e il periodo storico in cui è stata data (gli anni dei fermenti
e finanche degli sconvolgimenti post-conciliari).
Solo la conoscenza di quel tempo e di quelle terre permette di intuire la
grandezza profetica di questa testimonianza.
Don Nino non cede in nulla sul campo della fede. Scrive in una lettera del 2
gennaio 1969: «In questo periodo di mania di cristianesimo orizzontale,
io sono più che mai convinto della priorità verticale. Mi pare che
mi do umanamente al prossimo e appunto per questo so che non vale niente se do
me stesso, un me stesso assolutamente ambiguo e non do Cristo, il Cristo che
devo riscoprire nella preghiera e nella fede»[3]. Questa centralità di Gesù Cristo conduce
don Nino tanto al rifiuto di «un conservatorismo ottuso che d’un riformismo che
prende per metro della fede “l’uomo moderno”»[4].
Arrivato in Brasile egli percepisce subito la difficoltà e la pericolosità
della situazione: «La situazione è difficile. In alcuni momenti ho
l’impressione di una Chiesa alla deriva: altro che in Italia», scrive il 6 settembre
1967[5].
Egli coglie subito qual è la posta in gioco: «Qua veramente o ti giochi tutto
sulla fiducia nella grazia, o perdi la speranza... Troppo umanesimo, il parlare
continuamente di sviluppo e dignità e libera responsabilità, non mi sembra
discorso cristiano. Speriamo che noi non perdiamo il senso della croce, della
preghiera offerta a Dio “a vuoto” senza sentirne la realizzazione, il senso
della vera patria, il rinnegamento di noi stessi: soprattutto il senso che è
Dio il centro, non noi»[6].
Per don Nino punto centrale, frontiera della fede matura, è l’incontro con la
croce dell’abbandono, l’esperienza del fallimento[7].
«Associarci a lavorare con Gesù, — scrive il 21 settembre 1967 — significa
accettare di soffrire di più, per completare nel corpo della Chiesa le
sofferenze di Cristo»[8]. Chiaro è il riferimento cristologico
alla sofferenza: «Non parlo, bada bene, — scrive il 18 aprile 1969 — di
sofferenze materiali, ma della “impotenza della croce” in cui siamo costretti a
lavorare»[9].
La fede lentamente, ma inesorabilmente, si purifica. La solitudine interiore e
la difficoltà del lavoro apostolico scavano sempre più. Don Nino lo avverte con
lucida coscienza, non si tira indietro, continua il suo cammino, dà la sua
risposta: «Adesso che sono solo capisco meglio quello che facevo... Io sono
contento della mia situazione per questo: ho predicato, credendoci, che Dio
solo basta; adesso accetto la sfida della realtà nel dimostrarlo: che Dio solo
mi basta, che Dio è felicità profonda anche quando tutto il resto manca»[10].
Amore alla Chiesa concreta
La fede nel Dio di Gesù Cristo è anche fede nella Chiesa. Nel Brasile delle
tensioni post-conciliari, don Nino vive la Chiesa nella sua realtà di fede e di
mistero.
Scrive
il 28 luglio 1970: «Grande mistero la Chiesa. Il fatto è che la si deve
amare concreta, non idealizzata. Fatto questo, si regge»[11].
È
questa fede operante nella carità che lo sostiene e gli permette di
attraversare i grandi conflitti di coscienza che sempre sono presenti nella
vita di chi crede. Egli può vedere, senza coprirsi gli occhi o oscurare
l’intelligenza, proprio in forza della professione di una fede che si esprime
nell’amore: «Amo la Chiesa forse più di prima»[12], scrive nell’ottobre 1970.
«Amo
la Chiesa... ». Questa Chiesa così come è nella sua realtà concreta e non
idealizzata[13]. Questa Chiesa «mistero... di grazia, di
sofferenza, di debolezze e di tradimenti!»[14]. Operare all’interno diquesta Chiesa
richiede il realismo della fede. «Ti assicuro — scrive don Nino il 4 novembre
1971 — che lavorare per questa Chiesa è una usura nervosa più che fisica e più
osservo e studio questa situazione, meno vedo soluzioni se non la soluzione
evangelica: povertà, fede, coraggio di affrontare la realtà»[15].
La
sofferenza della fede e l’intelligenza della realtà portano ai punti-limite
dell’impotenza della croce. Troviamo uno dei momenti più alti di questa
tensione nella lettera del 24 febbraio 1972, in cui convivono la professione di
fede cattolica nell’importantissima funzione di un centro di unione con
autorità sufficiente sull’episcopato e la tentazione dello scisma[16].
Solo
una fede senza orpelli permetterà a don Miraldi di passare attraverso «l’occhio
del ciclone»[17].
A
volte stanco, a volte sfiduciato perché pare che tutto vada al contrario, don
Nino non perderà mai la fiducia in «Dio buono e paziente»[18].
In
una lettera del 23 dicembre 1980 potrà serenamente confessare: «Anche nei
momenti di “conflitto”, o meglio tensione, con il Vescovo di Rio, sono rimasto
sempre nella Chiesa e come prete»[19].
Intuendo
la morte che si avvicina, nell’ultima lettera pubblicata, mentre constata che
sta andando giù, in discesa, senza ricuperi sostanziali, ringrazierà Dio per la
vita interessante che gli ha dato, per quello che ha fatto e fa, di cui è
convinto e in cui crede[20].
L’impatto con la cultura locale
Quello
che appare con tutta evidenza dalle lettere di don Miraldi è un’intelligenza
critica, il disincanto che preserva dai facili entusiasmi e una speranza che
non è illusione.
L’insieme
di questi tre fattori garantisce la saldezza della fede che permette alla corsa
del discepolo del Signore di arrivare in porto. Sono queste le tre fondamentali
garanzie che permettono alla fede di operare e all’opzione preferenziale per i
poveri di assumere tutta la forza e il dinamismo profetico di testimonianza
della presenza del Regno.
Miraldi
può essere accusato facilmente di pregiudizio etnocentrico e di scarsa
attenzione alle culture locali. Una lettura diacronica delle lettere fa
intravedere un processo di autentica purificazione che, a partire dal nucleo
sostanziale della fede, lo porta a un incontro con la problematica essenziale
ed esistenziale dell’uomo concreto che incontra.
È
indubbio che quello che cerca e quello di cui ha bisogno nel suo rapporto con
gli uomini, con i preti soprattutto, è ciò che chiama «la profondità della
dimensione esistenziale»[21].
Egli
stesso avverte la difficoltà di una certa comprensione che, con autoironia,
imputa a una «formazione nordico-borghese-intellettuale» che lo ha marcato
profondamente[22].
La
fede di Miraldi non uccide né occulta la ragione. Essa è sempre una fede che
entra nella comprensione, entra nella conoscenza.
Per
questo egli avverte, sin dall’inizio, la sofferenza per un cristianesimo che,
seppur riconosce vitalmente autentico, trova «teologicamente pre-critico»[23]. Egli spera di evangelizzare dando «lo
stesso Vangelo, ma in un contesto culturale molto diverso»[24].
L’impatto
con la realtà di quelle terre è stato senz’altro molto duro. Solo una fede
autentica e profonda e il grande amore al popolo hanno permesso a don Miraldi
di non soccombere.
Una
volta arrivato in Brasile egli sa che questo è il popolo che deve incontrare in
Cristo. Qui
si
rivela l’autentica vocazione missionaria di don Nino, il quale non si trova di
certo in missione per cercare l’avventura o per gita turistica o per sfuggire
alle contraddizioni di una vita precedente. Egli sa bene, sin dall’inizio, come
scriverà in una delle ultime lettere, che «non è facile fare il prete da
nessuna parte»[25].
Ed è
per essere solo portatore di Cristo Gesù e non esportatore di culture che don
Nino non accantona l’intelligenza e lo spirito critico; ma neanche li
assolutizza sottoponendo a essi la motivazione ultima della sua presenza in
Brasile.
Ritroviamo
ciò con parole semplici, ma in sintesi notevole, ove intelligenza e umiltà si
accompagnano, nella lettera del 6 settembre 1967: «Qui la gente è buona e
gentile: l’impegno non è il loro forte, la chiarezza intellettuale ancor meno.
Sono i fratelli che Dio mi ha dato ora: prega che mi dia di capirli e di
apprezzarli superando i miei pregiudizi di razza e di cultura»[26].
Nelle
sue prime analisi don Miraldi constata l’assenza dei giovani che imputa proprio
a questo vuoto di riflessione e di eclissi della ragione.
Scrive
il 12 novembre 1967: «Io credo che i giovani non vengano perché in genere qui
il cristianesimo delle masse è pre-critico (devozioni particolari, retorica e
funzionarismo da parte nostra – settarismo da parte di molti gruppi
protestanti). Tra gli adulti, moltissimi spiritisti e macumberi...; tra i
giovani non attacca più neppure questo»[27].
Vi è
un passaggio di una lettera del 21 agosto 1972 in cui si accenna a un’analisi
molto interessante. Scrive Miraldi: «L’arma della reazione è farci saltare i
nervi. Così qui sono riusciti a far uscire dalla Chiesa molte delle persone più
intelligenti»[28].
Il superamento dell’ideologia
Una
lettura superficiale e preconcetta potrebbe ridurre il cristianesimo di Miraldi
alla sola sfera intellettuale di un cristianesimo colto, in opposizione a un
cristianesimo dei poveri e del popolo ignorante. Ben differente è il punto di
vista di don Nino in cui fede, intelligenza e passione per il popolo si trovano
sempre compenetrate. Per questo egli rifiuta tutte quelle posizioni che,
eliminando la fede o fingendo la passione per il popolo, si riducono a pure
elucubrazioni e giochi di parole.
Scrive
in proposito il 14 dicembre 1979: «Quello che non mi va giù è la “cultura” dei
“colti”, molto meno originale di quella del popolo povero»[29].
Su
questo punto l’atteggiamento di Miraldi è chiaro e senza compromessi. In forza
della fede, dell’intelligenza e della passione per il popolo, egli diffida dei
progressismi alla moda e di tutte quelle posizioni che ben poco hanno a che
fare con l’amore a Cristo, alla Chiesa, ai poveri.Il suo impegno per i poveri e
le sue scelte per una Chiesa evangelizzatrice — occasione di dolorose tensioni
con il Cardinale di Rio de Janeiro — non hanno nulla a che fare con altre
scelte e altre opzioni che procureranno solo mali maggiori e che metteranno in
cattiva luce e in pericolo un’autentica e necessaria teologia della
liberazione.
Numerose,
puntuali e precise sono le osservazioni e le critiche in proposito di don Nino
Miraldi.
Scrive
il 7 aprile 1972: «Nelle “classi alte” in genere una pseudo-cultura, brutta e
mal digerita copia della europea e americana. Nelle classi “basse” e
disprezzate tanta ricchezza di bontà, di intelligenza non educata, di gentile
dignità... Io sto con i “bassi” grazie a Dio»[30].
Il
12 novembre 1967 così scriveva: «Il clero “progressista” è oggi fanaticamente
anti-Maritain per il suo ultimo libro che ha avuto recensioni stupide e anche
poco caritatevoli... Adesso sono tutti teilhardiani... senza averlo letto»[31].
Don
Miraldi vede profeticamente il pericolo di polarizzazioni che poi si decidono,
alla fin fine, solo sull’uso di differenti parole e riferimenti culturali.
In
una lettera del 2 gennaio 1969 confessa: «Sono molto triste e soffro molto per
questo. Altra preoccupazione è il clero. Progressista o reazionario, in buona
parte è borghese fino all’osso e ha scarsissima carica di generosità. È vero
che l’ambiente ammazza gli entusiasmi peggio che in Europa. C’è un progressismo
teologico che fa vomitare, il gusto dell’essere all’ultima moda, di essere
disinibiti. C’è anche molto di buono evidentemente, ma queste idiozie e
leggerezze danno forza agli integristi che sono una piaga pericolosa»[32].
In
un’altra lettera indirizzata al rettore del Seminario per l’America Latina
parlerà di «confusione di idee tra un super-progressismo pazzo e un
integralismo stupidissimo, ma appoggiato e pieno di denaro»[33].
Don
Miraldi che in una lettera del 10 ottobre 1969, appoggiandosi agli scritti di René
Voillaume, ha trattato del problema personale di rimpostare la vita «su di una
scelta di donazione matura e senza illusioni»[34], di illusioni proprio non ne nutre.
Scrivendo
a un carissimo amico parla «di una Chiesa contraddittoria, con la maggioranza
di noi preti in una situazione psicologica disastrosa... Qui il 90% dei preti
di idee rinnovate e progressiste che si sposano, arrangiano buoni posti di
lavoro, fanno i soldi e se ne fregano di tutto e specialmente del prossimo
loro, con un processo di “scollamento” delle attitudini di fede che fa dubitare
che ci sia in noi qualcosa di serio»[35].
La
sua scelta di fede per una Chiesa evangelizzatrice e per un’opzione
preferenziale per i poveri don Nino l’ha fatta esponendosi e pagando di persona
sin dall’inizio. È per questo che, in forza del suo essere incarnato dalla
parte dei poveri, egli prova fastidio per quelle posizioni che provengono da
persone che mischiano proprie frustrazioni personali con grandi e crocifiggenti
problemi umani ed ecclesiali. Sintomatico in proposito è ciò che scrive l’8
giugno 1989 in una delle sue ultime lettere: «Abbiamo una certa scocciatura per
un prete di “sinistra nevrotica” che scrive continuamente ai giornali, accusa
il Vescovo, si sente minacciato di morte e altre piacevolezze. So che accuse
sue alla diocesi sono uscite nell’[agenzia] Adista e altre
riviste europee. Sono di quei “sinistri” che fanno solo il gioco del nemico, i
veri problemi sono quelli del popolo, della sua miseria e della manovra
politica per ingannarlo ancora una volta»[36].
La
fede e l’intelligenza critica non hanno permesso il formarsi in don Nino di
facili illusioni.
Altra
cosa dall’illusione è la speranza. Essa è legata alla fede e si afferma nel
cadere delle illusioni stesse.
Per
questo don Miraldi può scrivere che in una situazione «senza prospettive, e
parrebbe senza molte speranze, rimane la Speranza, rimane Cristo Risuscitato»[37].
È
speranza autentica, è virtù teologale, perché egli avverte che «la speranza in
Dio non è facilitata da quasi nessuna speranza umana»[38].
Come
la fede lentamente si purifica, così anche la speranza diventa sempre più
genuina nella misura in cui si fa sempre più speranza in Cristo crocifisso.E
qui don Miraldi sperimenta la nudità e la potenza della croce.
«Sai,
— scrive nel marzo 1976 — continuo in piedi senza illudermi su quello che
faccio (non so bene se sono un campione di fede o di ostinazione!); non è
proprio possibile farsi illusioni. Sarebbe doveroso e possibile SPERARE, e ci
tento, ma mi è difficilissimo»[39].
Una
Chiesa che sceglie i poveri
Solo
partendo dalla dimensione di fede e di speranza di don Nino Miraldi si può
comprendere la scelta non ideologica per una Chiesa evangelizzatrice e per i
poveri.
Potremmo
azzardarci a dire che questa scelta è la dimensione storica assunta in don
Miraldi dalla virtù teologale della carità.
Sin
dall’inizio egli percepisce che «la mentalità generale è di Chiesa “stabilita”
senza evangelizzazione vera e propria»[40]. «Il clero non è affatto missionario. Le
parrocchie in genere sono molto burocratiche»[41].
Don
Miraldi avverte che in quel contesto «non ha senso un apostolato “di
conservazione” e di “piccolo cabotaggio”, di assistenza spirituale»[42].
Il
1° febbraio 1968 confesserà: «Come soffro perché la Chiesa non è
missionaria! Qui non c’è quasi niente da conservare se non quello che Dio
conserva da solo»[43]. Egli avverte che deve parlare, che deve
prendere posizione «perché qui non si gioca sulla nostra pelle (questo si può
accettare) ma sulla stessa missione della Chiesa»[44].
E la
missione della Chiesa si salda in don Miraldi con la scelta per i poveri. I
poveri sono per
lui
una scoperta, come confessa il 31 agosto 1971: «Non conoscevo come ora la
miseria di tanti fratelli, non conoscevo sperimentalmente come ora la miseria
della Chiesa e la gloria della sua missione. È bellissimo lavorare tra i
poveri: per questo per me il Brasile ha un fascino tutto particolare
anche se la situazione reale è difficilmente immaginabile»[45].
Partecipando
alla presa di coscienza del popolo oppresso, gli stessi libri biblici si aprono
a nuovi significati e, scrive don Miraldi, «li capisco anche in direzioni che
come accomodato piccolo borghese italiano non riuscivo a capire»[46].
Egli
si lascia prendere da questo popolo umile, povero, disprezzato a cui più si
vuol bene e più si soffre[47].
E,
come Gesù, prova nelle sue carni il misereor super turbas: «Mi dà
una grande tristezza vedere tanta gente che vive senza prospettive, condannati
alla miseria e a essere schiavi»[48].
Ormai
verso il tramonto della sua operosa giornata, don Nino individuerà nella Chiesa
che «tutto quello che è vivo... unisce (non riduce) il problema eterno
dell’uomo al problema della giustizia»[49].
«Il
mio problema — scriverà in una delle ultime lettere — è come annunciare il
Vangelo a questa massa di gente, in maggioranza premuti da problemi immediati
(cibo, casa, vestiti, disoccupazione, la pressione dei banditi che dominano i
quartieri poveri e sono l’unica autorità di fatto, etc.). Bisogna vivere con
loro questi problemi e gli altri fondamentalmente umani che affiorano
attraverso di questi — e vivere formando con loro una comunità di fede concreta,
di fede che opera per la carità. Mi sento totalmente impotente davanti a questo
compito. Solo la speranza in Dio e la certezza che ci vuol bene»[50].
Comunicando
al Card. Poletti la notizia della morte di don Nino Miraldi, sacerdote della
diocesi di Roma, il Vescovo di Nova Iguaçu, dom Adriano Hypólito, parlava di
don Nino come di uno «straordinario uomo di Dio e dei poveri». E così
concludeva: «Non spetta a noi giudicare la santità di un confratello, ma
abbiamo la certezza che è stato un “segno” vivo e forte dell’amore del Padre
per questo popolo che soffre nella periferia del mondo. In questa sofferenza silenziosa,
aggravata dal disprezzo e dalla calunnia dei poteri di questo mondo e molte
volte anche dall’indifferenza, la presenza di don Nino è stata una prova
dell’amore del Padre e un sostegno che fortifica la nostra fede e la nostra
speranza cristiana»[51].
Prima
di morire, dopo aver ricevuto i sacramenti della riconciliazione, dell’unzione
e dell’eucaristia, don Nino Miraldi chiese di essere sepolto nella sua terra di
adozione, tra i suoi poveri, nella Baixada Fluminense.
* Emilio GRASSO, Hanno
creduto in un mondo nuovo. Volti di speranza nell'America Latina di ieri e di
oggi, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2005, 55-69.
________________________
[1] Cfr. N. Miraldi, Lettere
dal Brasile raccolte da G. Demofonti e
C. Brunetti. Con introduzione
di G. Ruggieri, Quaderni del
Cipax, Roma 1997. D’ora in poi sarà citato con M, seguito dalla data della
lettera e dal numero della pagina.
[2] Cfr. G. Ruggieri, Il
vangelo annunciato ai poveri. Introduzione alle lettere dal Brasile di Nino
Miraldi, in M 7.
[6] Cfr. M (06/09/67) 37.
[7] Cfr. M (21/09/67) 39.
[12] M (ottobre 1970) 74.
[13] Cfr. M (28/07/70) 72.
[16] Cfr. M (24/02/72) 103.
[17] Cfr. M (07/04/72) 105.
[18] Cfr. M (02/03/78) 115.
[20] Cfr. M (18/07/90) 139.
[21] Cfr. M (10/03/71) 80.
[22] Cfr. M (21/08/72) 106.
[23] Cfr. M (20/08/67) 30.
[35] M (19/05/75) 110-111.
[39] M (marzo 1976) 112. La parola «sperare» è scritta tutta in maiuscolo
nel testo.
[44] M (ottobre 1970) 73.
[47] Cfr. M (14/12/79) 115.
[50] M (22/11/88) 131-132.
[51] Lettera del vescovo di Nova Iguaçu dopo la morte di Nino Miraldi,
in M 142.