Fede religiosa e
identità collettiva
In Italia la fede
religiosa non è mai stata un fattore di identità collettiva, per cui, ad
esempio, si possa dire che uno possa venir riconosciuto come italiano in quanto appartiene a una certa
confessione di fede. E ciò anche se in Italia sono ancora molto vive tante
tradizioni popolari locali a sfondo religioso che manifestano in modo eclatante
il grande pluralismo che ha da sempre caratterizzato le etnie stanziate nella
Penisola e le culture da esse espresse, tanto che stupisce come nell'era del
fascismo storico possa aver avuto credito l'esistenza di una razza italica. Infatti le diversità che
ci sono tra le culture locali delle nostre genti e che si esprimono anche in
quelle tradizioni popolari non sono state mai determinate da diverse concezioni
religiose, anche se indubbiamente nei popoli italiani storicamente ne hanno
avuto corso di diverse, e quindi neanche
in questo l'Italia abbia mai manifestato una particolare uniformità e compattezza,
al di là delle rigidità dottrinarie imposte dalla teologia normativa imposta
dai nostri capi religiosi. Per questo quando ci si è combattuti tra italiani e quando gli italiani hanno combattuto contro altri popoli ciò non è avvenuto a motivo della fede religiosa. Lo scarso nazionalismo religioso degli italiani spiega perché a lungo, anche dopo l'emergere degli stati nazionali in Europa, si sia preferito eleggere Papi italiani. Per far comprendere meglio quello a cui mi voglio riferire,
faccio l'esempio delle questioni vinicole: in Italia ogni dieci, venti, chilometri
circa incontriamo un nuovo tipo di vino, e questo ci distingue fortemente dalle
civiltà nord-europee della birra e del whiskey, per cui in un nostro
supermercato di periferia anche non particolarmente fornito troviamo esposti
vini di almeno una cinquantina di tipi diversi; ma non ci siamo mai combattuti
e ammazzati per ragioni vinicole. L'unica eccezione in questo quadro fu
costituita, per quello che ricordo, dalla persecuzioni contro le comunità
valdesi stanziate lungo quelle che vengono denominate Valli Valdesi, in Piemonte. Solo alla metà dell'Ottocento la
dinastia sovrana dei Savoia concesse la piena libertà religiosa e civile ai
valdesi, che dagli inizi del Novecento hanno un grande e bel tempio a Roma, in
piazza Cavour, di fronte alla statua del primo ministro artefice dell'unità
nazionale, che significò anche piena libertà per tutti i romani che non
appartenevano alla nostra confessione religiosa. Sopra il portale del tempio vi
è la scritta latina Lux lucet in tenebris,
La luce splende nelle tenebre: l'idea
che si debba essere luce, che si debba
andare verso la luce, che si debba portare
la luce, secondo le accentuazioni che di volta in volta si vuole dare in
religione al tema della luce in base
alle esigenze dei tempi, in fondo manifesta l'unità delle nostre comuni concezioni di fede, al di là delle
divisioni confessionali, tanto che anche nel nostro gruppo ne abbiamo dibattuto
a fondo la scorsa settimana.
Le cose in fondo non stavano
molto diversamente nella Dublino della metà dei primi anni '70, nella
Repubblica d'Irlanda - Èire, che conobbi
quando mio padre, ai tempi in cui frequentavo il liceo, mi ci mandò a cercare
di imparare l'inglese. Era la prima volta che uscivo dall'Italia. Mio padre, il quale all'epoca lavorava in un
importante ufficio del governo e aveva girato il mondo, mi aveva avvertito che
in molte nazioni gli italiani erano disprezzati, ma in Irlanda scoprii che,
come italiano e romano, riuscivo simpatico ai dublinesi, e il sentimento era
senz'altro ricambiato. La Dublino e i dublinesi che conobbi allora mi rimasero
nel cuore e considero quella città che volli girare in lungo e in largo,
in solitarie passeggiate, e che quindi
ricordo bene, la quarta città della mia vita, dopo Roma, in cui mi sono formato
e sono diventato adulto, Bologna, in cui sono nato e da cui proviene la cultura
della mia famiglia e Milano, dove sono stato per così dire risuscitato.
In Irlanda si era in quell'epoca che venne
definita dei Troubles, delle tribolazioni:
in sostanza, nelle sei contee di quella parte dell'Irlanda settentrionale,
nella regione dell'Ulster, rimaste parte del Regno Unito era in atto una guerra
civile tra gli unionisti, che
volevano rimanere politicamente uniti alla Gran Bretagna, e i repubblicani , che volevano l'unione con
la Repubblica d'Irlanda. Questa era la ragione politica del conflitto, ma le
due parti si caratterizzavano fortemente anche in senso religioso, anche se la
questioni di fede c'entravano poco, perché gli unionisti si definivano anche orangisti, (richiamandosi alla guerra
civile che tra il 1689 e il 1691 aveva opposto in Irlanda i seguaci di Guglielmo 3°, della dinastia
olandese Orange-Nassau, protestante, re d'Inghilterra, Scozia e Irlanda (i Tre Regni), e i seguaci irlandesi,
cattolici, della dinastia Stuart, alla quale apparteneva la moglie di quel re,
Maria 2° stuarda, regina
dei Tre Regni, anche lei protestante
ma succeduta nel regno al padre Giacomo 2° Stuart, cattolico, deposto nel 1688)
ed erano protestanti, e i repubblicani erano invece cattolici. La presenza
protestante nell'Irlanda del Nord era storicamente dovuta all'immigrazione
britannica, in particolare dalla Scozia. L'Irlanda del Nord britannica, fino al
'72, ebbe uno statuto d'autonomia, con un proprio governo, che si caratterizzò molto per politiche avverse ai repubblicani
cattolici (io arrivai a Dublino la prima volta nell'agosto '71, in un periodo
caldissimo della guerra civile nord-irlandese). Ricordo che durante il mio
primo viaggio a Dublino comprai un libro su Brian Faulkner, l'ultimo primo
ministro di quel governo, che raccontava in dettaglio quel tipo di politiche e
le sofferenze da esse inflitte alla popolazione cattolica. Ne comprai anche uno
di Bernadette Devlin, giovane parlamentare repubblicana e socialista, agitatrice politica nord-irlandese, intitolato The
price of my soul, Il prezzo della mia
anima. Gli scontri di piazza più accesi avvenivano in
quegli anni a Belfast, contea di Antrim, e a Derry, capoluogo dell'omonima
contea.
Nell'Irlanda del Nord
sotto dominio britannico, negli anni '70, all'epoca dei Troubles, la fede religiosa
era quindi un fattore identitario politico, tanto che la guerra civile che
allora si combatté era comunemente presentata in Italia come quella tra cattolici e protestanti e, in effetti, Ian Paesley, moderatore della Libera Chiesa
presbiteriana dell'Ulster (una figura di predicatore protestante che ha qualche
analogia con i preti cattolici), fu uno dei principali e più accesi capi unionisti, mentre diversi preti
cattolici parteggiavano per i repubblicani, ed alcuni erano anche sospettati di
collaborare con il clandestino Esercito repubblicano irlandese, una formazione
di lotta armata contro i britannici e gli unionisti loro alleati. Il Primate di tutta L'Irlanda
dal 1963 al 1977, l'Arcivescovo di Armagh (città dell'omonima contea a dominio
britannico) William John Conway, di Belfast, si spese molto però in quegli anni
per una soluzione pacifica del conflitto politico e, in particolare per contrastare la violenza armata, condannando le
stragi a prescindere dalla fede di appartenenza delle vittime, pur denunciando
le misure repressive contro i repubblicani. Egli mantenne buone relazioni con
il mondo protestante e, in particolare, con la Chiesa d'Inghilterra. In realtà
le divisioni politiche tra le
collettività cattoliche e protestanti nordirlandesi non comportarono un
approfondimento di quelle religiose. Il
Regno Unito concepiva se stesso come un impero
cristiano, tanto che la regina era
(ed è ancora) il capo della Chiesa d'Inghilterra, ed in effetti la Gran Bretagna, per il grande influsso culturale che aveva avuto nel mono, sotto molti
aspetti lo era effettivamente. Per reazione i cattolici nordirlandesi si
stringevano in quello che consideravano un altro impero cristiano, quello che
aveva per monarca il Papa. Del resto lo scisma
della Chiesa d'Inghilterra, nel Cinquecento, aveva avuto essenzialmente
motivazioni politiche, essendo stato basato su un conflitto politico tra quei
due imperi.
Negli anni '70 tutto l'Occidente venne caratterizzato da
fermenti politici e da quella che venne definita rivoluzione giovanile, vale a dire un veloce mutamento dei costumi degli
adolescenti e dei ventenni, che coinvolse vari aspetti del loro modo di vivere,
in particolare l'abbigliamento, la musica da loro preferita, le relazioni
sessuali, lo statuto di autonomia personale loro riconosciuto nella società e,
in particolare, quello verso i genitori. In Italia i fermenti politici
coinvolsero profondamente il mondo cattolico, in particolare sull'onda del
rinnovamento religioso promosso durante il Concilio: ciò si spiega con il fatto
che un partito di ispirazione cattolica,
la Democrazia Cristiana aveva avuto un ruolo fondamentale nella conflitto
politico e armato contro il regime fascista, nell'instaurazione di una
democrazia popolare dopo la sconfitta di quel regime e delle armate naziste che
avevano occupato militarmente l'Italia dal 1943 e nel consolidamento e nella
guida politica della nuova democrazia, esprimendo da Alcide De Gasperi in poi
il presidente del Consiglio dei Ministri e gran parte dei ministri, se non
talvolta tutti (in diversi governi monocolore
che avevano ottenuto la fiducia in un Parlamento in cui la Democrazia Cristiana
aveva sempre mantenuto la forza di partito di maggioranza relativa, con una
percentuale di voti tra il 38% del 1976 e il 48% del 1948). La storia di quegli
anni è fondamentale per capire l'origine di molti dei problemi che ci sono oggi
nella nostra collettività religiosa; in particolare è a quegli anni che risale
la progressiva diminuzione della frequenza alla Messa domenicale e la forte
diminuzione degli aderenti a diversi movimenti cattolici laicali che in precedenza avevano
avuto carattere di massa, tra i
quali l'Azione Cattolica. Questo non va
dimenticato da parte di chi, invece, ai tempi nostri attribuisce il calo dei
consensi all'azione molto caratterizzata di nuovi movimenti, come il Cammino Neocatecumenale ed altri, ai
quali furono affidate alcune parrocchie romane. In realtà essi non furono causa
della malattia, bensì la terapia attuata per una malattia di cui già la nostra
collettività soffriva, nel tentativo di cercare, mediante un deciso
rinnovamento spirituale, un approfondimento della cultura religiosa e una più
intensa solidarietà interpersonale di reagire alla disaffezione della gente.
Sentii parlare per la prima volte degli amici del Cammino Catecumenale dall'insegnante di religione, in seconda
ginnasio, nel 1971. Ci disse che avevano una spiritualità particolare molto
coinvolgente e che si riunivano nella parrocchia che a Roma è conosciuta come
quella dei Martiri Canadesi, nel
quartiere Nomentano. Ci disse anche che durante la Consacrazione rimanevano in
piedi e questo a me, che allora sapevo poco di tutto, fece grande impressione,
perché più volte il parroco del mio catechismo per la Prima Comunione, don
Vincenzo, qui nella nostra parrocchia, mi aveva vivacemente ripreso perché tardavo a
inginocchiarmi.
Anch'io, quando
giunsi in Irlanda, ero abbastanza coinvolto in quei fermenti politici del mondo
cattolico italiano di cui dicevo, anche perché gli adulti della mia famiglia vi
si appassionavano e quindi ne sentivo parlare molto. Mi interessavo di
politica, ne discutevo animatamente a scuola e cercavo di leggere più che
potevo su questo tema. Non ero invece molto interessato ai mutamenti dei
costumi giovanili e ciò essenzialmente per una certa mia vocazione per così
dire conservatrice che ancora in merito mi caratterizza. Nella Roma degli anni
'70 la politica era più popolare tra i giovani che tra gli adulti e anche per i
mutamenti dei costumi andava così. A
Dublino, Nell'Èire, nella Repubblica d'Irlanda, trovai una situazione in parte diversa.
Gli adulti si interessavano abbastanza di politica, in particolare della
situazione nelle contee del nord sotto dominio britannico, i giovani invece no.
I giovani dublinesi erano invece molto coinvolti nei cambiamenti dei costumi
sociali e in ciò tendevano molto a imitare i giovani inglesi. Tra loro non parlavano di politica. Ricordo
invece che ebbi lunghe e interessati con una signora socialista, vedova, di una
delle famiglie che mi ospitava, originaria dell'Ulster, il cui figlio maggiore,
a differenza dei giovani Dublinesi, faceva politica, era rimasto coinvolto nei
moti del nord ed era anche stato colpito e mandato all'ospedale da una delle
pallottole di gomma che i soldati britannici all'epoca usavano sparare contro i
rivoltosi. Me la mostrò, orgogliosa.
Andai a studiare
inglese a Dublino nel quadro di attività organizzate dai Fratelli Maristi, che
qui a Roma avevano ed hanno nel
quartiere Nomentano una importante scuola, il San Leone Magno, dove avevo
frequentato la Prima elementare. A Dublino studiavamo in una scuola dei
Fratelli Maristi, il Marian College,
nel quartiere di Ballsbridge. Eravamo ospitati in famiglie alcuni figli delle
quali erano venuti a Roma con la medesima organizzazione. Ci sistemavano nelle
stanze lasciate libere dai ragazzi che erano a Roma. All'epoca quelle famiglie
irlandesi mi sembrarono tranquillamente
cattoliche, vale a dire che non manifestavano quei fermenti religiosi che
correvano tra i cattolici italiani. Le chiese erano piene e la fede, per quanto
potei constatare, non aveva problemi, e innanzi tutto non costituiva un
problema. I ragazzi, poi, se ne disinteressavano, pur non discostandosene
esplicitamente. Eravamo ospiti di famiglie della media borghesia, in quartieri
ameni della Dublino di allora, nei sobborghi. Lì non arrivava l'eco dei
problemi sociali della città, in cui, come potei constatare nelle mie lunghe
passeggiate, c'erano anche molta povertà e molto disagio. I ragazzi delle famiglie che mi ospitarono
erano essenzialmente interessati a tre cose: le ragazze, i vestiti e la musica.
Un po' come i giovani italiani di oggi, mi pare di aver capito. Di politica non
volevano parlare e credo che in fondo ne sapessero poco. Invece io comprai
diversi libri, in una grande libreria in O'Connell street, la via più centrale
di Dublino, un po' come la romana via del Corso, per capire la storia della
nazione in cui mi trovavo. I genitori, nelle famiglie che mi ospitavano, se ne
stupirono e, cosa che invece stupì tutto sommato piacevolmente me considerando
le costumanze delle famiglie italiane, mi vollero a tutti i costi presentare a delle ragazze mie coetanee. Lo
stesso fecero i loro figli, che mi condussero anche in estenuanti ricerche dei
vestiti giusti nei negozi di
abbigliamento della città e a sentire musica rock anglo-americana. Io però
all'epoca ero più interessato alla politica, ma quella dell'Èire mi riuscì
incomprensibile, in base al quadro che me ne ero fatto prima di arrivare in
Irlanda. Ero arrivato a Dublino pensando che tutti gli irlandesi ce l'avessero
con gli inglesi e con i protestanti: né l'uno né l'altro. Mi sorprese , in
particolare, scoprire che la sterlina inglese, che aveva l'effigie della regina
e che valeva quanto quella irlandese (sulle monete irlandesi c'era l'arpa irlandese
invece che la testa della regina), aveva libero corso nella Repubblica
d'Irlanda. Benché ai giovani dublinesi
venisse insegnato a scuola il gaelico, la lingua nazionale irlandese parlata
ancora in alcune contrade dell'isola, i miei insegnanti del Marian College si dicevano orgogliosamente
convinti che a Dublino si parlasse un inglese
migliore che a Londra. Nell'Èire i rapporti con i protestanti mi parvero ottimi e, se ben ricordo, in uno
degli anni in cui d'estate fui a Dublino il presidente della Repubblica era un
protestante. Una delle famiglie presso le quali fui ospitato era molto amica
della famiglia di un professore universitario protestante che viveva vicino. Ero
interessato alla musica tradizionale irlandese e mi condussero da lui, che, mi
dissero, se ne intendeva. Infatti mi indirizzò in un locale sottoscala del
centro di Dublino dove si riuniva, per esercitarsi, un gruppo di cultori della
cornamusa irlandese, che non si suona soffiando con la bocca ma azionando un
soffietto posto sotto l'ascella, con il movimento del braccio destro. Insomma,
nell'Èire di allora, nella Repubblica d'Irlanda degli anni '70, la fede
religiosa non mi parve assolutamente un fattore identitario, come lo era invece
nell'Ulster britannico per i repubblicani
rispetto agli unionisti. Capii che
questo dipendeva dalla diversa situazione politica dell'Èire rispetto alle
contee sotto dominio della Gran Bretagna e quindi mi fu chiara la grande
importanza che ha il perseguimento della pacificazione politica per il
superamento delle divisioni e dei conflitti religiosi. In questo senso, come si
ritiene nelle concezioni cattolico-democratiche, la politica, la costruzione di
quella che Giuseppe Lazzati (professore universitario e politico cattolico
-1909/1986) chiamava la città dell'uomo,
ha un'importante significato religioso.
Questo comporta che, paradossalmente, su molte questioni di fede che
generano divisioni, la teologia, che ragiona sulla fede marcando confini,
scopre di non aver gli strumenti per arrivare alla pacificazione, mentre la
politica, attuata secondo la sua legittima autonomia, può arrivare a risultati
migliori. Questa è stata la grande intuizione di Giorgio La Pira (professore
universitario e politico cattolico - 1904/1977).
Anche le attuali
divisioni nel mondo cattolico italiano si basano essenzialmente su contrasti di
natura politica, come, in particolare, è stato con tutta evidenza manifestato
dalle dolorose vicende che proprio quest'anno hanno interessato il vertice
romano della nostra confessione religiosa. Approfondirli sarebbe troppo impegnativo
in questo intervento. La mia tesi è comunque che essi non abbiano base fondamentalmente religiosa, anche se poi vengono
espressi anche in termini religiosi, come espressioni di differenti teologie. Certo,
ci sono molte differenze tra le
nostre collettività religiose, come ci sono tra i nostri vini nazionali, ma poi
esse il più delle volte diventano divisioni
solo su base politica. In sostanza, talvolta la fede, in certi contrasti di
natura politica, viene utilizzata
strumentalmente come fattore identitario.
Però, per come la vedo io, questo non significa che, per contrastare le
divisioni, si debba escludere la politica dalla vita comune di fede, dalle
nostre collettività religiose, perché, se la politica è sicuramente fonte di
divisioni, essa è anche la terapia giusta per superarle e sanarle, anzi, direi,
la sola
terapia. Questo è risultato
in maniera molto evidente nei conflitti fratricidi e sanguinosi che per secoli
hanno opposto cattolici e protestanti nell'Europa centrale. Sanati i contrasti
politici, si è trovata la via per una coesistenza pacifica anche in religione, animata addirittura
da intenti ecumenici, quindi di ulteriore pacificazione. La teologia poi, che in precedenza aveva segnalato le ragioni di divisione e fornito argomenti ideologici al conflitto, seguì il nuovo corso evidenziando gli elementi comuni, che sicuramente prevalgono, fornendo argomenti per la pacificazione. Il metodo giusto non è però quello di fare di una certa visione
religiosa un fattore identitario
collettivo in campo politico, il che tende in genere a rendere insanabili,
assolutizzandole e trasferendole dalla Terra al Cielo, le fratture, come si fa
ad esempio quando si sostiene che certe scelte politiche devono conseguire necessariamente a certe concezioni di fede, e,
viceversa, che certe politiche sono manifestazioni di infedeltà religiosa, arrivando poi a una visione apocalittica del presente in cui si vive, drammatizzandolo
come lotta soprannaturale tra potenze malvagie e la vera fede, ma nel
migliorare la propria sapienza politica
e l'intelligenza politica di certi problemi, in modo da tenerli saldamente
ancorati a dove sono originati, la Terra non il Cielo, quindi a certi luoghi, a una certa storia, a certe
collettività, in modo da intravvederne e ricercarne pazientemente la soluzione
pacifica. Questa è la lezione che, per come la vedo io, dobbiamo trarre dalla
storia del passato e, in particolare, da
quella del nostro tragico passato come collettività insieme politica e
religiosa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli.