Religione, autorità, famiglia celibato
Sullo spunto della vivace e interessante discussione sviluppatasi tra noi nell’ultima riunione del gruppo, vi propongo alcune mie riflessioni risalenti a due anni fa.
Come ci ha annunciato il presidente, siamo nell’ultimo mese di incontri, prima della pausa estiva. Mi mancheranno molto le nostre occasioni di dibattito e i preziosi contributi del nostro sacerdote assistente. Se vorrete potremmo proseguirle qui sul blog, in attesa della ripresa. Spero di non essere apparso presuntuoso nel proporre certe mie idee. Parafrasando ciò che disse Giovanni Paolo II il giorno in cui fu eletto papa, ed io ero tra quelli che in piazza San Pietro lo ascoltavano di persona: se sbaglio, correggetemi.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli
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La religione non è cosa solo per i teologi. Chiunque ci si trovi coinvolto può rifletterci su. I teologi poi riflettono su questi pensieri e li ordinano in un sistema. Dalla teologia riceviamo un'immagine di tutto quello che si è pensato sulla religione: si cerca di farla arrivare a tutti, per dare un orientamento. Ci arriva con i vari catechismi, nel corso della vita, quindi in varie forme di divulgazione. Per alcuni anche con letture più impegnative. Quella che pretende di essere obbedita, quella che viene sancita dall'autorità, assume il carattere proprio di una ideologia politica del gruppo. In passato contrastarla poteva costare molto caro. Oggi è diverso, ma fino a un certo punto. Non si rischiano più la vita o la libertà personale, certo. Ma se uno ha fatto della religione il suo mestiere può rischiare il posto. Tutti possono perdere la loro onorabilità. Se uno guarda al futuro della Chiesa, può anche immaginare che una delle cose da fare sia di ridimensionare la teologia che pretenda di essere obbedita come ideologia politica.
Se consideriamo molti dei discorsi che le autorità religiose fanno su famiglia, celibato, corpo e natura ci rendiamo conto del loro carattere propriamente di ideologia politica. Il loro scopo non è tanto quello di spiegare la realtà, ma quello di assegnare a ciascuno un posto nel gruppo. L'uomo, la donna, il prete, il monaco, il frate, il marito, la moglie ecc. Contrastarli comporta l'accusa di ribellione, il dissenso non ha più solo un valore culturale. E' quello che accadde storicamente nella lotta agli eretici, ma che accade tuttora, anche se in termini meno espliciti e con metodi molto meno crudeli.
La religione è una disciplina che uno si dà. Il carattere suo proprio è di andare contro quello che si vede e si sperimenta al di fuori di sé stessi. Esprime un'insoddisfazione dello spirito. E' anche un fatto collettivo. Di solito le persone fanno proprie religioni che trovano già costruite nella società in cui vivono. Apprenderle da altri, in particolare dai genitori e comunque da gente più anziana, le accredita. La partecipazione alle liturgie, ai riti collettivi, le rende visibili al pari della dura realtà contro cui ci si ribella, dà loro una consistenza fisica, naturale. Sorregge e soddisfa l'emotività personale, lì dove origina il movente alla religiosità. L'antropologia ci dice che da tempi preistorici sono collegate al governo delle società umane. Danno stabilità alle regole imposte dall'autorità e le accreditano nelle generazioni dei sudditi. E' come dire che, fin dagli inizi, sono collegate a ideologie politiche. Anticamente, ma più vicino a noi, si credeva che vi fosse una relazione reciproca tra la natura e l'ordinamento politico di una società. Che la natura punisse le deviazioni collettività umane e che queste ultime potessero provocare catastrofi naturali. Entrarono in uso riti per placare la rabbia della natura. Più avanti si ebbe la personificazione delle forze ultraterrene e certi riti vennero concepiti come un dialogo del popolo, rappresentato dalla sua autorità suprema, con la divinità. Il lento e difficoltoso affermarsi delle scienze naturali, dal Cinquecento al secolo scorso, ci ha fatto alla fine uscire da quest'ordine di idee. Per comodità, ma con una certa imprecisione, possiamo fissare come spartiacque per il mondo cattolico il Concilio Vaticano II. Continua però a persistere, nei molti movimenti apocalittici collegati al culto mariano, la vecchia impostazione: buona parte dei fedeli cattolici, di tutte le età, vi è ancora legata. Ma non solo in quegli ambienti.
Sappiamo, ad esempio, che c'è una vivace resistenza culturale ad accettare l'idea di un mondo dei viventi in continua evoluzione, senza un preciso progetto. I dati delle scienze naturali la confermano, anche se oggi il "motore" dell'evoluzione non è più visto esclusivamente nella selezione naturale, nell'affermazione genetica del più adatto in quanto sopravvissuto. Del resto, se una persona considera sé medesima capisce bene che, potendo decidere, si sarebbe fatta diversa e migliore di quella che è, sotto tutti gli aspetti. E l'ordine della natura in cui gli organismi si mangiano a vicenda è senz'altro una buona scelta dal punto di vista dell'economia energetica: ma essendo onnipotenti e volendo essere buoni nello stesso grado si poteva anche pensare qualcosa di diverso. Pochi, infine, essenzialmente le persone non religiose, accettano serenamente l'idea della propria definitiva morte personale, dell'avvicendarsi delle generazioni dei viventi: eppure di questo ci parla la natura intorno a noi. E la morte fisica degli individui è necessaria per il mantenimento dell'ordine naturale sul pianeta. Se c'è un progetto, esso non risponde alle nostre attese. Affermarlo non contrasta però con le idee religiose: esse infatti hanno moventi paradossali, non accettano il mondo così com'è e si vede. Contrasta invece con l'ordinamento politico della collettività religiosa: se nulla è stabile e non c'è un progetto, anche l'ordinamento sacrale condivide questa precarietà e rischia di essere sconvolto col tempo. E se anche succedesse? In realtà è già accaduto, molte volte e il mondo non è finito. La natura e le società umane hanno continuato ad esistere, con la loro dose di crudeltà e insensatezza. E la Chiesa com'è oggi non è com’era la Chiesa di anche solo duecento anni fa, anche se la teologia vuole convincerci, ideologicamente, del contrario.: non è la stessa Chiesa. Nel corso dell'Ottocento si è prodotta una profonda mutazione, si è rifiutata l'idea del conflitto sociale e politico: sono gli insegnamenti confluiti in quel vastissimo corpo dottrinario che viene riassunto sotto la denominazione di "dottrina sociale". Più avanti, nel secolo scorso, si è accettata l'idea di libertà di coscienza, ripudiata e condannata come eresia solo nel secolo precedente.
I problemi si ripropongono quando si parla del corpo umano. Siamo il nostro corpo o lo abitiamo semplicemente? Da giovani si propende per la prima, da vecchi per la seconda, quando il corpo risponde sempre meno bene ai nostri desideri. Fatto sta che esso cambia nel tempo, come tutto intorno a noi. Sappiamo che finirà. Finiremo con lui? E' una cosa che temiamo e che non accettiamo: da questo le nostre attese religiose. Per quanto riguarda il nostro destino personale, le cose si chiariranno quando accadranno. Se però dobbiamo decidere sul corpo degli altri, le cose si complicano. In una comunità umana è importante stabilire quando uno è morto. Fino a qualche decennio fa sembrava facile farlo. Oggi molto meno. Si sapeva che la morte non è un accadimento istantaneo, ma un processo. Sono state inventate delle macchine che sono capaci di sostenere la vita nonostante l'inizio di quel processo. Sono state anche introdotte leggi in materia: in Italia è considerata convenzionalmente vera morte quella dell'encefalo. Ma si è poi capito che anche la morte dell'encefalo non è istantanea, dopo certi interventi rianimatori o, comunque, dopo certi eventi traumatici possono sopravvivere molto a lungo certe aree, pur nell'impossibilità del recupero della funzionalità completa dell'organo. Questa situazione non è considerata convenzionalmente vera morte, è vita umana ma non è la vita umana con cui siamo abituati ad entrare in relazione. Una situazione speculare è quella della vita umana durante la gestazione, dallo zigote a quando il feto assume forma umana: è vera vita, è vita umana, ma non è la vita umana con cui siamo abituati ad entrare in relazione. Le osservazioni della scienza ci dicono quindi che la stessa vita umana personale è un processo, la sua formazione e la sua fine non sono istantanee, esse si sviluppano per fasi intermedie. Non sono dati che contrastano con quello che emerge per la natura in generale. Ma contrastano con l'idea di stabilità che vorremmo affermare come obiettivo quando progettiamo le società umane. Se tutto è processo, se tutto evolve, dove troviamo la pietra angolare? Eppure da sempre costruiamo società umane che evolvono come processi, regole che vengono sostituite da altre regole, così come costruiamo città nuove sulle vecchie città, di modo che città antiche come Roma hanno sotto di sé diversi strati archeologici e, in definitiva, la città che sta sopra tutte le altre funziona ancora, come corpo architettonico e corpo sociale.
Infine ci sono i problemi che sorgono quando si parla della famiglia. L'antropologia ci dice che storicamente ce ne sono stati molti modelli e che questa varietà sussiste anche attualmente: poligamica o monogamica, poligamica e poliandrica insieme, patriarcale, matriarcale, allargata o nucleare, a predominio maschile o con parità fra i sessi, dissolubile o indissolubile, di stirpe o acquisita, con i figli e gli altri sottoposti considerati come proprietà dei capi famiglia o invece come persone con propria autonomia in relazione alla loro età e via dicendo. Quando però si sono progettate società con una certa stabilità si è voluto anche impartire regole sulla famiglia. In una società ordinata ognuno deve sapere qual è il suo posto. E ciò è tanto più importante in quanto le società umane sono sottoposte alla regola di natura della successione delle generazioni. Si deve poter sapere il posto che i nuovi arrivati devono occupare, in modo che, come l'avvicendarsi delle cellule nel corpo non ne muta se non molto lentamente l'aspetto, anche le società umane evolvano molto lentamente nel tempo, conservando le loro caratteristiche essenziali, in modo da rimanere riconoscibili e comunque stabili su un certo territorio. Si sa l'importanza che quelle regole ebbero e ancora hanno nelle questioni dinastiche delle stirpi regali. La famiglia è collegata all'esercizio della sessualità, che quindi è visto come potenzialmente capace di scombinarla e con essa la società della quale la famiglia è, come si suole dire, cellula primigenia. Di qui deriva l'idea che fare sesso in modo sbagliato sia molto più che immorale, sia un attentato alla stabilità e al buon ordinamento della società. Una sorta di crimine politico. Naturalmente a farne le spese sono stati i soggetti deboli: le donne e i maschi che si allontanavano dall'ideale virile. Nei confronti degli altri maschi si è usata molta tolleranza. Del resto erano loro a fare le leggi.
Col tempo le società civili hanno cambiato le regole discriminatorie e hanno usato più tolleranza. Anche nelle religioni è accaduto qualcosa di simile. In quella cattolica ci sono molte resistenze. Certo, nella Bibbia ci sono molti divieti imperativi. Ma si sa che molte delle regole che vi troviamo sono state storicizzate, le si è collegate a un certo sviluppo culturale. Oggi un cattolico non lapiderebbe un'adultera. E questo anche se si narra che il fondatore, nel decidere una questione di adulterio, pur avendone risparmiata una non ha condannato quella pena che a noi oggi sempre eccessiva e crudele. Eppure si fatica ad abbandonare certi modelli ideali di perfezione, che si sono rivelati impraticabili ai più. Ma non accade a causa della sostanza delle questioni, perché insomma essi siano proprio irrinunciabili, ma essenzialmente perché su di essi è costruita molta ideologia politica.
La famiglia come ancora è ritratta nella predicazione non è maggioritaria, ma nemmeno significativamente presente nella società. Tutto quel parlare di amore oblativo, di darsi all'altro senza riserve. Le analogie soprannaturali. Condursi diversamente appare quindi lesa maestà e addirittura eresia.
Non appena si è introdotti nella catechesi per i più grandi, ci dicono che l'antico mondo greco aveva almeno tre vocaboli diversi per quello che noi definiamo più sbrigativamente amore: "èros", "agàpe" e "filìa". Ma c'è anche il sentimento del genitore verso il figlio e quello reciproco. Sono cinque modalità di attaccamento alle altre persone. Per dire: in "pedo-filia", c'è la "filìa". Nell'evangelico "amatevi come io vi ho amato" c'è l' "agàpe". E nella domanda "Simone, figlio di Giovanni, mi ami davvero?" posta per la terza volta c'è la "filìa",mentre le altre due volte c'era l'"agàpe". Nel "vi ho chiamato amici", c'è la "filìa" La famiglia, come è nella realtà, si fonda su tutte e cinque quelle modalità di attaccamento agli altri: un po' di sesso, molta amicizia a diversi livelli di profondità, una certa stima reciproca derivante da vera predilezione, molto sentimento di possesso dell'altro, un sentimento di dipendenza reciproca in vario grado. Ma anche molto sulla considerazione sociale che, a sua volta, deriva dall'ideologia dominante. Questi ingredienti sono presenti e importanti in varia misura nel tempo in cui una famiglia dura. Possono entrare in conflitto e fondare più relazioni analoghe contemporaneamente. Questa realtà è piuttosto trascurata dalla teologia ideologica. Nella pratica c'è molta tolleranza, si sa. Ma non si pensa di poter essere conseguenti, vale a dire di attenuare le pretese ideologiche sulla famiglia.
Anche nel celibato dei chierici, che comporta l'impegno alla rinuncia non solo a qualsiasi forma di sessualità ma anche alla famiglia come è nella realtà, accade qualcosa di analogo. Si sa che le persone possono preferire, come scelta definitiva o temporanea, staccarsi dalla famiglia di origine senza fondarne una propria. Sovraccaricare ideologicamente queste scelte crea problemi. Nella Chiesa cattolica lo si fa per molti motivi. Per indicare un cammino di perfezione, al modo dei monaci. Come scelta oblativa al servizio degli altri. Storicamente però ha avuto anche lo scopo di costituire una casta virile custode del sacro, inteso come cose e azioni. In un articolo di Lisa Miller, pubblicato su Newsweek del 12 aprile scorso sotto il titolo di "Un posto per la donna nella Chiesa", la si critica sotto quest'ultimo profilo, prendendo spunto dallo scandalo dei chierici che abusarono di giovani affidati alle loro cure e da quello, collegato, del silenzio imposto dalle autorità ecclesiastiche su quei fatti. La si è fatta per resistere nelle società civili considerate sempre in pericolo di finire preda del caos. Nella realtà si sa che c'è una certa tolleranza. Alcune delle forme di sentimento tipiche della famiglia vengono praticate anche tra i chierici impegnati al celibato loro proprio, anche senza arrivare al concubinato vero e proprio. Ho letto che tra il clero indigeno africano sarebbe piuttosto diffuso. Questa tolleranza, tutta interna a una casta virile, ha impedito di rendersi conto e di contrastare fenomeni propriamente pedofili. Se in posti di responsabilità ci fossero state anche delle donne sarebbe stato diverso? Nell'articolo viene riportato l'idea espressa da Kerry Robinson, dirigente di un'associazione di imprenditori statunitensi che vorrebbero diffondere alcune forme di organizzazione che nell'impresa si sono rivelate efficaci: "Come è vista la Chiesa oggi? E' vista come un ambiente in cui peccati e crimini commessi da maschi sono occultati e favoriti da maschi".
Il movente primo dell'esperienza religiosa è non essere contenti del mondo com'è, natura compresa. E' curioso che poi si dia tanta importanza a mantenere il mondo così com'è. Ma in realtà non è nemmeno questo, perché si è visto che il mondo, natura e società, evolve. In realtà ciò che si vuole mantenere stabile è un sistema ideologico. Prodotto da quella casta virile di cui ho parlato. E' come se lo scopo vero e ultimo di tutto questo sia la protezione della gerarchia.
Se uno però non è contento del mondo com'è, con la sua violenza, la sua crudeltà, l'egoismo imperante, la legge del più forte come legge suprema, perché non dovrebbe porsi dei traguardi elevati? Perché ci si dovrebbe adeguare al mondo così com'è, invece di provare a contrastarlo in quello che va male? Perché non si dovrebbe provare, ad esempio, a migliorare la famiglia così com'è, dandole degli obiettivi più grandi? Perché uno non dovrebbe provare ad essere tutto per gli altri? A mettere da parte per sempre il proprio egoismo di essere naturale per obbedire a una legge più alta? Non si è religiosi, in fondo, proprio per questo? Il problema, una volta condivisi questi obiettivi, una volta che si è veramente deciso di vivere una vita religiosa, è quello di coinvolgere tutti. Perché, nonostante tutti i nostri sforzi, viviamo in un mondo in evoluzione in cui più si è a cercare di capire e sperimentare, meglio è. Un organismo come la Chiesa cattolica così com’è oggi potrebbe consentirlo, senza mutare profondamente? Probabilmente no. Essa infatti oggi si fonda ancora troppo sull'esercizio dell'autorità, sulla pretesa di obbedienza. E quello della pedofilia non è l'unico fenomeno su cui la casta virile al comando, nella sua supposta autosufficienza, non ha forse ancora trovato l'atteggiamento giusto.
Mario Ardigò - Roma