Sintesi di un articolo di Maurizio Bettini dal titolo "Contro le radici - Tradizione, identità, memoria" a pparso su Il Mulino,n.393, 2001, p.6 - Il testo tra parentesi quadre è mio, il resto è dell’autore.
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Ha ancora senso parlare di "radici" per marcare le differenze tra un "noi" e un "loro"? Negli ultimi decenni, in Italia e in Europa [vi è stata] una grande rinascita della tradizione, un forte rivalutazione della tradizione [anche] in molti paesi extraeuropei, [un] simultaneo soprassalto in direzione del passato e delle tradizioni in genere. Molti indizi lascerebbero pensare che si tratti di una reazione provocata dalla progressiva omologazione fra i paesi e le culture. Oggi fra Italia Spagna, Francia le differenze sono infinitamente meno marcate di quanto non lo fossero cinquanta o cento anni fa, [così anche] per quello che riguarda le differenze fra paese europei ed extraeuropei. Se così stanno le cose è possibile che il passato e la tradizione stiano ritornando al centro della nostra attenzione perché lì -e in certi casi soltanto lì- risiede l'ultimo baluardo della differenza. Il passato si sta di nuovo configurando come il luogo della identità di gruppo. Uno dei sintagmi oggi più circolanti .è proprio il seguente: "l'identità si fonda sulla tradizione", delegando con questo al passato il potere di dirci "chi siamo" nel presente, [stabilendo un]rapporto di causa/effetto fra tradizione e identità -l'identità è prodotto della tradizione. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese, infatti, l'immagine più ricorrente è quella delle radici. [L]e immagini non sono oggetti neutri, anzi molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. Questa immagine ha infatti la capacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione. Nessuno ha mai visto la propria tradizione, ma tutti nella loro vita hanno visto delle radici. [A]nche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci quale tradizione effettivamente intenda come la "vera" tradizione del gruppo, e da che cosa sia concretamente rappresentata per lui questa astratta tradizione. Ecco il
motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora. [Rimangono] difficoltà quando si vuol dare una definizione esplicita della propria tradizione (e di conseguenza, della propria identità).
[Raccontano Cicerone e Senofonte che] una volta che gli ateniesi [mandarono] a Delfi un'ambasceria. Chiesero infatti ad Apollo quali riti sacri dovessero conservare e quali no. L'oracolo rispose così: “quelli conformi al costume degli antenati”. Gli ateniesi, dopo aver riflettuto
sulla risposta che aveva ricevuto, decisero di tornare a consultare il dio. [C]hiesero a quale costume dovessero specificamente attenersi fra i molti e diversi. L'oracolo rispose: “al migliore”. La vera tradizione, il vero costume degli antenati non può essere indicato da nessuno per il semplice motivo che, come gli ateniesi sapevano bene, il costume degli antenati era cambiato molte volte nel corso del tempo. L'oracolo non può che fare appello alla capacità di discernimento dell'interrogante. Se l'oracolo fosse stato meno saggio e più retoricamente astuto, avrebbe risposto agli ateniesi in questo modo:"tenetevi alle vostre radici".
[Fra i diversi tipi di metafore] un posto di rilievo spetta a quello che procede dagli esseri animati a quelli inanimati, attribuendo con ciò caratteristiche "vitali" a oggetti e concetti che di vivo non avrebbero proprio nulla. [Q]uando si designano con il termine di radici concetti astratti come la tradizione si fa per l'appunto questo: si procede dall' "animato all'inanimato", introducendo la vita là dove di per sé non ci sarebbe. [L]a tradizione viene chiamata a far parte addirittura dell'ordine naturale, e dall'intrinseca giustificazione di quest'ordine- chi oserebbe mai contrastare la natura?- riceve automaticamente la propria giustificazione. Tramite l'immagine delle radici e dunque dell'albero, anche la tradizione si muta in qualcosa di primordiale, che sta immerso nella terra, qualcosa che sorregge e nutre -chi?-: ovviamente "noi", la nostra identità. Il rapporto di determinazione fra tradizione e identità assume in questo modo l'aspetto di una forza che scaturisce direttamente dalla natura organica. [L]a nostra identità finisce ineluttabilmente per essere determinata dalle nostre "radici", cioè dalla tradizione cui si appartiene. E' persino ovvio affermare che la tradizione in cui ci si inserisce-la lingua che apprendiamo da bambini, le abitudini alimentari ricevute in famiglia, i modi di pensare, e così via – contribuiscono fortemente a consolidare l'identità dell'individuo, contribuiscono a consolidare anche l'identità collettiva del gruppo cui si appartiene. Vorrei però insistere sull'aspetto diciamo retorico di questo problema. Le"radici" costituiscono infatti nient'altro che un'immagine. [S]i potrebbero dunque usare anche immagini differenti. Immagini capaci di descrivere la tradizione e l'identità che ne deriva non come una fatalità biologica, ma come qualcosa di più aperto e di più libero. Potremmo perciò suggerire di definire la tradizione non più in termini verticali ma piuttosto orizzontali. Chi ha detto infatti che la tradizione debba per forza essere una "radice" che scende verticalmente nella terra? Potrebbe essere qualcosa che -orizzontalmente- si affianca ad altri tratti distintivi, e con essi contribuisce a formare l'identità delle persone. Metafore orizzontali della tradizione-: un flusso, un ruscello che scorre accanto ad altri avrebbero il vantaggio di farci capire che si può benissimo appartenere a una certa tradizione senza però sentirsene prigionieri. Che non siamo alberi, i quali non possono discostarsi dalle proprie radici pena la morte.
La retorica classica sapeva bene quanto sia importante la "enàrgeia", la "evidentia", ovvero quello splendore della visione immediata, suscitata davanti alla mente dell'ascoltatore. Penso che si debba avere il coraggio di sfidare almeno la retorica, privilegiando, sull'efficacia del linguaggio, un aspetto assai più rilevante per la vita di ciascuno di no: quello della reciproca tolleranza, e in ultima analisi della pacifica convivenza fra le persone, se non della loro sopravvivenza.
L'immagine delle "radici", infatti, presenta anche un'ulteriore, spiacevole implicazione. Nella propria "terrestrità" questa metafora rimanda infatti all'idea che l'identità venga appunto dalla terra, il luogo in cui le radici affondano; .si suggerisce in qualche modo che debba essere la terra a dirci chi siamo. L'immagine delle "radici" contiene in sé la pretesa di essere gli unici veri figli di una certa terra, superiori a coloro che vi sono semplicemente sopraggiunti. [U]na visione del mondo in cui tradizione e identità divengono caratteristiche che si respirano con l'aria dei luoghi natii.
Difendere la tradizione e l'identità di un certo gruppo, significa proteggerne il suolo da possibili contaminazioni. [S]imili costellazioni simboliche possono direttamente trasformarsi in strumenti di morte. Un'immagine orizzontale e parallela della tradizione potrebbe educarci all'idea che essa non costituisce un viluppo verticale di "radici" quanto un insieme relativo e alternativo di modi di vita. La tradizione infatti è prima di tutto qualcosa che si apprende. Senza un continuo lavoro di apprendimento qualsiasi tradizione si spegne nel tempo. Quest'anno, durante una lezione universitaria di latino all'Università di Siena, abbiamo chiesto agli studenti di spiegare che cosa significasse in italiano la parola "tabernacolo". Su 43 presenti, solo 3 avevano un'idea, peraltro abbastanza vaga, del fatto che essa indicava quella piccola edicola, contenente l'Eucarestia, che nelle chiese cattoliche si trova normalmente al centro dell'altare. Di questa lacuna ce ne siamo accorti per un motivo curioso. Si trattava di tradurre in italiano la frase "Achilles cithara in tabernaculo se exercebat" - "Achille suonava la cetra nella sua tenda" e molti di loro avevano tradotto "Achille suonava la cetra nel tabernacolo". Naturalmente avevamo lanciato qualche battuta sulla singolare condizione di Achille, costretto a suonare la cetra dentro un tabernacolo. Solo che nessuno aveva riso. Al tempo in cui io studiavo all'università tutti o quasi tutti avremmo riso di fronte ad Achille nel tabernacolo. La differenza sta nel fatto che la mia generazione aveva studiato almeno il catechismo nell'infanzia, ed era andata a messa la domenica con i genitori. per cui sapevamo cos'era il tabernacolo. Al contrario i ragazzi nati negli anni Settanta e Ottanta hanno smesso di essere educati alla cultura cattolica e cristiana, per cui non ne conoscono più gli elementi.
Mi domando dunque dove stia, sia detto per inciso, questa "tradizione" e questa "identità" cristiana dell'Italia, di cui tanto si parla, quando 40 ragazzi su 43 non sanno che cos'è un tabernacolo. E mi domando anche perché gente che non sa che cos'è un tabernacolo dovrebbe arrabbiarsi tanto se costruiscono una moschea da qualche parte. La tradizione è qualcosa che deriva in primo luogo da precise scelte di acculturazione e di apprendimento, come qualsiasi
altro tipo di conoscenza. La tradizione si studia e si apprende. Ma come, si potrebbe obiettare, la tradizione non è piuttosto qualcosa che la "memoria" conserva? Questa possibile obiezione ci mette di fronte a un altro tema assai ricorrente nel nostro dibattito culturale: quello della memoria collettiva. Per funzionare questo tipo di memoria ha bisogno di una serie di cornici di riferimento -cornici a carattere sociale- che ne condizionano fortemente i contenuti. Al mutare di questi quadri sociali, mutano anche le memorie che del passato si hanno. Passo dopo passo, il gruppo sociale ricostruisce dunque anche il proprio passato, la propria tradizione, adattandola ai quadri sociali del presente che avanza, così come esso progetta anche il proprio futuro.
Vari secoli dopo la morte di Gesù, i vari episodi narrati nei Vangeli -la nascita, la trasfigurazione, la cattura, la flagellazione e così via- furono fatti corrispondere a una serie di "luoghi" specifici e visitabili. Si venne così a creare una topografia della vita di Gesù la quale altro non era se non una mappa di dogmi e di credenze, prodotto non di memorie locali ma di bisogni proiettati in Palestina dalle esigenze della ormai vastissima comunità cristiana.
Si ricorda perché si vuole ricordare, e si ricorda quello che -per vari motivi – si decide di ricordare.
Si può dire che i conflitti da cui Gerusalemme è stata insanguinata negli ultimi tempi, e dai quali era già stata più volte lacerata nel corso dei secoli, siano la conseguenza dei diversi modelli di topografia tradizionale (più o meno leggendaria) elaborati dalla memoria collettiva dei vari gruppi etnici e religiosi distribuiti sul suo territorio. Ebrei, musulmani e cristiani hanno ricostruito nel tempo la topografia di Gerusalemme a seconda delle singole tradizioni. Si tratta in primo luogo dell'area detta del Monte Moriah, circa quattordici ettari di estensione. Gli ebrei vi identificano il luogo in cui sorgeva il Tempio (con il Muro del Pianto), costruito da Salomone là dove Abramo fu condotto a immolare suo figlio Isacco; mentre per il musulmani da questo medesimo luogo il Profeta sarebbe salito al cielo sul suo cavallo alato, evento che ha trasformato quest'area nella cosiddetta spianata della Moschee. Altre contrapposizioni sussistono poi fra la Basilica del Santo Sepolcro (che per cattolici, ortodossi e altri gruppi cristiani racchiude in uno stesso edificio il luogo della crocifissione di Gesù e quello della sua sepoltura) e la cosiddetta Tomba del Giardino: la collina rocciosa identificata dal generale Charles Gordon, nel 1883, come il luogo "autentico" della crocifissione, e come tale venerato dai Protestanti. Questo ha fatto sì che, nel tempo, ebrei, musulmani e cristiani si siano uccisi per difendere le loro specifiche topografie "tradizionali" di Gerusalemme, e oggi israeliani e palestinesi tornino a uccidersi, per lo stesso motivo, sul medesimo suolo. Dopo l'attacco sferrato da Tito il 29 agosto del 70 d.C., durante il quale Gerusalemme fu conquistata dai Romani e il Tempio distrutto, la Giudea venne dichiarata provincia imperiale. Sessant'anni dopo Adriano decise di ricostruire la città ma nella forma di colonia romana, denominata Aelia Capitolina, e decise anche di ricostruire il Tempio: ma stavolta in onore di quelle divinità che gli ebrei consideravano "pagane". In seguito a questa decisione a Gerusalemme sorse un tempo dedicato ad Afrodite (sull'area della zona oggi occupata dal Santo Sepolcro), mentre nella spianata del distrutto Tempio ne sorse un altro dedicato alla Triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva. Di conseguenza la contesa fra area del Tempio e area delle Moschee potrebbe essere ulteriormente aggravata, per fortuna solo teoricamente, dalla proposta di rivendicare quello stesso pezzo di terra già conteso fra ebrei e musulmani alla Triade Capitolina dei Romani. Per lo stesso motivo, il già complicato assetto del Santo Sepolcro, attualmente ripartito fra cattolici, ortodossi e armeni (ma anche siriani, copti e abissini vi godono di alcuni diritti), potrebbe essere ulteriormente turbato dalla pretesa di rivendicare questo spazio ad Afrodite, un'altra divinità che in effetti occupò quella zona per un certo periodo.
Rivendicazioni di questo tipo non vengono ovviamente avanzate da nessuno. [O]ggi le antiche divinità "pagane" non dispongono di alcun "gruppo" che con loro si identifichi. Non esiste a tutt'oggi nessun gruppo che intenda fondare la propria la propria identità sulle "radici" della cultura ellenistico-romana - in pratica, si potrebbe dire che non ci sono rivendicazioni "pagane" su queste aree di Gerusalemme, semplicemente perché i classicisti costituiscono una comunità scientifica e accademica, non un gruppo etnico o religioso.
Il caso limite di Gerusalemme potrebbe costituire addirittura il paradigma di come le tradizioni procedano "ricostruendo" la propria memoria a seconda dei bisogni e degli impulsi dei vari gruppi, soprattutto quando pretendono di rendere assoluto il loro parziale angolo di mondo, contrapponendo la "verità" e la "autenticità" della proprie radici alla falsità usurpatoria di quelle degli
altri. Dovrebbe però essere facile rendersi conto di quanto sia delicata l'operazione di scegliere un certo modello di tradizione a dispetto di altri possibili: [determinare] in questo modo i processi collettivi della
memoria costituisce un atto destinato a incidere direttamente sulla memoria culturale delle generazioni future. Decidere che cosa si deve sapere del passato significa prendere delle decisioni relativamente alla memoria collettiva delle generazioni future. E questo costituisce un atto di estrema gravità, che richiede una grande saggezza-non trovo una parola migliore- da parte di chi è chiamato di prendere simili decisioni. E' necessario infatti che, per le generazioni di domani, noi scegliamo come minimo delle tradizioni sostenibili. Tradizioni di tipo "umano", se così posso dire, tolleranti, aperte, altrimenti rischiamo non tanto di produrre nel futuro cittadini ignoranti - di ignoranti se ne sono prodotti tanti anche nel passato- ma dei cittadini cattivi, cittadini che si faranno del male fra loro e faranno del male ad altri.
Quando scoppiarono i primi conflitti fra hutu e tutsi, in Ruanda, scoprimmo con orrore che non si trattava in realtà di un conflitto di carattere etnico - o meglio "tribale", come i media si ostinano a dire quando si tratta di guerre africane. Parlano la stessa lingua, sono difficilmente distinguibili sul piano somatico e per secoli hanno condiviso le medesime istituzioni politiche. All'interno di uno stesso regno, se i tutsi svolgevano una funzione di aristocrazia, agli hutu erano però assegnati privilegi rituali dai quali dipendeva il benessere di tutti. Furono i missionari e i colonizzatori europei che interpretarono questi due gruppi sociali come due popolazioni differenti.
Utilizzando i criteri in uso nell'antropologia ottocentesca -genetica e gerarchica nello stesso tempo- ai tutsi, pastori "nobili" furono così attribuite origini camitiche: in altre parole un retaggio biologico e culturale ricollegabile in qualche modo all'occidente, attraverso la comune discendenza da Noè; mentre degli hutu si fecero dei rozzi contadini autoctoni. Leon Classe, il primo arcivescovo cattolico del paese, pretese addirittura che i tutsi fossero di razza "ariana": mentre i suoi successori preferirono identificare nei tutsi i discendenti di una delle disperse tribù di Israele. Tutto questo perché i colonizzatori avevano fatto degli "aristocratici" tutsi i loro interlocutori privilegiati, lasciando da parte gli hutu e anzi togliendo loro i privilegi rituali di cui godevano. Quando i tutsi si convertirono al cattolicesimo, adottarono in proprio la leggenda della loro origine camitica, mentre gli hutu furono relegati al ruolo di contadini di lingua bantu. A questo punto gli hutu, accettando anch'essi come buona la leggenda etnografica che ricostruiva la loro "memoria" e la loro "tradizione" secondo i modelli degli europei, cominciarono a loro volta a rinfacciare ai tutsi la loro qualifica di invasori. Hutu e tutsi erano stati "etnicizzati" dai belgi, e ora si combattevano come due popoli differenti. Nel 1930 i coloni belgi avevano provveduto a realizzare un censimento per rilasciare a ogni individuo un documento di identità. Vi si indicava se ciascuno era tutsi, hutu o twa (i pigmei che rappresentano il terzo gruppo del paese).Dato che, come abbiamo visto, distinguere somaticamente un hutu da un tutsi era impossibile, fu deciso di adottare come criterio etnico discriminante il numero dei bovini posseduti da ciascuno. Il possesso di bovini era infatti un indicatore di prestigio da parte della popolazione locale - i belgi lo trasformarono in un criterio di etnicità. Fu così deciso che gli individui maschi che possedevano dieci o più buoi erano da considerarsi tutsi; gli altri, quelli che ne avevano un minor numero o non ne avevano nessuno, erano da considerare hutu. E questo per sempre. Queste carte di identità esistono ancora oggi, e costituiscono il mezzo attraverso il quali i militari delle due fazioni in guerra hanno potuto identificare chi era da uccidere e chi da risparmiare. Tutto questo, sulla base di una "tradizione" partorita da altri, ma che la memoria collettiva di tutsi e huti aveva disgraziatamente fatto propria.
Testo sintetizzato dall'articolo originale e inserito da:
Mario Ardigò - AC San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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