Parrocchia di San Clemente
papa - Roma
Gruppo di Azione Cattolica
Lettera ai soci
in occasione della fine
delle attività per l’anno sociale 2019/2020
Giugno 2020
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Dalla Presidente
Carissimi amici,
l’attuale emergenza sanitaria, pur in via di
risoluzione, ci costringe a questo saluto a distanza, contrassegnato però
da affetto, condivisione di intenti, da
amicizia profonda in Gesù, compagno di strada e maestro.
La pandemia ha segnato in modo diverso
ciascuno di noi, ci ha messo alla prova e ne siamo usciti con cicatrici più o
meno profonde, ma sostenuti dalla fede e dall’affetto di coloro che ci sono
cari.
Il prossimo anno sociale ci vedrà partecipare
ai nostri incontri con maggiore convinzione e risolutezza e riprendere insieme
il cammino interrotto, durante il quale, come i discepoli di Emmaus, chiedere
al Signore di rimanere con noi.
Di seguito troverete un intervento del
Presidente nazionale, uno dell’assistente nazionale, un’intervista del nostro
parroco al periodico “La Quarta”, un intervento dell’arcivescovo di Milano, un’omelia
del Cardinal Vicario Angelo De Donatis, due omelie di vescovi ausiliari della
nostra diocesi, Gianpiero Palmieri e Guerino Di Tora, preposto al Settore dove
si trova la nostra parrocchia, e le
omelie del nostro parroco don Remo in occasione della settimana santa e durante
le domeniche del lockdown, da quando la parrocchia ha iniziato a
trasmetterle in diretta su un canale di Youtube.
Con l’augurio che l’estate sia per ognuno di
noi un momento propizio di riposo e di riflessione, vi abbraccio con affetto,
proponendovi di riprendere le riunioni settimanali martedì 6 Ottobre.
Giulia
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Resta con noi
Di
Matteo Truffelli, Presidente nazionale dell’Azione Cattolica
I due
discepoli incamminati verso Emmaus si rivolgono al compagno di viaggio per
invitarlo a non lasciarli soli: «Resta con noi, perché si fa sera» (Lc 24,29).
È il desiderio che forse abbiamo avvertito più pungente in queste settimane, di
fronte all’«ora più buia». I discepoli avevano conosciuto la delusione, il loro
sguardo era pieno di rimpianto e di timore nei confronti dell’avvenire.
Un’amarezza simile a quella di chi, oggi, vede nell’esperienza che stiamo
attraversando e nelle limitazioni che essa ci impone delle barriere in grado di
separarci dall’Amore di Dio. Le mura di casa come un impedimento per la nostra
vita di fede.
Il Vangelo
ci invita però a ricordare che la “casa” in cui siamo invitati a rimanere è ben
più di un luogo: è lo spazio delle relazioni, la dimensione in cui impariamo la
vocazione alla fraternità. È tutta l’esperienza di Ac a rendere evidente il
ruolo decisivo esercitato dalla qualità dei legami nel far crescere le persone
nella cura della vita interiore, nella passione educativa e civile,
nell’apertura alla compassione verso le fragilità umane, nell’impegno generoso
per la costruzione di comunità. Così, passare dall’«Io resto a casa» al
«Resta con noi» non esclude, evidentemente, le indicazioni utili a
prevenire il contagio, ma le inserisce in uno sguardo più ampio. Lo sguardo
della fede, che scruta la storia per cogliere dentro di essa il bene che è
all’opera. Uno sguardo che riconosce – paradossalmente – il distanziamento
sociale come forma di cura delle relazioni; alimenta la relazione con il
Signore nella meditazione della Parola e nella riappropriazione di una preghiera
radicata nei tempi e nei luoghi della vita feriale; non dubita della presenza e
dell’azione di Dio anche in una stagione di paura come quella che stiamo
attraversando.
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Lettera aperta alla parrocchia
Di Gualtiero
Sigismondi, Assistente nazionale dell’Azione Cattolica
Parrocchia
carissima, traendo spunto da don Primo Mazzolari ‘ figura di spicco della
Chiesa italiana della prima metà del Novecento ‘, che con una schiettezza pari
alla lealtà ha avuto la felice intuizione di scrivere una Lettera su di te, oso
indirizzarti una lettera aperta, che invio ‘ per conoscenza ‘ a tutti coloro
che parlano della tua missione pastorale ‘opportune
et importune’.
– C’è chi
ne parla per difenderti a spada tratta, pienamente convinto della tua
dimensione popolare di vicinanza alle case della gente, di capillare porta
d’ingresso alla fede cristiana e all’esperienza ecclesiale, ma non del tutto
consapevole della tua vocazione missionaria.
– C’è pure
chi ne parla per difendersi, ossia per chiudersi dentro l’orizzonte offerto dal
tuo campanile, ignorando la tua dipendenza dalla Chiesa particolare, a cui è
strettamente legata la tua appartenenza alla Chiesa universale.
– C’è
persino chi ne parla per conferirti, non senza gratitudine, la medaglia al
‘valore pastorale’, nella consapevolezza che hai ‘combattuto la buona
battaglia’ della ‘salus animarum’ e
hai persino ‘conservato la fede’, ma hai pure ‘terminato la tua corsa’.
– C’è
addirittura chi ne parla con diffidenza, ritenendoti, se non proprio un
‘rottame pastorale’, un ‘pezzo d’antiquariato’ o comunque un ‘oggetto da
museo’, illustrato da questa laconica didascalia: ‘fontana del villaggio ormai
sigillata’.
– C’è anche
chi ne parla con troppa sicurezza, smaniando di versare ‘vino nuovo in otri
vecchi’, anziché ‘vino nuovo in otri nuovi’ (cf. Lc 5,37-39), magari con il
proposito di rinnovarti, ma con il risultato di spaccarti e, per giunta, di
versare fuori il vino.
– C’è
infine chi ne parla con entusiasmo sincero, con la stessa rettitudine
d’intenzione dello scriba di evangelica memoria il quale, divenuto ‘discepolo
del Regno’, ‘è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove
e cose antiche’ (Mt 13,52).
Come vedi,
carissima Parrocchia, sono in molti a tenere fisso lo sguardo su di te, forse
con la nostalgia della simpatia, ma non con la lungimiranza della profezia, che
unisce alla pazienza dell’attesa l’intelligenza dei ‘segni dei tempi’. Non temere
l’intraprendenza di chi ti ritiene inadeguata o la reticenza di chi ti
considera sorpassata e neppure la sufficienza di chi stenta a riconoscere la
tua lunga esperienza pastorale. Abbi coscienza della tua natura e della tua
missione; abbi cura di metterti alla scuola dello Spirito santo guidata dalle
Scritture; abbi il senso dei bisogni veri e profondi di chi bussa alla porta
della canonica. Non entrare nel vicolo cieco della ‘febbre organizzativa’ o del
‘male della pietra’ e non accontentarti di moltiplicare ‘iniziative prive di
iniziativa’, che potrebbero dare l’impressione che tu sia un’azienda anziché
una famiglia. Non limitarti a presidiare i confini del tuo territorio ‘
potresti soffrire di asma pastorale! ‘, ma abbi l’audacia di presiederlo con l’ansia
apostolica di tracciare percorsi di ‘nuova evangelizzazione’, riscoprendo la
‘grammatica di base’ del ‘primo annuncio’. Presta attenzione alla vita sociale,
senza complessi d’inferiorità, vincendo ogni forma di chiusura, di distrazione,
di indifferenza e di sonnolenza e, soprattutto, superando l’idea che la vita
cristiana sia una specie di abito da vestire in privato o in particolari
occasioni.
Parrocchia
carissima, ti raccomando di non dimenticare che la Parola convoca la comunità
cristiana e l’Eucaristia la fa essere un solo Corpo. L’ambone e l’altare
formano, infatti, un’unica mensa, sulla quale i due modi di presenza del Pane,
che è Cristo, s’intrecciano e si sostengono mutuamente. Tieni bene a mente che
‘la fede nasce dall’ascolto e si rafforza nell’annuncio’; secondo Madeleine
Delbrêl, ai cristiani resta solo la scelta: essere missionari o dimissionari!
Esplora, dunque, la ‘frontiera’ della missione coltivando e dilatando gli
strumenti e gli spazi della comunione, poiché ‘la concordia è il presupposto
della Pentecoste’. Valorizza gli organismi di partecipazione, ispirandoti non
alla logica parlamentare della maggioranza ma al criterio sinodale della
convergenza. Riconosci la necessità e l’importanza delle unità pastorali, che
non sono sovrastrutture amministrative, ma infrastrutture sinodali che
esprimono lo spirito missionario dell’ecclesiologia di comunione del Concilio
Vaticano II. Non guardare con alterigia alla pietà popolare, ‘vero tesoro del
popolo di Dio’, ma purificala da eventuali eccessi e rinnovala nei contenuti e
nelle forme. Affida all’oratorio il compito di rivelare il volto e la passione
educativa della Chiesa per le giovani generazioni, coinvolgendo animatori,
catechisti e genitori. Investi sulla ‘piccola chiesa domestica’, avendo ben
chiaro che se non ti dedichi a riconquistare la famiglia alla fede il tuo
impegno per la ‘nuova evangelizzazione’ sarà sempre una rincorsa affannosa.
Scommetti sull’Azione Cattolica, riconoscendo il suo ‘genio formativo’, senza
trascurare di accogliere con l’entusiasmo della gratitudine il ‘genio
missionario’ delle nuove aggregazioni ecclesiali, che ti assicurano un prezioso
supporto di energie evangelizzatrici: guardati dalla tentazione di ‘spegnere lo
Spirito’! (cf. 1Ts 5,19). Abbi il coraggio di passare dalla pastorale del
‘campanile’, diretta alle folle, a quella del ‘campanello’ ‘ anche il tuo nome
evoca la casa: parà oikìa! ‘, configurata secondo il ‘modello catecumenale’.
Parrocchia
carissima, sei tanto veneranda quanto venerabile, e tuttavia tieni presente che
il tuo santo Protettore non è Simeone, ma Zaccaria! Il tuo cantico ‘ te lo dico
senz’indugio! ‘ non è il Nunc dimittis,
ma il Benedictus, perché ‘ come era
solito affermare don Primo Mazzolari ‘ ‘la bellezza di ogni creatura è nella
sua capacità di rinnovarsi’.
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Meditazione al tempo della pandemia
di
Ciccio Frangone
Sono Ciccio dell'Azione Cattolica della
Parrocchia di San Clemente ai Prati Fiscali.
Sto trascorrendo questo periodo di travaglio
devastante e micidiale in clausura forzata e con coatto distacco sociale,
dovuti a questo Corona virus.
L'assillo
è continuo, mille e ancora più mille i perché, e da una legione di dubbi, se
questa è una prova, ma che prova... in modo particolare la sofferenza del cuore
e della mente come un coltello nelle carni, il richiamo degli affetti dei figli
e dei nipoti che non posso incontrare.
Ma tutto questo travagliato tempo, mi ha
fatto meditare sul valore della vita, quale dono, e come porsi una volta usciti
da questa prigione con l'altro, con lo sguardo di socievolezza e di
solidarietà, considerandolo il mio prossimo.
Inoltre un cambiamento, dando valore alle
cose necessarie e irrinunciabili. Legittimo tutto questo dilemma, umano
razionale.
Per
acquietare questo travaglio, e alla monotonia uniforme delle cose, leggo libri
e navigo sul computer.
Ma
a tutto ciò che è negativo secondo le ragioni razionali, si inseriscono le
ragioni della fede, che mi fanno dire: "O Dio sia fatta la tua volontà,
non come rassegnazione o debolezza, ma con responsabilità, presa di coscienza e
di conoscenza.
E
infine secondo la Parola di Dio: "Senza di me non potete fare nulla".
Il parroco Remo
Chiavarini mentre celebra una messa domenicale in tempo di L0ckdown –
immagine da Youtube
Le iniziative dell’Azione
Cattolica in tempo di Covid-19
Da un’intervista del
parroco Remo Chiavarini al periodico La
Quarta (maggio 2020)
Di Mariangela Marchioni
Risponde il parroco Remo
Chiavarini:
Siamo
stati travolti da questo ciclone come tutti e, come tutti, abbiamo dovuto
limitare le nostre libertà, riducendo le attività personali e quelle
parrocchiali […]. Nonostante ciò, però, la parrocchia è rimasta sempre aperta,
osservando gli orari stabiliti.
[…]
Abbiamo contato e contiamo tuttora la presenza sia dei fedeli che si
radunano in preghiera rispettosi selle distanze e dotati di presidi di
sicurezza, sia di chi viene per chiedere un aiuto materiale perché
impossibilitato a lavorare.
[…]
Sono
convinto che, se la situazione emergenziale si allenterà e si entrerà in un clima di
maggiore serenità, anche queste misure a mio parere stringenti passeranno in
secondo piano.
Ogni
chieda avrà il proprio servizio d’ordine, formato, identificato e preposto a
verificare il corretto rispetto delle regole sugli accessi, la distanza e
l’occupazione dei posti assegnati. Una volta raggiunto il numero di siti occupati,
si bloccherà l’ingresso.
[…]
Premesso che la questione sanificazione è complessa e poco chiara,
abbiamo deciso di disinfettare quotidianamente gli ambienti e di operare poi
una pulizia settimanale in modo più approfondito.
Voglio lanciare un messaggio di speranza e
dire che ciò che stiamo vivendo è sì una grande prova, ma come tutte le grandi
prove non va sprecata, perché è il segnale, la strada, per promuovere quei
cambiamenti che dobbiamo accogliere e portare avanti senza paura.
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Omelie nel tempo del Lockdown
Dal gennaio 2020 l’Italia è stata
colpita dalla pandemia della malattia virale Covid-19 manifestatasi
il mese precedente in Cina, nella provincia di Hubei. Il virus che la provocava
è stato denominato SARS-CoV-2, del tipo coronavirus perché al
microscopio elettronico appare circondato da escrescenze che ricordano,
appunto, una corona. La malattia è molto contagiosa, può provocare gravi
polmoniti ed è molto pericolosa in particolare tra chi ha più di sessant’anni.
Dal 9 marzo il Governo
italiano, per cercare di limitare i contagi, ha disposto delle misure dette
di lockdown, termine inglese che significa confinamento.
In sostanza è stata limitata la possibilità di spostarsi fuori casa, salvo casi
di lavoro o di altre necessità specificamente indicate. Sono stati vietati gli
spettacoli pubblici. E’ stato limitato l’accesso ai luoghi di culto religioso:
è stato consentitio solo qualora fosse possibile mantenere tra i fedeli la
distanza minima di un metro, senza la formazione di gruppi numerosi. Le
autorità della Chiesa cattolica hanno quindi deciso di sospendere le
celebrazioni delle messe con la partecipazione del popolo. Questo è durato fino
al 18 maggio 2020, quando, a seguito di intese con il Governo, sono riprese,
benché con cautele per prevenire il contagio.
Durante il periodo
di lockdown sono state trasmesse in diretta televisiva messe
celebrate senza la presenza del popolo. Ad un certo punto anche
nella nostra parrocchia si è iniziato a farlo, aprendo un canale su Youtube:
https://www.youtube.com/channel/UCo6n57HwR4y91ZeMG6FXADA
Ho trascritto le omelie che vi sono state pronunciate. In precedenza avevo
trascritto le omelie pronunciate dal Cardinal Vicario e da alcuni vescovi
ausiliari nella cappella Gesù Buon
Pastore della Conferenza Episcopale italiana, qui a Roma. Le ho
pubblicate sul blog acvivearomavalli@blogspot.it. Le inserisco
anch in questa lettera, raccolte insieme. Alle omelie faccio
precedere un intervento, che mi è parso molto significativo, dell’Arcivescovo
di Milano, Mario Delpini, all’inizio del lockdown, .
Ho trascritto le omelie dalle fonoregistrazioni che ne ho fatto in
occasione delle dirette delle Messe. Ho invece trovato
pubblicato sul WEB l’intervento di mons. Delpini,
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La pandemia da Covid-19 ha sorpreso la nostra
coscienza religiosa.
Di fronte ai rovesci
della nostra sorte e alle catastrofi della natura, dunque, ci interroghiamo:
“Perché?”, “Perché a me?”, “Perché capita a persone incolpevoli?”.
I predicatori cercano
di aiutarci.
Vivere si deve: si
vive anche se non si trova il senso del vivere. Ma, trovando un senso, si vive
meglio, e innanzi tutto si possono fare progetti. Senza orientamenti non si può
progettare, si è completamente in preda degli eventi.
Spesso i mali
colpiscono solo una parte della gente, così chi si salva si consola e chi è
coinvolto spera di uscirne. Ma la pandemia che si è abbattuta sull’Italia ha
colpito tutti, ha messo in pericolo tutti, e le misure di prevenzione che si
sono rese necessaria per combatterne l’espansione hanno cambiato la vita di
tutti, malati o non.
Come vivere da persone
religiose in tempo di lockdown? Si è riusciti a trovare un senso
religioso a questa esperienza? In realtà spesso l’abbiamo vissuta più che altro
come qualcosa di transitorio, pensando di poter ritrovare presto una normalità,
passata l’emergenza. Scienziati e clinici ci avvertono però: il pericolo
probabilmente rimarrà a lungo, anche se le misure di prevenzione che
abbiamo imparato ad attuare potranno evitare situazioni come quella che abbiamo
vissuto tra febbraio e maggio 2020. Ma, a ben considerare, l’esistenza degli
umani è sempre sottoposta ad una certa inevitabile precarietà, anche questo c’è
nella Bibbia, anche se, assumendo una mentalità che bada innanzi tutto al
giorno per giorno evitando di spingere lo sguardo molto più in là, non ci si
pensa. Dunque, la predicazione in tempo di lockdown può
tornare utile anche al di là dell’emergenza sanitaria.
Mario
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MARIO DELPINI
ARCIVESCOVO DI MILANO
-
La potenza della sua RESURREZIONE
(Fil 3,10)
[Voglio solo conoscere Cristo e la
potenza della sua risurrezione. Voglio soffrire e morire in comunione con lui (dalla lettera di san Paolo
Apostolo ai Filippesi 3,10, traduzione in lingua corrente TILC]
-
Messaggio di speranza per questa
Pasqua 2020
Carissimi, avevamo
immaginato un’altra Pasqua e anche quanto ho scritto per il tempo pasquale
proponeva attenzioni più consuete. Mi sembra giusto riproporre lo stesso testo
inserito nella proposta pastorale La situazione è occasione, anche
se si rivela fuori contesto. Desidero però accompagnarlo condividendo qualche
riflessione per vivere la Pasqua di quest’anno, segnata dal drammatico impatto
dell’epidemia e da tante forme di testimonianza di fede, di speranza, di
generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di smarrimento.
Non pensavamo che la morte fosse
così vicina
Noi, vivi, sani, impegnati
in molte cose siamo abituati a pensare alla morte come a un evento così
lontano, così estraneo, così riservato ad altri: ci sembra persino
un’espressione di cattivo gusto quando si insinua l’idea che possa riguardare
anche noi, e proprio adesso. Io non so quante siano le persone che muoiono a
Milano nei tempi “normali”. Adesso però i numeri impressionano, anche perché
tra quei numeri c’è sempre qualcuno che conosco. La morte è diventata vicina,
interessa le persone che mi sono care, i confratelli, le presenze quotidiane
negli ambienti del lavoro, del riposo. Ogni volta che si parla di un ricovero,
ogni volta che si dice: «Si è aggravato» si è subito indotti a pensare che
l’esito sia fatale, tanto la morte è vicina, visita ogni parte della città e
del Paese. E ogni volta che si avverte un malessere, una tosse che non
guarisce, un brivido di paura e di smarrimento percorre la schiena. La morte
vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da discutere.
I conti aperti, i lavori
incompiuti, gli affetti sospesi insinuano una specie di terrore: «Sì, lo so che
viene la morte, ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!».
Ma si intuisce che non basta avere un compito da svolgere per convincere la
morte a passare oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e
non ci pensavamo. Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala
e con più intenso pensiero.
Non pensavamo che fosse così
difficile riconoscere la presenza del Signore risorto
La città secolare da tempo ha
decretato l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita
pubblica; ma per i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una
sorta di ovvietà. In ogni situazione era spontaneo riconoscere la presenza
reale nell’eucaristia, l’origine di ogni male e di ogni bene dalla volontà di
Dio, la conferma della sua provvidenza, l’aspettativa della sua giustizia nel
premio e nel castigo.
In questo tempo è
molto cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne è nata una qualche
nostalgia per chi non ci pensava più e persino quelli che non sanno dove siano
le chiese si sono interessati per sapere se siano aperte o chiuse. Per i devoti
però quello che era ovvio è diventato problematico. L’antica domanda che mette
alla prova il Signore è rinata spontanea: «Il Signore è in mezzo a noi sì o
no?» (Es 17,7). C’è un bisogno di segni che lo dimostrino, un’invocazione di
esposizioni, processioni, consacrazioni: dicono un desiderio sincero di essere confermati
nella fede da una evidenza, da un intervento incontrovertibile. I segni della
presenza del Risorto, cioè le ferite subite per la sua fedeltà nell’amore,
risultano inadeguati all’attesa di una benedizione, di una protezione che
dovrebbe mettere al sicuro i suoi fedeli. L’esito è che suonano stonate le
certezze della città secolare che si costruiva orgogliosa e vincente a
prescindere da Dio. E risultano più fragili le certezze dei devoti che devono
constatare che «vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il
malvagio» (Qo 9,2).
«Perché allora ho
cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?» (Qo 2,15). Non pensavamo che
fosse così difficile riconoscere la presenza del Risorto, riconoscere la sua
potenza che salva per vie che le aspettative umane non possono prescrivere,
lasciarsi avvolgere dalla sua gloria, così diversa da come la immaginano gli
umani. Siamo chiamati a entrare con fede più semplice e più sapiente nella
promessa di Gesù: «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita
eterna» (Gv 6,47), per capire meglio la rivelazione: «Questa è la vita eterna:
che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv
17,3).
Non pensavamo che fosse così
necessario celebrare insieme i santi misteri
“Andare a messa”, il rito
della domenica, è sembrato per decenni una buona abitudine facoltativa, dopo la
fine di un cristianesimo governato da precetti e minacce. Una buona abitudine
da riservare a qualche festa solenne, a qualche rito di famiglia, a qualche
domenica insieme per accontentare il bambino. Una buona abitudine in
concorrenza con altre: la visita alla nonna, il corso di sci, le occasioni del
centro commerciale, le partite di campionato. Il richiamo della nonna o del
papà: «Sei andato a messa?» è, tutto sommato, un fastidio sopportabile,
inefficace e, in sostanza, rassegnato. Nelle discussioni in classe o in ufficio
sembra quasi un segno di maturità e di spirito critico professare: «Sì, sono
credente, ma a modo mio, penso con la mia testa; sì credente e non praticante».
Quando le celebrazioni sono state impedite, quando sono state sostituite da
trasmissioni televisive, quando ogni prete ha dovuto inventarsi un qualche modo
virtuale per entrare nelle case, per far sentire un segno di prossimità e di
premura pastorale, quando catechisti e catechiste, educatori e ministri
straordinari hanno raggiunto i “loro ragazzi”, i “loro malati” tramite il
cellulare, i credenti hanno percepito che mancava la cosa più importante. Sì,
sono gradite la premura, la parola buona, la frase del Vangelo; sì, aiuta la
proposta di non perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Sì,
tutto vero. Ma trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare,
stringere le mani amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è tutt’altro.
Di questo sentiamo la mancanza. Quando abbiamo fame, non potremo mai sfamarci
guardando una fotografia del pane. Quando siamo sospesi sull’abisso del nulla,
l’espressione intelligente “credente ma a modo mio, credente ma non praticante”
suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria là dove per attraversare
la tempesta abbiamo bisogno di una presenza affidabile, di un abbraccio, di una
comunione reale con Gesù, per essere nella vita di Dio. Niente di meno. Poter
“andare a messa” sarebbe il segno che è tornata la normalità non solo nella
libertà di movimento, ma nella convinzione che non si tratta di buone
abitudini, ma di una questione di vita e di morte. Il pane della vita non è
infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza Gesù non possiamo fare
niente: le buone idee, la buona educazione, i buoni propositi sono tutte cose
importanti. Ma abbiamo bisogno di una parola che illumini il nostro passo, di
un credere che sia vivere della relazione decisiva con Dio, di uno spezzare il
pane della vita per non morire in eterno. Abbiamo bisogno di diventare un solo
corpo e un solo spirito spezzando l’unico pane. Se in questo tempo abbiamo
provato l’emozione di pregare insieme in casa, abbiamo imparato che è
possibile, che unisce, che non esaurisce il desiderio di incontrare il Signore
e anzi fa crescere il desiderio di “andare a messa”. Si deve raccomandare che
nella “chiesa domestica” si conservino sempre i riti della preghiera e che il
ritrovarsi in casa aiuti a sentirsi parte della grande Chiesa che ci raduna da
tutte le genti.
Non pensavamo che fosse così
necessaria la resurrezione per la nostra speranza
Nel linguaggio comune la speranza
si è banalizzata a significare un’aspettativa fondata su previsioni più o meno
attendibili, di cui si è, però, sentito parlare da qualche titolo sbirciato
sfogliando pagine web. «Speriamo che domani sia bel tempo; speriamo che piova
al momento giusto e che la vendemmia sia abbondante; speriamo di vincere il
concorso e chiudere il contratto…» Anzi, di speranza è meglio che parlino i
poveracci. Le persone serie elaborano progetti, confrontano risorse, mettono in
bilancio anche la voce imprevisti, perché è ragionevole aver tutto sotto
controllo. Si danno da fare, non si aspettano niente da nessuno, sono convinte che
se vuoi qualche cosa devi conquistartelo. Anche le persone serie dicono
talvolta «Speriamo» e incrociano le dita: è più una scaramanzia che una
speranza. Ma quando irrompe il nemico che blocca tutto, che paralizza la città,
che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze
vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice
della Borsa. La percezione del pericolo estremo costringe a una visione diversa
delle cose e a una verifica più drammatica di quello che possiamo sperare.
Nella vita cristiana rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere,
dalla “solita storia” i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere
buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. Ma
quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo,
allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la
morte. «Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione,
vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). «Ma se Cristo non è risorto, vana è
la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che
sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo
soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor
15,17-19).
Buona Pasqua!
In conclusione desidero che
giunga a tutti l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a
una celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni,
festose, gloriose alle quali siamo abituati.
La nostra Pasqua, vissuta più in
casa che in chiesa, è la cena secondo Giovanni: i suoi segni espressivi sono la
lavanda dei piedi, la rivelazione intensa agli amici dei pensieri più profondi,
la preghiera più accorata al Padre. La nostra Pasqua quest’anno rivive quella
sera: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le
porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne
Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Incomincia così
una storia nuova. Perciò posso invitarvi ancora a orientare il nostro cammino
di Chiesa, con quanto ho scritto: «Siate sempre lieti nel Signore!»
(Fil 4,4). Lettera per il tempo pasquale.*
Pace a voi! Buona Pasqua.
+ Mario Delpini Arcivescovo
Milano,
25 marzo 2020
* Testo estratto da Mario
Delpini, La situazione è occasione. Per il progresso e la gioia della
vostra fede, proposta pastorale per l’anno 2019-2020, che è stato
distribuito con il quotidiano «Avvenire» domenica 12 aprile 2020.
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Domenica 15 marzo 2020 – 3° del
Tempo di Quaresima - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda
da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla
cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e
celebrata dal Cardinal Vicario della Diocesi di Roma Angelo De Donatis.
Carissimi,
il ciclo dell’anno A ci fa
percorrere l’itinerario del catecumeno.
Nella prima domenica
di Quaresima siamo entrati nel deserto con Cristo per combattere la buona
battaglia.
Nella seconda abbiamo
contemplato la meta del cammino: la Trasfigurazione sull’alto monte. Così
abbiamo compreso che lo scopo della prova non è quello di diventare degli eroi,
ma di diventare figli. Figli trasformati dalla luce della Pasqua.
Questo è il nostro destino: la vita piena, dove le lacrime e la
fatica cederanno il posto alla carezza di Dio. Siamo cenere? Sì,
siamo cenere, ma lo Spirito ci trasformerà in luce.
Ora il nostro cammino
quaresimale giunge alla terza tappa.
Il Vangelo proclamato è
ricchissimo. Mi fermo solo su una parola pronunciata da Gesù. Il Maestro seduto
sul pozzo afferma solennemente davanti alla donna samaritana: «l’acqua che io
darà diventerà in voi una sorgente che zampilla per la
vita eterna». Che cos’è quest’acqua, anzi “Chi” è? E’ lo Spirito santo, lo
Spirito riversato nei nostri cuori. Questa è una rivelazione grande. Il
cristiano, ogni battezzato, non è più un mendicante di felicità, un affamato
che va in giro frugando nei rifiuti. Egli stesso è un pozzo, un sorgente
inesauribile di vita. Dio ha messo in ciascuno dei suoi figli tutto ciò che
serve per vivere, tutto ciò che serve per amarlo.
Carissimi, non
Gerusalemme o il monte Garìzim [montagna ad Ovest della città samaritana di Sichem,
in Palestina, dove i samaritani avevano eretto un tempio in contrapposizione
con quello di Gerusalemme - nota mia], ma io e i miei fratelli siamo il Tempio
di Dio sulla terra.
In questo tempo tribolato,
in cui è anche difficile andare nelle nostre chiese di mattoni, e non possiamo
accostarci ai sacramenti, possiamo riscoprire come tutta l’esistenza del
cristiano sia canale di grazia.
Dio non è impotente, è
ridicolo pensare che un virus possa impedirgli di consolare i suoi figli amati,
di parlargli, di irrobustirli nella prova.
Certo non possiamo celebrare
l’Eucaristia come popolo radunato. I riti sono sospesi, ma non il mistero che
in essi è significato. Anche in mezzo all’epidemia possiamo vivere una vita
eucaristica, fatta di gratitudine al Padre, fatta di servizio al prossimo.
Il Dio dell’Esodo parla e
insegna nella storia, anche in questa storia che stiamo vivendo. Dio ascolta il
nostro grido, ci consola, certo, ma ci interroga anche. Ora che i riti
sacramentali tacciono, è il momento di far parlare la profezia. Dio ci chiede,
con dolcezza, quanto ciò che fino a ieri hai celebrato è diventato
in te acqua viva che zampilla per la vita eterna. Quella vita divina che
nemmeno un virus può cancellare.
Verifichiamoci: quanti riti
senza mistero, quante confessioni senza pentimento, quanto Eucaristie senza
ringraziamento, quanti matrimoni a fedeltà intermittente, quanto carità fatta
senza amore? Non chi dice “Signore! Signore!” entrerà nella vita
eterna.
Fratelli e sorelle
carissimi, la samaritana è andata al pozzo come una rifiutata ed è tornata a
casa da sposa. Ha scoperto che il Tempio di Dio era lei.
Coraggio!
Riscopriamo la preghiera
nelle nostre famiglie, nel segreto della camera. Riscopriamo la meditazione
orante della Scrittura, che cancella i peccati veniali. Riscopriamo la
comunione spirituale. Riscopriamo l’esame di coscienza fatto bene, a lungo, in
attesa di poter ricevere nuovamente l’assoluzione. E soprattutto, preghiamo con
l’orazione ufficiale della Chiesa, che è la Liturgia delle Ore. E poi, ancora,
preghiamo con il Rosario.
In questo momento, tutti,
tutti noi battezzati, siamo il popolo sacerdotale che intercede per il mondo e
che sparge sul mondo a piene mani l’acqua dissetante del Consolatore.
Un abbraccio paterno a
tutti.
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Domenica 22 marzo 2020 – 4° del
Tempo di Quaresima - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda
da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla
cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e
celebrata dal Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma Gianpiero Palmieri
Nella vita ci sono le zone oscure,
i momenti bui. Pensiamo che possano capitare solo a qualcun altro. Invece
questo tempo è oscuro per tutti, nessuno escluso. E’ segnato da dolori e ombre,
che ci sono entrate in casa.
Meditare questo Vangelo,
celebrare questa Eurcaristia, ci possono aiutare. Si tratta di consentire alla
luce di Dio diradare le nostre tenebre, dal di dentro: questo lo può fare solo
Dio. Da soli noi possiamo darci un po’ di coraggio, rassicurarci, dirci l’un
l’altro “Ce la faremo!”. Ma sappiamo bene che questo non basta. Il buio di cui
si parla qui è quello del “nato cieco”. Cio cioè dell’uomo che, nel momento
stesso in cui è venuto al mondo, è esposto alla precarietà, all’imprevisto,
alla malattia e alla morte. In questi istanti ci domandiamo: “Ma io sono solo
un’esistenza fragile, appesa a un filo?”, “Sono soltanto questa tenebra fredda
che mi entra nelle ossa?”. Oppure il mio cuore è attraversato da una luce
increata, quella divina, e che sono impastato di terra, sì, ma di una terra
destinata ad essere trasfigurata dalla luce?
Nella prima pagina
della Genesi, nel giorno “uno”, che coincide con l’eternità, Dio dice “Sia la
luce!”, e la luce fu. I commentatori ebrei si chiedevano “Da dove proviene
questa luce?”, dal momento che Dio crea il sole, la luna, le stelle solo al
quarto giorno. E rispondevano “E’ la luce della Parola eterna, uscita dalla
bocca di Dio”. Per questo la comunità del Vangelo di Giovanni, rispondendo alla
domanda “Ma chi è questo Gesù, che abbiamo veduto, udito, toccato, scrive, fin
dall’inizio, nel Prologo, “E’ la Parola”, è il Verbo di Dio, colui
che è presso Dio ed è Dio, che porta la sua tenda in mezzo a noi. In lui è la
vita e in lui è la luce. “Io sono la luce del mondo”, dice Gesù.
Noi uomini, ci dice la
Scrittura, non siamo gettati nell’esistenza per caso. Noi siamo creati da
questa Parola luminosa di Dio e un raggio della sua luce ci rimane per sempre
nel cuore, fa parte di noi. Continua misteriosamente ad agire persino
nell’ombra, persino nella disperazione. Da questo raggio nascono la
spinta alla fraternità reciproca, il desiderio di rimanere umani, la speranza
al di là delle illusioni ottimistiche, la determinazione a non arrenderci, la
spinta ad occuparci dei poveri. Nascono da questa luce interiore che è, per
così dire, un pezzo di Dio, dentro di noi. Qualcosa che dobbiamo custodire e
lasciare agire a noi anche adesso.
Per riaccendere questa
luce, proviamo a identificarci con il cieco nato di cui parla il Vangelo. E’
una persona per bene. Fin da piccolo ha imparato a saper contare sugli altri, a
vivere affidato alla carità dei fratelli e alla Provvidenza di Dio. E’ uno che
non ha a dire ciò di cui è manchevole - è un “mendicante”, un “menda dicere”
[espressione che in Latino significa “riconoscere i difetti”] -, né a
riconoscere di non sapere, per tre volte dice “Non lo so”, “Non lo conosco”. E’
uno che sa bene che cosa significa essere fragili, esposti al rischio, appesi a
un filo. E’ uno “autentico”. E’ un figlio saggio di Israele e di Dio. Un povero
che partecipa alla fede del suo popolo. Magari quella fede l’ha appresa sulle
ginocchia dei genitori. Non sembra aver mai dato retta alla teoria degli scribi
teologi farisei del suo tempo, per cui Dio l’avrebbe punito con la cecità in
previsione dei suoi peccati o a sconto di quelli dei suoi genitori.
Basta aver ascoltato
almeno una volta qualche brano del libro di Giobbe: ancora oggi Dio non
punisce con la pandemia il peccato degli uomini, ma la cecità, la malattia,
anche la pandemia ci ricordano che siamo inseparabilmente luce e fango, luce
impastata nel fango.
Il cieco ha invece
imparato dalla fede semplice ma vera del suo popolo che Dio ascolta, ascolta
chi fa la sua volontà, e che, se Gesù l’ha guarito, è perché Gesù viene da Dio,
e che Dio esulta per la guarigione dei suoi figli, non importa se ha rispettato
il riposo del Sabato oppure no. Dentro di lui, dentro il cieco, la luce cresce
sempre di più. Quell’uomo di nome Gesù è un profeta, viene da Dio, e
nel momento in cui l’incontra, si prostra e fa la sua professione di fede.
“Credi nel Figlio dell’uomo?”, “E chi è Signore, perché io creda a lui?”, “Lo
hai visto. E’ colui che parla con te”: “Credo, Signore”. Questa luce per lui è
sempre più chiara. Lo conquista e lo commuove fin nelle viscere, come il
lebbroso su dieci guariti ritornato a rendere grazie. Non vede solo il miracolo
della guarigione, ma vede chi è colui che lo ha guarito. Il cieco, il lebbroso,
sanno che prima o poi si ammaleranno di nuovo, moriranno. Ma ora
hanno incontrato la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Per questo al
cieco non importa se passerà dall’esclusione sociale legata alla cecità a
quella dovuta al fatto che è stato cacciato dalla Sinagoga. Ormai è un
discepolo di Gesù. Fa parte della fraternità dei suoi discepoli. Ormai ha
imparato che Dio è uno che squarcia le tenebre più fitte, quelle legate alla
condizione umana.
Custodiamo questa luce nel cuore,
anzi lasciamoci custodire dalla luce di Dio. Rendiamo sempre più
profonda la nostra vita spirituale, in questo tempo in cui siamo reclusi
forzatamente. Attraverso l’ascolto della parola, la preghiera personale, in
famiglia. Coltiviamo, anche se a distanza, quelle relazioni che ci fanno bene
al cuore, e prendiamoci cura con tenerezza e con coraggio di chi è povero, di
chi è in difficoltà. Manteniamo uno sguardo fermo, ma luminoso, sulle
situazioni. E non si lasci avvilire il nostro sguardo. Ma sia pieno di
speranza.
Alla lunga, non basterà la
buona volontà: servirà essere davvero in contatto con la luce che viene da
dentro.
Sentiamoci in profonda
comunione con tutto il popolo santo di Dio, di ogni luogo e di ogni tempo, che
ha saputo affrontare le situazioni più difficili appoggiandosi con fede piena
al Signore. Ricordiamo la fede dei nostri nonni, che hanno attraversato la
guerra; la salvezza di tanti cristiani che in tante parti del mondo hanno
affrontato la persecuzione, le lotte fratricide, le pandemie, come quelle dell’Ebola. Ha
detto papa Francesco che è da qui che dovremo ripartire. Dovremo guardare
ancora di più alle radici. I nonni, gli anziani. Costruire una vera fratellanza
tra noi. Fare memoria di questa difficile esperienza vissuta tutti insieme, e
andare avanti, con speranza, la speranza che mai delude. Queste saranno le
parole chiave per ricominciare, ci ha detto il Papa: radici, memoria,
fratellanza, speranza.
E così sia.
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Domenica 29 marzo 2020 – 5° del
Tempo di Quaresima - sintesi dell’omelia della Messa mandata in onda
da Rai TV 1 alle ore 11, trasmessa dalla
cappella Gesù Buon Pastore della Conferenza Episcopale Italiana, a Roma e
celebrata dal (nostro) Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma Guerino Di Tora
Carissimi fratelli e sorelle,
la Liturgia della Parola di questa
quinta Domenica di Quaresima inizia con la visione di Ezechiele: «Aprirò le
vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri; farò entrare in voi lo
spirito e rivivrete». Visione profetica e di grande speranza. Ad essa fa eco
san Paolo nella lettera ai Romani: «Se lo spirito che ha risuscitato Gesù dai
morti abita in voi, darà anche ai vostri corpi mortali la vita». E ci
introducono nella catechesi del Vangelo. Itinerario di essenzialità, che ci
presenta Gesù che disseta la nostra sete, luce che illumina il nostro cammino,
vita vera che dà vita.
L’evangelista ci porta a
Betania, luogo dove il Signore si recava presso i suoi amici Lazzaro, Marta e
Maria. Siamo al culmine dei segni del Signore: la vittoria della vita sulla
morte.
Lazzaro è malato,
mandano a chiamare il Maestro, ma lui non va: l’apparente silenzio di Dio.
Quante volte ci chiediamo: “Dove sei Signore?”. Gesù vuole dare un segno di
fronte alla morte, “Perché voi crediate”. E si vive la tragedia. Lazzaro, amico
di Gesù, è morto. Gesù si fa presente. Le sorelle, come tutti, sono in totale
dolore di disperazione, come accade anche oggi. Quanti di noi, di fronte a
morti improvvise, dolorose, tragiche, poniamo al Signore la stessa domanda di
Marta: “Se tu Signore fossi stato qui, se avessi dato un
segno…”. Gesù dice a lei, allora, ma anche a noi oggi -
ricordiamolo, la Parola di Dio è attualità, ci parla, ci interpella nell’oggi
del nostro presente-: «Tu fratello risorgerà. Io sono la
resurrezione e la vita, chi crede in me vivrà in eterno.» Questa, fratelli e
sorelle, è la nostra fede.
Anche a noi Marta oggi ci dice
“Vieni, il Maestro è qui e ti chiama”. Ci invita ad alzarci, a non stare fermi
nel nostro dolore. Anche di fronte al dolore della morte attuale, Gesù ha compassione. Cum-passio [parola
latina, da cui deriva quella italiana, e che è composta da con e patire, patire
con]. Vive anche lui la passione, il dramma, di ognuno di noi di fronte a
quell’ultima barriera invalicabile che è la morte. Volle essere partecipe:
«Dove l’avete portato?». «Vieni e vedi». Una giorno lui aveva
invitato dei pescatori ad andare a vedere dove lui era. Ora sono
delle persone affrante dal dolore che gli dicono: «Maestro, vieni e vedi». E’
l’uomo, ognuno di noi, che chiama Dio ad essergli vicino e partecipe nel
dolore. Gesù si commuove e piange. Un Dio che piange! L’Assoluto,
l’Eterno! Ci rivela il volto del Dio di Gesù Cristo, il vero volto di Dio.
Fratello, sorella che
soffri, che sei nell’angoscia, Dio piange con te. Condivide il dolore, la
sofferenza e, sulla Croce, la morte. E Gesù si manifesta Signore della morte e
della vita: «Lazzaro, vieni fuori!». Anche a noi grida: «Vieni fuori!». Esci
dalla tua tomba, dalle tenebre, dalle piccole sicurezze, dai pregiudizi, dagli
egoismi. Torna a vivere!
Il Signore ci chiama a
testimoniare una vita nuova, che va al di là del mistero della morte.
In questi giorni di
vita e di morte, per alcuni di morte atroce, senza conforto, la fede ci fa
gridare che Cristo ha vinto la morte, e ci invita, meditando su di essa, ad un
rinnovato impegno d’amore, per la vita, per la vita di tutti, familiari, amici,
poveri, disagiati, immigrati, rom, nessuno escluso. A lui chiediamo questa
forza.
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Sintesi dell’introduzione alla
Settimana Santa pronunciata dal parroco Remo Chiavarini all’inizio della la Messa
della domenica “Delle Palme” celebrata in parrocchia il 5 aprile
2020, senza il popolo a causa delle misure di confinamento sociale per la
prevenzione del contagio da Covid-19.
Sintesi di Mario Ardigò, per ciò
che ha capito delle parole del celebrante
Siamo arrivati all’inizio
della Settimana Santa, questa domenica delle Palme. Una Settimana Santa
inedita, unica, speriamo, nella nostra vita. Una Settimana Santa da ricordare…
Comunque, sempre Settimana
Santa è.
Sempre ci introduce questa
celebrazione nella settimana che ci porterà poi alla domenica di Pasqua.
Chiediamo al Signore
che ci prepari, attraverso il dono della sua misericordia, a ricevere tutta la
grazia che il Signore ha preparato per noi in questi giorni.
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Dall’omelia pronunciata dal
parroco Remo Chiavarini durante la Messa
del Giovedì santo celebrata in parrocchia il 9 aprile 2020, senza il popolo a
causa delle misure di confinamento sociale per la prevenzione del contagio da
Covid-19.
E’ uno strano Giovedì santo.
Strano perché è così
familiare e unico, per lo meno nella mia vita.
Il Giovedì santo è la
celebrazione dell’Ultima Cena: è sempre stata una delle celebrazioni più
solenni di tutto l’anno. Da sempre.
Quando ero in Seminario, si
partecipava proprio il Giovedì Santo alla celebrazione presieduta dal Papa,
allora era Paolo 6°. La celebrava a San Giovanni in Laterano dove c’era il
Seminario. Perché allora le liturgie pasquali iniziavano in San Giovanni in
Laterano, con la Messa “In Coena Domini” [si legge “in
cena domini”. E’ espressione in latino che significa “nel ricordo
dell’(Ultima) Cena del Signore”]. Poi [continuavano] il venerdì a Santa
Maria Maggiore e il sabato a San Pietro. Il Seminario partecipava e serviva
anche; quindi diverse volta da seminarista ho prestato servizio a questa celebrazione.
Poi, dopo la cena, si andava a casa. Chi partiva subito dopo la celebrazione,
chi la mattina dopo, quelli che magari erano più lontani.
Ma poi anche subito nelle
parrocchie dove sono stato. A cominciare da San Saturnino: [lì] la celebrazione
del Giovedì Santo era solennissima, era stracolma, pienissima, e così anche in
tutte le altre celebrazioni. Perché il popolo cristiano sa che questa è una
celebrazione fondamentale. Qui c’è la Pasqua del Signore. C’è il mistero di
Gesù che dona se stesso in quella liturgia che ricorda quell’incontro nel
Cenacolo. E anche noi qui stasera siamo qui proprio nel Cenacolo: siamo dodici,
tredici, quattordici, non di più, come probabilmente erano quella sera nel
Cenacolo del Signore, quando, come tutte le famiglie degli ebrei, si iniziava a
celebrare la Pasqua.
[Quest’anno] anche gli ebrei
[del nostro tempo] hanno iniziato a celebrare la Pasqua ieri sera. Ieri
sera hanno celebrato nelle famiglie. Si inizia con una liturgia famigliare e
poi si continua in quelle altre celebrazioni che coinvolgono poi tutto il
popolo, al Tempio e così via.
Anche noi abbiamo
riascoltato come prima lettura l’inizio, addirittura in terra d’Egitto,
[il racconto] dell’uccisione dell’agnello pasquale, di quell’agnello nel cui
sangue c’è salvezza: l’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo.
Poi abbiamo riascoltato come san Paolo ci dice che, in fondo, in quella Pasqua
bisogna inserire anche la nostra Pasqua; quell’agnello non è più l’agnello del
gregge, ma è Gesù, e ormai quel sacrificio è nuovo ed eterno, per
cui è l’unico ed eterno sacrificio del Signore nel quale noi ci innestiamo
facendone memoria nel tempo. In questo lungo Esodo nel quale la storia si trova
e vive in attesa di entrare nella Terra Promessa. Ricordiamoci sempre che la
Terra Promessa non è su questa Terra, ma per noi la Terra Promessa è “Cieli
nuovi” e “Terra Nuova”, nella quale Gesù è entrato con la
sua Resurrezione e dove, lì, tutti ci attende.
Stasera volevo ricordare
innanzi tutto il sacramento dell’Eucaristia, che è il luogo dove la comunità si
ritrova, l’unica Eucaristia del Signore che continua a vivere nel tempo.
L’Eucaristia è il luogo dove la comunità sperimenta di essere la Chiesa di Dio,
il Popolo di Dio. E poi il dono del sacerdozio, che è indissolubilmente legato
all'Eucaristia, quindi alla Chiesa. Non c’è Eucaristia senza sacerdozio. Non
c’è Chiesa senza Eucaristia. Quindi possiamo dire che non c’è Chiesa senza
sacerdozio, questo ce lo dobbiamo ricordare.
Ricordiamo poi in questo
momento soprattutto novantanove sacerdoti, così oggi diceva il giornale,
che in questi giorni sono morti a causa dell’epidemia, del corona-virus.
In fondo anche loro, veramente pastori, hanno accompagnato
quel gregge, quel numeroso gregge, che in questa epidemia è stato convogliato
nel gregge nuovo ed eterno del Paradiso.
Adesso, come sapete, doveva
esserci la Lavanda dei piedi: non c’è oggi. C’è subito la preghiera
universale, ma quel gesto ce lo portiamo nel cuore e ci ricorda che proprio
dalle relazioni primarie che comincia questo comandamento del Signore, quello
di far sì che la propria vita sia servizio, perché noi dobbiamo essere
discepoli di colui che è venuto non per essere servito ma per servire.
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Sintesi dell’omelia pronunciata
dal parroco Remo Chiavarini nel corso
della liturgia del Venerdì santo celebrata il 10 aprile 2020 nella chiesa
parrocchiale, senza il popolo dei fedeli a causa delle prescrizioni sanitarie
per la prevenzione del contagio della malattia Covid-19
Abbiamo proclamato il Vangelo
della Passione secondo Giovanni. Il Venerdì santo è di
solito pieno di tante manifestazioni: quest’anno è caratterizzato dal
silenzio. Ma sempre Venerdì santo è.
Venerdì santo significa
la Passione del Signore. Noi sappiamo che questa Passione ancora
continua nel mondo. Ogni anno ha la sua caratterizzazione: quest’anno pensiamo
agli ospedali, alle sale di rianimazione, dei luoghi della sofferenza di chi ha
perso qualche caro. Ogni anno, sempre la sofferenza ci accompagnerà. Come ogni
sofferenza, si può affrontare in tante maniere.
Di fronte alla croce c’è chi
si ribella, chi prega, chi non l’accetta, chi l’accetta ma non ne comprende il
senso, ma se potesse con grande gioia, se dipendesse da lui, la eviterebbe. E
c’è l’esempio del Signore che ci presenta questo Vangelo, un racconto
estremamente sobrio: racconta in fondo una tortura, la condanna a morte, ma con
una serenità straordinaria, come colui che sa che la sofferenza ha un
significato e che quella sofferenza si può tradurre in fonte di vita, se
vissuta con amore.
Una delle caratteristiche
fondamentali della Passione del Signore è questa: non la
subisce, non è che gli cade addosso e purtroppo la deve portare avanti, ma
volontariamente, per ubbidienza, vi entra.
Il Signore ci doni di
entrare in questo Venerdì santo, così come in ogni Venerdì santo della nostra
vita, con quello spirito.
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Sintesi dell’omelia svolta dal
parroco Remo Chiavarini durante la Messa
di Pasqua celebrata l’11 Aprile 2020, dopo la Veglia, nella chiesa
parrocchiale, senza il popolo dei fedeli a causa delle disposizioni di
prevenzione sanitaria del contagio della malattia Covid-19
Così finalmente siamo
arrivati nel cuore della Pasqua, di questa liturgia pasquale che abbiamo
iniziato giovedì. E nel cuore di questa liturgia troviamo il Vangelo della
Resurrezione. Il comando del Signore: «Andate ad annunciare quello che avete visto!».
E’ quello che in fondo la Chiesa fa durante tutto il tempo, e dunque anche in
questa notte, in questo anno della storia del mondo, della storia della Chiesa,
la Chiesa annuncia questo fatto: Cristo è risorto.
Ci sono due parole nel
Vangelo che forse sentiamo particolarmente presenti nel nostro cuore, in questa
Pasqua.
La prima è «Non abbiate
paura!». Che poi è la stessa cosa di «Non temete!». La paura, il timore, è
quello che prende sia le donne che vanno al Sepolcro, perché loro vanno per
dare una degna sepoltura al corpo del Signore, e naturalmente, trovando la
tomba vuota, la tomba aperta, quella grande pietra rotolata via, capiscono che
qualche cosa è successo. Ma poi vedremo che la stessa cosa accade anche ai
discepoli, gli apostoli, addirittura Pietro, Giovanni: lo sconcerto. Ecco che
anche a loro verrà detto «Non temete!». E viene detto alla Chiesa e viene detto
a noi oggi: «Non temete! Non temete! Non temete!», «Non abbiate paura!». Come è
bello accogliere questo invito del Signore!
Non abbiate paura, perché…
«Perché io ho vinto la morte. Io ho vinto, sono ancora il Crocifisso». Perché
poi il Signore si manifesterà con le piaghe, per cui Cristo che vive in eterno
è sempre il Crocifisso e porta sempre con sé le piaghe della Crocifissione, ma
quelle piaghe non gli hanno portato la morte, perché lui ha vinto, è andato
oltre.
E questo è l’annuncio della
Pasqua. Noi siamo qui perché sappiamo che la Pasqua del Signore non è solo
la sua Pasqua, perché se fosse la sua Pasqua in fondo
sarebbe una gran cosa ma una cosa che interesserebbe lui, e invece no,
interessa anche noi, perché, come ci ha detto Paolo, Cristo è risorto per
donare per donare la sua vita a coloro che vogliono unirsi a lui attraverso i
sacramenti, primo fra tutti il Battesimo. Ecco perché nella notte della Pasqua
c’è a centro il Battesimo e siamo chiamati, noi tutti, a fare memoria del
nostro Battesimo, perché con il Battesimo siamo entrati con la nostra vita
vecchia nella tomba del Signore e siamo risorti a vita nuova. E noi anche, perciò,
siamo dei risorti. Questa è la cosa incredibile. Non soltanto Gesù
è risorto, ma noi siamo risorti già adesso, perché noi abbiamo già la vita
nuova. Quella vita che Gesù ha inaugurato con la sua Risurrezione.
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Sintesi dell'omelia del parroco Remo Chiavarini nella Messa di Pasqua
celebrata il 12 Aprile 2020, con inizio alle 9, nella chiesa parrocchiale di
San Clemente papa, senza il popolo, in osservanza delle prescrizioni sanitarie
per la prevenzione della malattia Covid-19
Domenica: il
Vangelo della Pasqua ci racconta proprio quello che accadde in quel primo
giorno della settimana. Questo termine ricorrerà spesso, perché veramente con
la Risurrezione del Signore inizia un tempo nuovo.
Come la settimana era in po'
il paradigma che racchiudeva tutta la Creazione, e ogni settimana si ripeteva e
ci ricordava tutte le grandi opere di Dio, che aveva compiuto, così inizia una
nuova settimana, che significa, secondo il linguaggio biblico che inizia una
nuova Creazione.
Siamo in questo primo giorno
della settimana. Ecco perché la domenica è il giorno della fede, il giorno dei
cristiani. È il giorno che ci dice che noi siamo già in tempi nuovi. Siamo in
quella Creazione nuova che la Resurrezione del Signore ha iniziato.
Noi siamo in cammino, come gli
Apostoli, per arrivare a vedere e credere: "E videro e credettero",
dice il Vangelo. Questo deve essere anche per tutti noi.
Questo cammino è certamente
molto diverso l'uno dall'altro. Perché vediamo Pietro che va lento e Giovanni
c'è questo termine, particolare, che dice "Il discepolo che Gesù amava".
In realtà non si parla proprio di Giovanni; probabilmente dietro questa
terminologia c'è indicato ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è "il
discepolo amato dal Signore", che deve fare questa esperienza, mettersi in
cammino e andare verso la tomba del Signore. In una tomba, quindi in un
luogo che parla di morte, in una tomba, quindi in un luogo che parla di morte,
in un luogo che contiene anche segni di morte. C'è un sudario, ci sono delle
bende, tipiche proprio di una sepoltura. Ma in presenza di questi segni e anche
di quel luogo che indica il termine ultimo del cammino dell'uomo, lì anche
sperimentare né non si ferma lì, che c'è un inizio nuovo. E credere perciò che
il Signore Gesù è il Signore della vita. E che noi, insieme con lui, siamo
chiamati a questa vita nuova.
Questo è il senso
della Pasqua. Questo è l'annuncio della Chiesa: "Lode a te, o
Cristo!".
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Sintesi dell'omelia svolta dal
parroco Remo Chiavarini durante la Messa
delle nove nella seconda domenica di Pasqua del 2020, il 19 aprile 2020,
celebrata senza la presenza fisica de popolo, a causa delle prescrizioni
sanitarie per la prevenzione della malattia Covid-19, ma trasmessa in diretta
sul canale YouTube della parrocchia e lì visualizzabile nuovamente.
Allora, come dicevamo,
siamo nell'Ottava di Pasqua, quegli otto giorni dopo in cui i discepoli e la
comunità Cristiana si riuniscono di nuovo. E, come vedete, c'è al centro
dell'attenzione, della nostra attenzione, una persona che si chiama Tommaso.
Oggi è la domenica di San Tommaso, possiamo dire. È una domenica che ha
tanti nomi. Il più antico è Domenica in Albis [Depositis. La
domenica in cui le persone che sono stare battezzare nella domenica di Pasqua
terminano di indossare vesti bianche che indossavano dal giorno del
Battesimo, le depongono].Poi c'è Domenica della
Misericordia, recentemente così chiamata su suggerimento del Papa Giovanni
Paolo 2^. Oppure la Domenica di Tommaso, perché in questo Vangelo,
che si legge sempre in questa domenica, c'è questa persona che ci rappresenta
tanto, e che rappresenta un pochino tutta la Chiesa. Perché lui fa un percorso
che è quello che ogni discepolo del Signore, e la comunità cristiana,
deve fare lungo la storia, e in modo particolare in questo Tempo di Pasqua.
Qual è il significato di
questo Tempo di Pasqua, di questi cinquanta giorni che vanno dalla Pasqua alla
Pentecoste? È proprio quello: rendersi sempre più convinti, fare l'esperienza,
che c'è il Signore, che il Signore risorto è presente in mezzo a noi. Quindi
non essere più incredulo ma credente. È il cammino della fede. E noi lo
facciamo con l'aiuto della Parola di Dio.
Che cosa ci dice questo
Vangelo? Ci dice che: le porte erano chiuse, c'era paura, lo shock era stato
grande, la crocifissione del Signore non era stata una passeggiata.
Quindi c'è paura, ci sono i segni della morte intorno che prevalgono. Ma sono
riuniti i discepoli. E, la cosa straordinaria: Gesù viene. Sta in mezzo,
addirittura dice, con una frase piuttosto forte, il Vangelo. È questo è quel
grande compito dello Spirito, lo Spirito Santo che compare, anzi comincia a
comparire come dono, questo è quello che lo Spirito Santo realizza: rendere
presente Gesù in mezzo
alla comunità. È quello che fa
oggi e farà sempre. Lo Spirito Santo rende presente Gesù, che si fa capire
essere vivo, nonostante, ecco l'altra caratteristica, porti ancora i segni
della morte del suo corpo. Perché Tommaso gli dice "Se io non metto le mie
dita nella piaga" -soprattutto nella piaga del costato, quella che rendeva
chiaramente presente la morte nel corpo di Gesù, perché era la piaga che
arrivava al cuore, che aveva squarciato il cuore - "io non credo!". È
lì, ecco la cosa incredibile e straordinaria, Gesù apre le sue piaghe e dice
"Io porto dentro di me, nel mio corpo la piaga aperta, il segno della
morte, e la porterò per sempre, tutta la storia sarà una storia in cui i segni
della morte sono presenti, ma nonostante questi segni però io sono il
vivente.
Ecco qua il grande ostacolo
per la fede, di Tommaso e di ciascuno di noi. Capire che, nonostante i segni
della presenza della morte, c'è Gesù che è vivo.
Come fa Tommaso a fare questo
passo? C'è lo dice il Vangelo stesso quando dice che Tommaso era
insieme con gli altri discepoli. Non dice "Voi siete degli illusi, per
cui io vado per conto mio". Ritorna e, quando sono insieme, Gesù si
ripresenta.
Ecco qua allora il senso
della nostra riunione domenicale: nel giorno di domenica la Chiesa si riunisce,
riunisce i suoi discepoli, i discepoli del Signore, non tutti con una fede
forte, anzi molti con dei grossi dubbi, con delle grosse difficoltà di credere:
ma nonostante tutto sono presenti. E piano piano Gesù a tutti fa fare questo
cammino. Questo cammino che li porterà a rendersi conto che il Signore è
realmente risorto.
E allora, con grande
nostalgia noi celebriamo questa domenica ancora divisi, in attesa di ritrovarci
insieme. perché abbiamo bisogno tutti di fare questo cammino.
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Sintesi dell’omelia pronunciata
dal parroco Remo Chiavarini durante la
messa della 3° Domenica del Tempo di pasqua, il 26 Aprile 2020, celebrata
nella chiesa parrocchiale senza la presenza del popolo, per le misure di
prevenzione sanitaria in corso di epidemia di Covid-19, ma teletrasmessa
mediante Youtube.
Come domenica scorsa
ci ha fatto compagnia Tommaso, così questa domenica, 3°
del Tempo pasquale, possiamo dire che ci fanno compagnia questi due discepoli ,
che scendono da Gerusalemme verso Emmaus. Il giorno è sempre
quello: quel primo giorno della settimana, giorno di grandi annunci, di grandi
incontri.
E, come Tommaso
rappresentava tutti noi, è la figura del discepolo che è chiamato a fare un
cammino per riconoscere che Gesù è il vivente, anche i
discepoli di Emmaus ci rappresentano, perché anche noi dobbiamo fare
questo cammino.
Il primo tratto è quello di
ritornare ciascuno alla propria casa, dopo aver vissuto un’esperienza che
poteva essere molto promettente, molto coinvolgente, ma che ormai era finita, i
verbi che utilizzano nel loro linguaggio sono ormai al passato:
soprattutto speravamo è il verbo sintomatico.
Vanno ad Emmaus. Anche lì,
vedete, Emmaus è un grande rebus, nella geografia evangelica,
biblica, perché sia gli archeologi che gli esegeti sono alla ricerca di questo
luogo, e in Terra Santa, come sa chi qualche volta c’è andato, ci sono tanti
luoghi che vogliono essere la Emmaus del Vangelo. Probabilmente non c’è una
Emmaus fisica, perché ognuno ha la sua Emmaus, possiamo dire, cioè il luogo
dove è chiamato, e soprattutto a riconoscere il Signore.
Quindi ciascuno di noi ritorna,
con un cuore un pochino disilluso, e rientra nella sua casa, a volte con
lo stesso atteggiamento del chiudere le porte, si fa sera, e ormai tutto
è finito, non c’è più, possiamo dire, possibilità di
futuro.
Ma succede un fatto, che è
molto interessante e il Vangelo lo esplicita bene. C’è l’invito: «Rimani con
noi!». Quindi si apre la nostra casa, la nostra vita, a uno straniero, uno
sconosciuto, e con lui anche si condivide la cena. E la cosa interessante è
che, mentre spezzano il pane, i loro occhi si aprono.
Ecco qua allora che cosa ci
dice il Vangelo. Per riconoscere Gesù bisogna fare questo passo: spezzare
il pane, che ha un significato grande. Certamente nel Vangelo quello
spezzare il pane è il gesto dell’Eurcaristia, Gesù prese il pane e lo spezzò,
per cui è nell’Eucaristia domenicale che si aprono i nostri occhi,
e siamo chiamati a riconoscere la presenza del Signore. Ma lo spezzare il pane,
anche umanamente, significa condividere, non rinchiuderci in noi
stessi, saper entrare in questa com-pagnia, che come sapete
significa spezzare e mangiare lo stesso pane. E allora lì
si aprono gli occhi e non c’è più bisogno di vederlo fisicamente il
Signore, perché si capisce che il Signore c’è. E riprende il coraggio,
la forza, e [quei discepoli] sono capaci, nonostante il buio, di riprendere
il cammino e di ritornare a Gerusalemme.
Anche noi abbiamo bisogno
di riprendere un cammino, di riprendere forza. Come possiamo farlo?
Secondo quello che ci dice il Vangelo. Se sappiamo condividere, spezzare il
pane insieme, allora i nostri occhi si aprono, e riconosciamo
che Gesù è sempre stato con noi, anche quando non lo percepivamo,
anche quando ci diceva che, lui il Messia, doveva soffrire.
Quindi possiamo dire: era necessario passare attraverso la prova, la
sofferenza, che non era fine a se stessa, ma era in preparazione di
qualcosa di più grande.
Allora [quei discepoli] non
hanno più paura e riprendono il cammino.
E’ quello che ci
auguriamo anche noi. Lo chiediamo al Signore: di saperlo
riconoscere, attraverso la nostra condivisione, in mezzo a
noi e riprendere con forza e
con entusiasmo il cammino che la vita ci presenta davanti.
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Sintesi dell’omelia svolta dal
parroco, Remo Chiavarini, durante la
messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 3 maggio 2020, 4°
Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di
prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione
mediante il network Youtube.
È sempre molto bello
ascoltare questo brano del Vangelo, che è preso dal capitolo 10° del Vangelo di
Giovanni. Nel lungo discorso in cui Gesù, prende l’immagine del pastore, che
era molto viva, presente, nella mente, negli occhi, di chi lo ascoltava in
Palestina, duemila anni fa, ma anche di tutti coloro che conoscevano bene la
Bibbia, perché l’immagine del pastore attraversa un po’ tutta la letteratura
biblica. Non per niente abbiamo pregato, dopo la prima lettura, tratta dagli
Atti degli apostoli, con le parole del salmo 22, «Il Signore è il mio
pastore…», che è uno dei salmi che forse conosciamo di più, molto bello, «Se
anche dovessi passare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu
sei con me». Quindi l’immagine del pastore è molto presente.
Oggi in Israele è sempre
più difficile vedere questi pastori, queste greggi, forse trent’anni fa era più
facile. Però basta andare in Giordania, in Siria, che ancora si vedono queste
immagini.
Ma che cosa ci vuol dire
Gesù?
Gesù ci vuol dire questo:
bisogna stare attenti a chi seguire. Perché ci sono tanti pastori. Pastori, voi
lo capite benissimo, sono quelli che guidano. C’è la porta, dice Gesù, che fa
entrare e fa uscire. Poi in questo brano del Vangelo Gesù stesso dice «Io cammino
davanti a loro, faccio uscire le mie pecore e le porto al pascolo». E
le pecore lo seguono. Ecco è importante capire chi seguire.
Perché?
Perché non sempre il
pastore che si segue è un pastore che veramente si prende cura delle sue
pecore, e si interessa che le pecore arrivino a dei pascoli dove c’è del buon
cibo, a delle fonti dove ci sia dell’acqua veramente buona. In giro per il
mondo, da sempre, il cibo non è sempre adatto – naturalmente voi capite
che cibo significa tante cose -, non sempre le fonti che noi
incontriamo danno veramente acqua della vita, a volte sono anche
fonti avvelenate.
Noi sappiamo sempre –
ma anche oggi, basta guardare, aprire la televisione -, quanti si propongono
come pastori, come coloro che hanno la ricetta magica, coloro che conoscono il
segreto per risolvere i problemi, e naturalmente invitano ad essere seguiti.
Molti vanno loro dietro. Poi purtroppo si capisce che queste persone che
si propongono come guide, come pastori, il più delle volte deludono, e alcune
volte si capisce che hanno ben altre intenzioni che fare il bene del popolo,
delle pecore.
Gesù ci dice: «Io
sono il Buon Pastore: il Buon Pastore perché voglio che voi abbiate la vita, e
non soltanto la vita, ma che questa vita sia abbondante, sia bella». Perché
non basta vivere, bisogna anche vivere bene, vivere una bella vita.
Una bella vita la si vive
quando si è in pace con se stessi, si è in pace con gli altri, si capisce il
senso delle cose che si affrontano, anche delle difficoltà che si devono
affrontare e superare.
Questo è quello che
Gesù ci propone. Lui è il Bel Pastore, il Buon
Pastore, vuole che anche noi abbiamo una bella vita.
E allora chiediamo al
Signore di essere furbi, di non andar dietro a tutte le lusinghe
varie che ci vengono, ma di avere il fiuto della pecora
saggia, pecore sagge, non pecore matte come
direbbe anche Dante (* vedi sotto), che vanno dietro a tutti; di saper capire
chi ha veramente parole di vita, e di vita piena.
Anche noi, insieme
con gli apostoli, i quali ad un certo punto, in un certo momento della
loro vita, si trovarono a dover scegliere e dissero al Signore «Signore, tu
solo hai parole di vita eterna», quindi tu solo sei colui che vale la pena
di seguire.
(*) citazione da:
Dante Alighieri, Divina Commedia,
Paradiso, canto 5°:
«Avete il novo
e l’l vecchio Testamento, / e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi
basti a vostro salvamento. / Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini
siate, e non pecore matte,…»
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Sintesi dell’omelia svolta dal
parroco, Remo Chiavarini, durante la
messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 10 maggio 2020, 5°
Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di
prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione
mediante il network Youtube.
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Vangelo
Io sono la via, la
verità e la vita.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi
discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede
anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai
detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un
posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche
voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore,
non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io
sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di
me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo
conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e
ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire:
Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le
parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me,
compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non
altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi
crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più
grandi di queste, perché io vado al Padre».
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Questo brano del Vangelo
sembra un po’ complicato. E potrebbe anche esserlo, perché le cose che ci
trasmette sono talmente tante, e sono talmente fondamentali, che potrebbero
anche lasciarci smarriti.
Ma una delle cose che
poi scopriamo, a mano a mano che si va avanti, e che in questa fede,
che sembra così complicata per le cose che ci dice e che dobbiamo credere, poi
alla fine, quando le abbiamo comprese bene, tutto si semplifica e
diventa molto semplice, molto essenziale.
Così quello che oggi il
Signore ci vuol dire è un discorso molto colloquiale, usa delle immagini che ci
sono molto care. Per esempio all’inizio si parla di un turbamento. Turbamento è
una parola che ci parla di paura, di smarrimento, di difficoltà a stare con i
piedi per terra, con serenità.
La paura è qualcosa di molto
presente nella nostra vita.
Teniamo conto che Gesù
parla alla vigilia della Passione, del tradimento, della Crocifissione. In quei
giorni terribili che sicuramente non devono essere stati semplici. Per lui
chiaramente, ma neanche per chi gli stava vicino, per i suoi discepoli, per il
suo ambiente: erano cose talmente truci, talmente grandi, che sconvolgevano la
mente anche di persone molto solide, abituate a tutto, come Pietro e come tanti
altri. Qualcosa di grosso. E quindi Gesù in quel discorso al Cenacolo, in quell’Ultima
Cena, prepara i discepoli e dice «Ci sarà un turbamento, ci sarà una paura
che vi prenderà».
La parola paura, turbamento,
timore è una delle parole che ricorre più spesso nella Bibbia.
Qualcuno sembra che si sia messo a contare quante volte c’è e addirittura la
cosa sorprendente è che, ricorre per ben – mi pare – 365 volte: un numero che
ci fa subito accendere una lampadina, perché sono tali i giorni dell’anno. In
tutta la Bibbia per ben 365 volte c’è proprio questa frase “Non temere! Non
avere paura!”. Perché probabilmente si sa che è un sentimento con cui
dobbiamo convivere. Un sentimento anche salutare: guai a chi non ha paura di
niente, perché è pericoloso! Rischia di fare passi falsi. Però neanche dobbiamo
rimanere prigionieri di questo sentimento. E come si fa a non esserlo? Gesù ci
dice: «Abbiate fede! Abbiate fede in Dio, abbiate anche fede in me». La
fede, il credere, dice Gesù, «Credete in me, credete nel
Padre che mi ha mandato», è la medicina per superare lo smarrimento, il
turbamento, la paura. E io credo che questa Parola, sempre ma anche in questi
giorni, in questo momento, ci arriva proprio diritta al cuore. E l’accogliamo
ben volentieri! E chiediamo al Signore che penetri in noi, che aumenti la
nostra fede in lui, quella fede che ci fa credere che realmente lui è la
presenza dell’amore di Dio. «Chi ha visto me, ha visto il Padre»: perché
poi Gesù ci dice proprio questo: il Padre, questo termine che lui usa sempre
per indicare Dio – questo termine molto bello -, è in lui e, attraverso di lui,
arriva fino a noi, e compie delle opere grandi, che vedremo. Poi la cosa
incredibile - tra le tante che possiamo prendere da questo brano – è
quella che c’è quasi verso la fine: «Colui che crede in me compirà cose più
grandi di quelle fatte da me». Naturalmente non le compie
lui, ma le compie il Padre attraverso di lui - quindi attraverso di
noi!-. Perché, in fondo, Gesù è venuto per questo, per portarci la vita del
Padre. Questa vita che in Gesù, nella sua umanità, ha compiuto cose straordinarie,
ma poi, se il Vangelo è vero, come è vero, questa vita che entra in
noi compirà attraverso di noi cose più grandi ancora. Che
questo sia vero, lo possiamo dire anche tenendo conto che Gesù è sempre stato
in Palestina, ha predicato a qualche centinaio, qualche migliaio di persone, ma
poi i suoi discepoli sono usciti dalla Palestina, e oggi parlano a tutto il
mondo. La Chiesa parla di Dio con forza, con coraggio, senza paura, a tutta
l’umanità. Compie cose più grandi di quelle fatte da Gesù, da questo punto di
vista.
Gesù partecipa della
vita del Padre e questa vita poi l’ha trasmessa a noi, e la
trasmette a noi ancora!, e ci dà la forza per portare avanti queste opere del
Padre. Come ce la trasmette? Ce la trasmette attraverso i sacramenti.
Per esempio il sacramento
dell’Eucaristia. Perché ci manca tanto, in questo tempo? Nel
quale non vediamo l’ora di poter celebrare pienamente l’Eucaristia,
di poter ricevere la Comunione. Perché, anche se non lo comprendiamo fino in
fondo, sappiamo che attraverso i sacramenti, attraverso quel pane e quel vino,
che sono il Corpo e il Sangue del Signore, ci arriva la vita di Dio. Arriva lo
Spirito, che entrando in noi ci dà la possibilità di essere vivi e ci dà la
possibilità di compiere le opere che il Signore vuole che noi compiamo.
Per finire:
un’immagine. Una delle cose che abbiamo capito che questo maledetto virus fa, è
che ad un certo punto blocca i polmoni. E diviene quindi impossibile ai polmoni
ossigenare il sangue. L’ossigeno che ci arriva attraverso il respiro entra nel
sangue e poi, attraverso il sangue, arriva a tutte le cellule del corpo, che
sono vive, perciò possono portare avanti al vita. Se non c’è questo, se non c’è
questo ossigeno, che attraverso il sangue arriva a tutte le nostre cellule, non
c’è vita.
Vedete, come ci arriva
l’ossigeno di Dio, il suo Spirito? Attraverso il sangue di Gesù, che
entra in noi e, mediante la sua presenza, porta lo Spirito, la vita,
l’ossigeno, a tutta la nostra esistenza, e ci permette di essere
vivi e perciò operanti.
Ecco perché abbiamo bisogno
della celebrazione dell’Eucaristia. Ecco perché la desideriamo tanto. Ecco
perché ringraziamo Dio se ci dà la possibilità di poter celebrare e di poterci
ritrovare insieme. Perché dobbiamo fare cose grandi. Noi siamo
fatti per cose grandi, non per piccole cose. Il Signore ci ha dato un compito
incredibile, addirittura ci ha detto “Voi farete cose più grandi di quelle
fatte da me”. Questo è il nostro sacerdozio, che abbiamo ricevuto nel
Battesimo tutti e che dobbiamo esercitare per rendere gloria a Dio.
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Sintesi dell’omelia svolta dal
parroco, Remo Chiavarini, durante la
messa delle nove celebrata nella chiesa parrocchiale, il 17 maggio 2020, 6°
Domenica del Tempo di Pasqua, senza la presenza del popolo, per le misure di
prevenzione del contagio della malattia Covid-19, ma diffusa in televisione
mediante il network Youtube.
°°°
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 14,15-21
In quel tempo, Gesù disse ai suoi
discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il
Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo
Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo
conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non
vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più;
voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete
che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei
comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal
Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Parola del Signore
°°°
E’ una domenica particolare
questa, sesta del Tempo di Pasqua, perché comincia a comparire nella Scrittura
che abbiamo ascoltato, in modo particolare con il Vangelo, nonché nel brano
degli Atti degli apostoli, un personaggio - chiamiamolo così -
che sarà sempre più centrale nelle prossime domeniche.
E chi è
questo personaggio?
Ecco vediamo subito
… dice così: «Io pregherò il Padre ed egli vi dar un altro Paraclito».
Poi dice: «Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché
non lo vede e non lo conosce, voi lo conoscete.»
Quindi comincia a entrare in
gioco questo Spirito, questo Paràclito. E già noi
sappiamo, perché siamo un pochino smaliziati!, che siamo proiettati alla Pentecoste,
al culmine, al termine, alla conclusione, al frutto maturo, di tutto questo
lungo periodo che ha avuto la Pasqua come cuore, come centro, ma ha
avuto tutta la preparazione della Quaresima, e poi a questo sviluppo che porta
- come dire? - a questo frutto maturo che è il dono
dello Spirito. Questo Paràclito che ci viene donato, che - impareremo a capirlo
- è il modo in cui Dio si rende presente - possiamo dire - nella vita, nella
concretezza, nel cuore delle persone, di coloro che, attraverso la fede, hanno
aperto la loro vita a questo Dio che si vuole donare.
Quindi iniziamo
idealmente questa novena che ci porterà a Pentecoste, alla conclusione del
Tempo di Pasqua.
Il tempo corre veloce,
anche questo tempo che abbiamo vissuto quest’anno in maniera del tutto
particolare. Con una Pasqua inedita, possiamo dire, da un certo
punto di vista, almeno come celebrazione.
Ma la liturgia, con i suoi
ritmi, ci accompagna, ci fa capire che andiamo verso questa conclusione, questa
maturazione.
Noi vogliamo chiedere
veramente al Signore di non perdere questo ritmo, ma, anche in questo modo
inedito, di vivere bene questa Pasqua di questo anno unico e particolare, che
la Provvidenza ci ha dato da vivere.
Perché è il dono dello
Spirito che dobbiamo accogliere dentro di noi, perché è quel dono che ci rende
figli di Dio veramente, che crea in noi quell’immagine che il Padre vuole che
si configuri e che si disegni in maniera perfetta - possiamo dire -
, in maniera tale che ciascuno di noi possa essere figlio nel
Figlio.
Quando il Padre Dio ci
guarda possa vedere in noi l’immagine del Figlio, di Gesù. E questo è opera
dello Spirito, che è il vero dono dell’Incarnazione, il vero dono della
Passione e il vero dono della Resurrezione del Signore.
E quindi, con questo
atteggiamento, camminiamo verso questa pienezza del Tempo Pasquale, che ci
attende, ormai tra due settimane, quando celebreremo la Pentecoste. Domenica
prossima ci sarà la celebrazione dell’Ascensione e capiremo anche il messaggio
che ci viene dato dalla Parola di Dio, dalla Liturgia, e celebreremo la festa
dell’Ascensione finalmente di nuovo insieme, intorno all’altare del
Signore! [Camminiamo] con queste parole molto belle che
il Vangelo ci lascia, «Non vi lascerò orfani» - ricordiamo
sempre che siamo ancora nel Cenacolo, proprio alla vigilia della Passione del
Signore ed è Gesù che parla, e apre il suo cuore e ci dice che
rimane con noi, che vuole rimanere con noi, lui pregherà e ci sarà donato
questo Paràclito, questo avvocato difensore, questa vita nuova, che non ci
abbandonerà più-. E poi c’è questa comunione grande: «Chi ama me, sarà amato
dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui». Il grande
comandamento dell’amore, che sempre ritorna al centro della predicazione del
Signore.
Dopo la Preghiera dei
fedeli
Dio grande e misericordioso che
nel Signore risorto riporti l’umanità alla speranza eterna, accresci in noi l’efficacia
del mistero pasquale, con la forza di questo sacramento di salvezza, per Cristo
nostro Signore!
E così, come ci siamo
detti, siamo in questo tempo particolare che ci porterà alla Pentecoste,
passando domenica prossima per la festa dell’Ascensione, alla conclusione di
questo bellissimo Tempo di Pasqua.
Possiamo dire che viviamo
questo tempo, nelle ultime due settimane del mese di maggio, come una grande
Novena in preparazione alla Pentecoste, per ricevere il dono dello Spirito, che
è il vero frutto maturo della Passione, delle Resurrezione del Signore, perché
tutto porta lì. Porta al fatto che Dio vuole rimanere in noi, nella nostra
vita. Vuole vivere con noi e questo è opera dello Spirito. Quindi viviamo
questi quindici giorni con questa invocazione particolare: «Vieni Santo
Spirito! Vieni in ciascuno di noi! Vieni sulla tua Chiesa! Vieni nel
mondo intero!». Perché c’è bisogno che lo spirito rinnovi e faccia
nuova la faccia della Terra, la faccia della Chiesa, la faccia
di ciascuno di noi, possiamo dire. Ciascuno si deve rinnovare attraverso questo
dono.
Ci saranno degli
appuntamenti importanti.
Domenica prossima ci
sarà il diaconato di Salvatore, in questa chiesa, nel pomeriggio, nella
celebrazione del pomeriggio. E, in vista dell’ordinazione di domenica, giovedì
prossimo, alle 20:30, faremo una veglia di preghiera.
Ci sarà da domani, di
nuovo, la possibilità di partecipare all’Eucaristia. Quindi si ritorna
normalmente all’orario di sempre, nei giorni feriali alle nove del mattino e
alle sette del pomeriggio, e poi, da sabato e domenica, nell’orario normale di
ogni domenica [agli orari soliti], con la partecipazione anche della gente, con
ancora delle regole un po’ particolari, ma poi di volta in volta ci sarà detto
come poter partecipare.
Che il Signore ci aiuti a
vivere bene queste norme, come abbiamo sempre fatto finora. Ci hanno permesso
di camminare sulla strada che ci porterà fuori da questo tempo
particolare, che la Provvidenza ha voluto che noi vivessimo. Come
tutti i tempi, come in tutte le cose, ci saranno dei messaggi dietro, che vanno
anche compresi, capiti. Il Signore che cosa ci ha voluto dire, ci vuol dire,
attraverso questa pandemia?
Detto questo
invochiamo il dono della benedizione di Dio per vivere bene anche questo tempo
che ci attende, che sia un tempo di grazia, un tempo nel quale si manifesta
l’amore del Signore. E noi siamo pronti ad accogliere questo amore e a
leggere i segni dei tempi. Perché il Signore
parla, sempre, e sta a noi capire questo linguaggio, e decifrarlo.
Prima della benedizione finale
Da domani la celebrazione
delle messe riprenderà negli orari consueti, con la partecipazione anche della
gente.
Non sia semplicemente
un ritorno ad una consuetudine, ma sia una ripartenza vera, che ci trovi desiderosi
di ripartire con un nuovo entusiasmo, per rimettere veramente al
centro questo appuntamento con il Signore, nella sua Eucaristia, non soltanto
per la nostra comunità parrocchiale, ma per tutte quelle comunità sparse nel
mondo.
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