MARIO DELPINI
ARCIVESCOVO DI MILANO
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La potenza della sua RESURREZIONE (Fil 3,10)
[Voglio solo conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione. Voglio
soffrire e morire in comunione con lui]
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Messaggio di speranza per questa Pasqua 2020
Carissimi, avevamo immaginato un’altra Pasqua e anche quanto ho scritto
per il tempo pasquale proponeva attenzioni più consuete. Mi sembra giusto
riproporre lo stesso testo inserito nella proposta pastorale La situazione è
occasione, anche se si rivela fuori contesto. Desidero però accompagnarlo
condividendo qualche riflessione per vivere la Pasqua di quest’anno, segnata
dal drammatico impatto dell’epidemia e da tante forme di testimonianza di fede,
di speranza, di generosità, e da tante forme di angoscia, di paura, di
smarrimento.
Non pensavamo che la morte fosse così vicina
Noi, vivi, sani, impegnati in molte cose siamo abituati a pensare alla morte
come a un evento così lontano, così estraneo, così riservato ad altri: ci
sembra persino un’espressione di cattivo gusto quando si insinua l’idea che
possa riguardare anche noi, e proprio adesso. Io non so quante siano le persone
che muoiono a Milano nei tempi “normali”. Adesso però i numeri impressionano,
anche perché tra quei numeri c’è sempre qualcuno che conosco. La morte è
diventata vicina, interessa le persone che mi sono care, i confratelli, le
presenze quotidiane negli ambienti del lavoro, del riposo. Ogni volta che si
parla di un ricovero, ogni volta che si dice: «Si è aggravato» si è subito
indotti a pensare che l’esito sia fatale, tanto la morte è vicina, visita ogni
parte della città e del Paese. E ogni volta che si avverte un malessere, una
tosse che non guarisce, un brivido di paura e di smarrimento percorre la
schiena. La morte vicina suscita domande che sono più ferite che questioni da
discutere.
I conti aperti, i lavori incompiuti, gli
affetti sospesi insinuano una specie di terrore: «Sì, lo so che viene la morte,
ma non adesso, per favore! Non adesso, ti prego; non adesso!». Ma si intuisce
che non basta avere un compito da svolgere per convincere la morte a passare
oltre il numero civico di casa mia. La morte è così vicina e non ci pensavamo.
Rivolgerò più spesso lo sguardo al crocifisso appeso in sala e con più intenso
pensiero.
Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del
Signore risorto
La città secolare da tempo
ha decretato l’assenza di Dio o, quanto meno, la sua esclusione dalla vita
pubblica; ma per i devoti la presenza di Dio nella vita e nella città era una
sorta di ovvietà. In ogni situazione era spontaneo riconoscere la presenza
reale nell’eucaristia, l’origine di ogni male e di ogni bene dalla volontà di
Dio, la conferma della sua provvidenza, l’aspettativa della sua giustizia nel
premio e nel castigo.
In questo tempo è molto cambiato l’atteggiamento verso il religioso: ne
è nata una qualche nostalgia per chi non ci pensava più e persino quelli che
non sanno dove siano le chiese si sono interessati per sapere se siano aperte o
chiuse. Per i devoti però quello che era ovvio è diventato problematico.
L’antica domanda che mette alla prova il Signore è rinata spontanea: «Il
Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). C’è un bisogno di segni che lo
dimostrino, un’invocazione di esposizioni, processioni, consacrazioni: dicono
un desiderio sincero di essere confermati nella fede da una evidenza, da un
intervento incontrovertibile. I segni della presenza del Risorto, cioè le
ferite subite per la sua fedeltà nell’amore, risultano inadeguati all’attesa di
una benedizione, di una protezione che dovrebbe mettere al sicuro i suoi
fedeli. L’esito è che suonano stonate le certezze della città secolare che si
costruiva orgogliosa e vincente a prescindere da Dio. E risultano più fragili
le certezze dei devoti che devono constatare che «vi è una sorte unica per
tutti: per il giusto e per il malvagio» (Qo 9,2).
«Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?» (Qo
2,15). Non pensavamo che fosse così difficile riconoscere la presenza del
Risorto, riconoscere la sua potenza che salva per vie che le aspettative umane
non possono prescrivere, lasciarsi avvolgere dalla sua gloria, così diversa da
come la immaginano gli umani. Siamo chiamati a entrare con fede più semplice e
più sapiente nella promessa di Gesù: «In verità, in verità io vi dico: chi
crede ha la vita eterna» (Gv 6,47), per capire meglio la rivelazione: «Questa è
la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato,
Gesù Cristo» (Gv 17,3).
Non pensavamo che fosse così necessario celebrare insieme i santi
misteri
“Andare a messa”, il rito della domenica, è
sembrato per decenni una buona abitudine facoltativa, dopo la fine di un
cristianesimo governato da precetti e minacce. Una buona abitudine da riservare
a qualche festa solenne, a qualche rito di famiglia, a qualche domenica insieme
per accontentare il bambino. Una buona abitudine in concorrenza con altre: la
visita alla nonna, il corso di sci, le occasioni del centro commerciale, le
partite di campionato. Il richiamo della nonna o del papà: «Sei andato a
messa?» è, tutto sommato, un fastidio sopportabile, inefficace e, in sostanza,
rassegnato. Nelle discussioni in classe o in ufficio sembra quasi un segno di
maturità e di spirito critico professare: «Sì, sono credente, ma a modo mio,
penso con la mia testa; sì credente e non praticante». Quando le celebrazioni
sono state impedite, quando sono state sostituite da trasmissioni televisive,
quando ogni prete ha dovuto inventarsi un qualche modo virtuale per entrare
nelle case, per far sentire un segno di prossimità e di premura pastorale,
quando catechisti e catechiste, educatori e ministri straordinari hanno
raggiunto i “loro ragazzi”, i “loro malati” tramite il cellulare, i credenti
hanno percepito che mancava la cosa più importante. Sì, sono gradite la
premura, la parola buona, la frase del Vangelo; sì, aiuta la proposta di non
perdere tempo, di rendersi utili in casa e dove si può. Sì, tutto vero. Ma
trovarsi per la celebrazione della messa, cantare, pregare, stringere le mani
amiche nel segno della pace, ricevere la comunione è tutt’altro. Di questo
sentiamo la mancanza. Quando abbiamo fame, non potremo mai sfamarci guardando
una fotografia del pane. Quando siamo sospesi sull’abisso del nulla,
l’espressione intelligente “credente ma a modo mio, credente ma non praticante”
suona ridicola, un divertimento da salotto, impropria là dove per attraversare
la tempesta abbiamo bisogno di una presenza affidabile, di un abbraccio, di una
comunione reale con Gesù, per essere nella vita di Dio. Niente di meno. Poter
“andare a messa” sarebbe il segno che è tornata la normalità non solo nella
libertà di movimento, ma nella convinzione che non si tratta di buone
abitudini, ma di una questione di vita e di morte. Il pane della vita non è
infatti una bella frase, ma la rivelazione che senza Gesù non possiamo fare
niente: le buone idee, la buona educazione, i buoni propositi sono tutte cose
importanti. Ma abbiamo bisogno di una parola che illumini il nostro passo, di
un credere che sia vivere della relazione decisiva con Dio, di uno spezzare il
pane della vita per non morire in eterno. Abbiamo bisogno di diventare un solo
corpo e un solo spirito spezzando l’unico pane. Se in questo tempo abbiamo
provato l’emozione di pregare insieme in casa, abbiamo imparato che è
possibile, che unisce, che non esaurisce il desiderio di incontrare il Signore
e anzi fa crescere il desiderio di “andare a messa”. Si deve raccomandare che
nella “chiesa domestica” si conservino sempre i riti della preghiera e che il ritrovarsi
in casa aiuti a sentirsi parte della grande Chiesa che ci raduna da tutte le
genti.
Non pensavamo che fosse così necessaria la resurrezione per la nostra
speranza
Nel linguaggio comune la speranza
si è banalizzata a significare un’aspettativa fondata su previsioni più o meno
attendibili, di cui si è, però, sentito parlare da qualche titolo sbirciato
sfogliando pagine web. «Speriamo che domani sia bel tempo; speriamo che piova al
momento giusto e che la vendemmia sia abbondante; speriamo di vincere il
concorso e chiudere il contratto…» Anzi, di speranza è meglio che parlino i
poveracci. Le persone serie elaborano progetti, confrontano risorse, mettono in
bilancio anche la voce imprevisti, perché è ragionevole aver tutto sotto
controllo. Si danno da fare, non si aspettano niente da nessuno, sono convinte
che se vuoi qualche cosa devi conquistartelo. Anche le persone serie dicono
talvolta «Speriamo» e incrociano le dita: è più una scaramanzia che una
speranza. Ma quando irrompe il nemico che blocca tutto, che paralizza la città,
che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze
vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice
della Borsa. La percezione del pericolo estremo costringe a una visione diversa
delle cose e a una verifica più drammatica di quello che possiamo sperare.
Nella vita cristiana rassicurata dalla buona salute, da un certo benessere,
dalla “solita storia” i temi più importanti sono le raccomandazioni di opere
buone, di buoni sentimenti, di fedeltà agli impegni, di pensieri ortodossi. Ma
quando si intuisce che qualcuno in casa deve affrontare il pericolo estremo,
allora l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la
morte. «Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione,
vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). «Ma se Cristo non è risorto, vana è
la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che
sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo
soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor
15,17-19).
Buona
Pasqua!
In conclusione desidero che giunga a tutti
l’augurio per la santa Pasqua di quest’anno. Siamo costretti a una celebrazione
che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni, festose, gloriose
alle quali siamo abituati.
La nostra Pasqua, vissuta più in
casa che in chiesa, è la cena secondo Giovanni: i suoi segni espressivi sono la
lavanda dei piedi, la rivelazione intensa agli amici dei pensieri più profondi,
la preghiera più accorata al Padre. La nostra Pasqua quest’anno rivive quella
sera: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le
porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù,
stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv 20,19). Incomincia così una
storia nuova. Perciò posso invitarvi ancora a orientare il nostro cammino di
Chiesa, con quanto ho scritto: «Siate
sempre lieti nel Signore!» (Fil 4,4). Lettera
per il tempo pasquale.*
Pace a voi! Buona Pasqua.
+ Mario Delpini Arcivescovo
Milano,
25 marzo 2020
* Testo estratto da Mario
Delpini, La situazione è occasione. Per
il progresso e la gioia della vostra fede, proposta pastorale per l’anno
2019-2020, che sarà distribuito con il quotidiano «Avvenire» domenica 12
aprile.