Parrocchia
comunitaria
Prendo spunto dall’articolo che incollo qui
sotto, pubblicato recentemente sull’Arborense,
il settimanale della diocesi sarda di Oristano, per alcune riflessioni
sull’esigenza di fare della parrocchia una realtà sociale comunitaria, con il
coinvolgimento di tutti nei suoi compiti, e sul radicamento della parrocchia su
un determinato territorio, e ciò alla
luce dell’esperienza maturata nella storia della nostra parrocchia.
1. L’articolo.
Scrive l’Arcivescovo, che fu a lungo professore
di antropologia teologica all’Università Lateranense, a Roma.
Nella Diocesi di Oristano i preti non sono sufficienti e, in più, tra
loro ve ne sono di molto anziani. Come coprire le tante parrocchie?
Ha scritto l’Arcivescovo, nella Lettera pastorale del
settembre dello scorso anno
“Il titolo di questa mia lettera pastorale ne
chiarisce subito l’oggetto: è un invito ai fedeli laici a vivere e operare da
cristiani “a tempo pieno”, nonché a dedicare all’annuncio e alla missione tutto
se stessi e non solo il proprio “tempo libero”. Infatti, quando in Diocesi
avevamo abbondanza di sacerdoti, questi erano presenti in tutte le parrocchie,
anche quelle più piccole, e operavano spesso in solitudine, mentre i fedeli
laici, per collaborare, potevano offrire solo una parte del loro tempo e delle loro
competenze. Ora che, in seguito alla mancanza di sacerdoti, in molte parrocchie
non ci sono più i sacerdoti residenti, si chiede ai fedeli laici un impegno non
occasionale ma a tempo indeterminato. Questa richiesta, di per sé, non è nuova.
Anche una delle decisioni principali del Sinodo
Diocesano sulla parrocchia, per esempio, ha richiesto la collaborazione e la
corresponsabilità di tutto il popolo di Dio, cioè dei sacerdoti e dei fedeli
laici, nelle forme che nel linguaggio comune sono chiamate “unità o comunità
pastorale”, e che dal nostro Sinodo sono state definite: “forme strutturali di
collaborazione ecclesiale”. La situazione attuale, quindi, impone che la
collaborazione dei fedeli laici non sia più considerata solo una supplenza per
la mancanza di sacerdoti, ma un impegno a tempo pieno, che comporta molta buona
volontà e molta dedizione. Talvolta, si ha la vaga impressione che in alcune
circostanze manchi questa buona volontà e che, sacerdoti e laici, nelle nostre parrocchie,
presi da scoraggiamento e rassegnazione, lavorino solo per garantire il minimo indispensabile
di assistenza spirituale, rinunciando a dedicare passione ed entusiasmo alla
ricerca di nuove vie di missione ed evangelizzazione.
Per chiarire la natura dell’impegno che viene richiesto
ai fedeli laici si può fare riferimento al mondo del lavoro e dell’occupazione,
dove si sottoscrivono dei contratti a tempo determinato e a tempo
indeterminato. Sappiamo come l’aspirazione dei giovani in cerca di lavoro sia
quella di avere un contratto a tempo indeterminato, ossia fisso, di modo che
essi possano investire sul futuro non solo con coraggio ma anche con fiducia.
Ebbene, per analogia, anche nella vita della Chiesa, ogni battezzato dovrebbe
assumere un impegno non a tempo determinato ma a tempo indeterminato.
In altri termini, nella stagione ecclesiale e
culturale che stiamo vivendo, è richiesto che ogni battezzato sia un cristiano
ad h. 24 e non solo a frequenza settimanale, nei giorni di domenica o di festa
di precetto”
Nell’articolo si ricordano quei concetti.
Evidentemente ci sono state delle resistenze culturali all’integrazione delle
parrocchie esistenti nelle nuove unità
pastorali.
Si ricorda che la
nota della Conferenza Episcopale Italiano del 2004 sulla parrocchia, Il
volto missionario delle parrocchie in un
mondo che cambia,
http://vocazioni.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/10/2016/07/Il-volto-missionario-delle-Parrocchie-in-un-mondo-che-cambia.pdf
attribuiva questi compiti alla parrocchia:
-essere il luogo di immediato
accesso alla Chiesa;
-svolgere il compito propriamente missionario del primo
annuncio e di nuova evangelizzazione;
-operare il rinnovamento in chiave catecumenale della
iniziazione cristiana;
-proporre una rinnovata catechesi di formazione degli
adulti;
-realizzare una articolazione della testimonianza della
carità in interazione con il territorio.
Nella nota si
chiede anche una sostanziosa
articolazione ministeriale delle
parrocchie, vale a dire la partecipazione dei laici h24 (come si dice ne gergo
dei servizi di emergenza) al lavoro nelle parrocchie.
Il modello oggi
dominante nelle parrocchie, osserva l’autore dell’articolo, è diverso e pone
l’accento sulla “cura pastorale” del parroco di una particolare popolazione
della Diocesi, identificata e circoscritta dai confini di un determinato territorio. E ciò per assicurare prevalentemente i
servizi pastorali: sacramenti, catechesi,
carità. In definitiva, scrive, “l’immagine prevalente è quella
d’un territorio pastorale, definito e strutturato secondo le
prescrizioni del diritto canonico, all’interno del quale il presbitero-parroco
celebra la Messa e amministra i sacramenti nella chiesa parrocchiale, tiene
l’ufficio della canonica, coordina la catechesi per l’iniziazione cristiana e i
ministri straordinari della comunione e, dove c’è, supervisione la carità
parrocchiale”.
Ma, ricorda
l’Arcivescovo, la
determinazione del territorio come costitutivo
della parrocchia è stata superata
dal Concilio Vaticano 2°. I saggi di
quel concilio scrissero, nella Costituzione
sulla liturgia “Il sacrosanto Concilio”:
“[…] poiché nella sua chiesa il Vescovo non può
presiedere personalmente sempre e ovunque l’intero suo gregge, deve
costituire necessariamente dei gruppi di
fedeli, tra cui hanno un posto preminente
le parrocchie organizzate localmente
e poste sotto la guida di un pastore che fa le veci del Vescovo”.
Posero quindi in
risalto la comunità ecclesiale piuttosto che il territorio e l’ufficio de
parroco.
Una parrocchia
concentrata sull’amministrazione dei sacramenti all’interno di un certo
territorio non assolve di per sé, si legge nell’articolo, la missione di una
comunità aperta ed evangelizzatrice.
E’ necessario,
quindi, un cambiamento di prospettiva, scrive l’Arcivescovo, su cui ha
insistito la teologia pastorale. E’ richiesto un rinnovamento missionario della
parrocchia, soprattutto mediante la riconsiderazione del ruolo dei laici nel compito della
missione e dell’evangelizzazione. Viene
ricordato che, secondo l’Esortazione apostolica I fedeli laici, diffusa nel
1988 dal papa Giovanni Paolo 2°
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_exhortations/documents/hf_jp-ii_exh_30121988_christifideles-laici.html
la parrocchia si rinnova
nella misura in cui il territorio è animato da una vita comunitaria reale.
E nel Codice di
diritto canonico (del 1983)la parrocchia viene definita come “una determinata comunità di fedeli che
viene costituita stabilmente nell’ambito di una chiesa particolare, e la cui
cura pastorale è affidata sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco
quale suo proprio pastore”.
L’accento, si conclude nell’articolo, è
quindi posto sul rapporto tra la fede di
una comunità, il Vescovo che ne è il garante, ed il parroco che ne è
l’animatore. La dimensione costitutiva del territorio, perciò, non è
abolita, si osserva, ma viene molto relativizzata.
2. Osservazioni
generali sulla base della nostra esperienza parrocchiale.
La situazione
romana è molto diversa da quella sarda. Qui a Roma abbiamo molti più preti, perché ne vengono da tutta Italia e da tutto il resto del mondo
a studiare nelle università pontificie e, nel tempo libero, lavorano nelle
parrocchie.
Ma il problema
del rinnovamento comunitario e del legame
con il territorio c’è anche da noi.
Siamo d’accordo
che il Vescovo costituisce
la parrocchia come comunità di fedeli all’interno della sua chiesa particolare?
Lo so, è scritto così. Ma
riflettiamoci un po’ sopra. E’ il Vescovo che costituisce la comunità parrocchiale o essa
preesiste (almeno nella situazione italiana) alla costituzione della parrocchia come ufficio ecclesiastico?
L’atto del Vescovo
di costituire la parrocchia c’è sicuramente ed esso è un
atto di tipo amministrativo, come quando si costituisce una Azienda sanitaria locale e le si assegna
un territorio. Lo scorso anno è stata ridenominata da “A” ad “1” la ASL che
serve il nostro quartiere e ne è stato modificato il territorio e, con esso, la
popolazione servita. Lo si è fatto con un atto amministrativo. Questo significa costituire un servizio.
E, certamente, all’origine di ogni parrocchia c’è un atto, diciamo,
burocratico di questo tipo.
Ma costituire una comunità è tutta un’altra faccenda.
Quando, nel 1956,
fu costituita la nostra parrocchia, come ufficio
ecclesiastico secondo le norme del diritto canonico, la comunità preesisteva e
poi si è molto ingrandita, ma preesisteva, c'era già prima.
E’ proprio per questo che la parrocchia fu costituita. All’epoca non la si pensava
ancora come comunità, si tratta di idee che hanno
preso piede solo qualche anno più tardi, ai tempi dell’ultimo Concilio. La si pensava come servizio ecclesiastico a una certa comunità che c'era già.
Quindi c’è un ufficio e c’è una comunità, ma quest’ultima preesiste,
e preesiste su un certo territorio. Il nostro quartiere, fin dalle origini, ha
avuto una certa caratterizzazione come società. Lo ha ricordato il sociologo
Bruno Bonomo nel libro che nel 2007 scrisse sul nostro quartiere, Il quartiere delle Valli - Costruire Roma
nel secondo dopoguerra, editore Franco Angeli, €21,00, ancora in commercio.
C’era una comunità e una comunità di fedeli: il Vescovo non ha mandato i suoi preti tra genti di altre
fedi religiose, ma tra gente della nostra fede.
Se io invece
decidessi di fondare una nuova sede locale di un movimento qui alle
Valli, allora effettivamente la costituirei come comunità, perché prima questa nuova
realtà sociale non ci sarebbe. La posso costituire qui alle Valli, ma perché non un
po’ più in là, ad esempio nella vicina chiesa degli Angeli Custodi, o in quella
di San Frumenzio? Vado dove l’ambiente è più favorevole. Mettiamo che in una
parrocchia mi mettano a disposizione una sala, in un’altra una sala e una
biblioteca, in un’altra addirittura tutta la parrocchia: allora porto gli amici miei,
con i quali costituisco questa nuova realtà sociale, dove ho più
spazio e più opportunità, lì dove posso avere tutta la parrocchia per noi. Che importa
dove vivono gli amici miei? Fanno un po’ di strada in più e si sta insieme dove
c’è più spazio. Mi possono obiettare che il posto dove vado era pensato per la
gente che vive in un certo territorio: e io allora potrei replicare che chi ragiona così è rimasto indietro e non pensa in termini
comunitari. La parrocchia è di chi ci va. Così, appunto, mi veniva risposto, fino all'inizio del nuovo corso da noi, nell'ottobre 2015, quando facevo quell'osservazione.
E’ chiaro che
questa non è la situazione di Oristano: è la nostra. A Oristano ci sono piccole comunità preesistenti che vorrebbero continuare ad avere un prete tutto per loro e alle quali si risponde che non è più possibile, per cui devono darsi da fare da loro stesse.
Potremmo dire che l’abitare vicini è un elemento importante per una parrocchia?
Perché, in definitiva, l’etimologia greca della parola parrocchia, vale a dire la
sua origine nella lingua greca antica, richiama proprio questa idea, dell’abitare vicini: deriva infatti dal verbo
del greco antico paraoicheo¸ che significa abitare vicino. La comunità che preesiste
alla costituzione dell’ufficio parrocchiale è definita da
quelli che abitano vicino, nei dintorni, nel quartiere. E’ chiaro che
poi i confini amministrativi di una
parrocchia non coincidono sempre con questo abitare
vicini. Ad esempio ci sono degli isolati al di là di piazza Conca d’Oro e
verso la via Nomentana che amministrativamente
fanno parte della parrocchia degli Angeli Custodi, ma che in effetti, da punto
di vista sociale e comunitario, gravitano nella nostra parrocchia. Qualche
settimana fa ci è venuto a trovare un giovane dell’Azione Cattolica degli
Angeli Custodi il quale da ragazzo viveva su viale Tirreno oltre piazza Conca
d’Oro, nel territorio degli Angeli Custodi, ma che ha frequentato il
catechismo da noi. Io, che fin da piccolo abito nel territorio di San Clemente
papa, ho fatto lo scout agli Angeli
Custodi. Quelli di viale Tirreno oltre via Conca d’Oro li sentiamo parrocchiani
nostri, come io non ebbi difficoltà agli Angeli Custodi ad essere riconosciuto
tale. Abitiamo vicini. Gli Angeli
Custodi, dal punto di vista amministrativo, sono addirittura di un’altra
Prefettura, un altro mondo dal punto di vista della burocrazia ecclesiastica, ma per me quella chiesa mi è familiare come la
nostra parrocchia, e addirittura forse di più, perché vi ho vissuto tanto a
lungo da ragazzo e ne conosco ogni dettaglio; se ci ripenso ho ancora in testa
l’odore di certi suoi locali.
Per un po’ ho vissuto a Giulianova, sulla
costa Abruzzese. Roseto degli Abruzzi è veramente a due passi, ma quando a
Giulianova dicevano “Ha sposato uno di
Roseto” era come se la ragazza giuliese avesse sposato uno di un altro
mondo. Nei paesi è così. Far superare alla gente i pregiudizi territoriali, di campanile, per favorire la
collaborazione tra piccole realtà, a volte di poche centinaia di persone, tutto
sommato vicine, che però tra loro si
considerano mondi diversi, può mettere a dura prova il magistero e l'abilità di mediatore di un vescovo. Allora si deve spiegare
che non ci si deve fissare su un territorio, perché, insomma, qui non ci sono
più preti, e allora ci si deve industriare, uscendo dallo stato di spettatori di liturgie religiose e dandosi una mano gli uni gli altri tra parrocchie vicine, in fondo scoprendo una unità che anche qui comunque preesisteva, e che solo il microcampanilismo aveva condotto a misconoscere, a negare.
Quando c’è una
comunità che preesiste e un ufficio che è costituito e al quale il Vescovo manda i suoi preti, le due
realtà umane, alla fine, si conciliano. Perché? Perché l’una sente di aver
bisogno dell’altra, la comunità del prete e il prete della comunità. Nessuno
dei due è fatto per funzionare autonomamente dall’altro: il prete viene inviato
ad una comunità e la comunità segue il clero. E’ in fondo un modello clericale
ed è quello che è stato proposto ai fedeli fino ad epoca molto recente, quando sono molto
diminuite le vocazioni sacerdotali. Per il laico la virtù principale era la
docilità, che veniva presentata come una forma di obbedienza partecipe e consisteva nel lasciarsi guidare dal prete, ma non in modo passivo, bensì in modo attivo
e creativo in modo da sostenerne la sua azione in
società: è il modello dell’Azione Cattolica prima dell'ultimo concilio. Un
laicato, quindi, non tanto visto solo come pecora,
gregge, ma forse, e lo dico senza
alcuna connotazione negativa, come cane
da pastore, docile e ardimentoso strumento del clero. In
questo quadro, mentre l’ufficio e la struttura
del parroco e del clero che con lui
collabora sono molto bene delineati da punto di vista istituzionale, lo stesso
non si può dire del laicato, della comunità che all’ufficio del clero preesiste. Sostenendo che è costituita dal vescovo si intende che come viene fatta può essere disfatta o rimodellata
per suo volere. Viene in questo modo misconosciuta, vale a dire non
riconosciuta, la sua preesistenza. Ad un certo punto, al suo interno, possono
emergere dei ministeri, dei compiti
propri di un laico, e la cosa avviene come per i preti: si viene scelti e mandati
da un prete, che assegna il compito
da svolgere e a cui si risponde. La
comunità come tale non emerge mai, in particolare non collabora veramente a
individuare scopi e metodi della missione, del da farsi in società, se non
come consulente del parroco, quindi del clero, e soprattutto
non ha alcun vero diritto istituzionale,
nessuna vera certezza, di esistere, di essere mantenuta in un certo
assetto, di determinarsi, di essere rispettata nella sua dignità. Può
essere disfatta e rimodellata per ordine del prete. Questa è ancora la
situazione attuale. Un vero cambiamento di prospettiva dovrebbe comportare una
vera e propria riforma in questo campo.
Negli anni ’70 la
nostra parrocchia era diventata una realtà sociale molto viva nel quartiere e,
quando parlo di quartiere, mi
riferisco alla comunità che preesisteva all’ufficio del parroco e dei
preti suoi collaboratori. La comunità abitava
la sua parrocchia. Nel 1983 è
cambiato il parroco e piuttosto velocemente tutto è cambiato in parrocchia: si è prodotta la situazione che si è presentata
nell’ottobre 2015 allo staff di preti che ci è stato mandato. Non sto qui a
criticare una spiritualità e un metodo religioso. Non mi importa nulla farlo.
Osservo ciò che è stato. Ci dicevano che la società si era paganizzata, ma non era così. La gente di fede c’era come prima,
solo che non veniva più nella nostra parrocchia: se ne andava nelle parrocchie
intorno. Penso che i parroci vicino a noi se ne siano ben presto accorti. Del
resto, se uno va a San Frumenzio o al Redentore o agli Angeli Custodi, o anche
a Sant’Emerenziana, non è che finisce di fare vita parrocchiale, come se si
trasferisse dall’altra parte di Roma, perché tutti quei posti sono vicini. In questo la realtà comunitaria supera quella burocratica amministrativo-religiosa senza tanti
problemi. E, in definitiva, si vede che da noi, intorno a Montesacro, sarebbe molto
più facile che a Oristano costituire unità
pastorali, se si volesse.
Ad un certo punto,
nel corso del 2015, si è voluto cambiare strada. Dalla Diocesi ci hanno mandato
un nuovo parroco e una nuova squadra di preti. In questo modo si è rifatto l’ufficio ecclesiastico del parroco, ma, a
questo punto, si dovrebbe anche effettivamente costituire di nuovo una comunità parrocchiale di fedeli, ma questo supera le possibilità del clero,
Non si tratta, in effetti, di costituire, ma di riprendere il
collegamento vitale con la comunità delle Valli, che preesiste ma che si è
abituata ad essere parrocchia da altre parti. Ma com’è che oggi non riesce
quello che sembra invece essere riuscito nel corso degli anni ’80? Perché all’epoca
non fu solo questione di un cambio nell’ufficio
del parroco.
Ho
scritto che comunità che preesiste e clero che ad essa
viene mandato possono rapidamente conciliarsi, perché sentono il bisogno l’una
dell’altro. Ma che accade se accanto a una comunità che preesiste se
ne insedia un’altra che è costituita e che si
avvale di opportunità che le si presentano in una parrocchia, richiamando molta
gente da fuori? Le due realtà sociali non sentono il bisogno l’una dell’altra
e quindi entrano presto in conflitto. Si scambiano accuse di devianza,
non si possono soffrire l’un l’altra. La comunità costituita fa
vita propria, ha un proprio giorno santo, il sabato, mentre per l’altra è la
domenica. Assorbe quasi totalmente l’impegno dei preti, tanto che, alla fine,
in parrocchia rimangono solo quelli che si sono formati in quella comunità
perché, facendosi più numerosa quest’ultima, anche le esigenze di guida
religiosa aumentano e per relazionarsi con la gente di quella comunità, con il suo particolare metodo, la sua particolare liturgia, occorre una particolare
formazione. La comunità che preesiste si sente trascurata,
l’unica via che le viene proposta è quella della comunità costituita,
ma quest’ultima non va bene per tutti, e allora si prende ad emigrare. Porre la
questione in termini di territorialità non mi pare
appropriato. La gente del nostro quartiere, infatti, è tanto poco legata alla
territorialità burocratico-ecclesiastica che emigra senza problemi. Il
problema è che una parrocchia non è più tale se nella sua realtà
comunitaria non prevale l’elemento sociale di gente che vive vicina.Uno che
vive da tutta un’altra parte di Roma e che viene in parrocchia solo due sere
la settimana, il sabato e l'altro giorno fissato per l’adunanza
della sua particolare sezione di rinnovamento spirituale, del suo piccolo
gruppo di riferimento, non può essere considerato parrocchiano. Non ha
relazioni vive con la gente del quartiere. Viene da noi
come potrebbe andare in un altro quartiere di Roma, indifferentemente alla
Balduina o al Tuscolano. E’ questo modo di procedere che ha fatto della nostra
parrocchia qualcosa di diverso da una parrocchia, una specie di parrocchia
di tendenza, che però, a ben vedere, non è più una parrocchia,
perché vengono meno l’elemento dell’apertura a tutti e quello dell'abitare vicini.
Il processo che ho
descritto, condotto in assoluta buona fede da persone buone, ma veramente buone,
questo voglio metterlo sempre in risalto perché mai e poi mai mi schiererò
accanto ai loro pedanti e rancorosi critici, e che, tuttavia, ha portato alla
sostanziale dissoluzione della nostra parrocchia come comunità preesistente, situazione alla quale con
molta difficoltà si cerca ora di rimediare, è stato possibile perché l’elemento
comunitario non aveva da noi, come in genere non l'ha, una propria costituzione, un insieme di regole di
base, di garanzie personali e comunitarie, che impedisca esperimenti del genere
di quello condotto da noi, con la realizzazione di una parrocchia di tendenza, e
consenta una resistenza attiva.
Perché, come detto, è la docilità una delle principali virtù proposte al laico
di fede, ma, a ben vedere, parafrasando Lorenzo Milani, essa non è più
veramente una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Qual è però il Vescovo o il
parroco che sopporta di buon grado la resistenza del gregge? Eppure la
resistenza è un’azione fondamentale nei processi democratici e senza questi
ultimi il gregge rimane tale, non si trasforma in comunità attiva e partecipe con costanza come oggi la si vorrebbe, e, al più, possono trovarsi al suo interno, ed essere istruiti come tali, dei cani da pastore. Inutile pensare a
comunità impegnate “h24” senza dar loro uno statuto di garanzia che consenta ai
dissenzienti di prendere la parola e di fare resistenza, perché senza di questo non c'è una vera comunità partecipe, ma prevalgono alcuni e fuori gli altri, con molto scarto, che è poi gente che non partecipa più.
3. La
riforma in senso democratico
Inizio osservando questo: un laico di
fede può cercare di essere persona di fede “h24”, ma non può essere impegnato
in parrocchia “h24”. Perché? Perché ha anche altro da fare: lo studio, la
famiglia e il lavoro. Se si vogliono sostituire i preti “h24” con laici
missionari “h24”, si sbaglia strada. Ancora una volta si ragiona senza
riconoscere ciò che è proprio del laico e che preesiste.
Si dice che il modello di parrocchia centrato sui
servizi pastorali, il modello ASL
dello spirito, è insufficiente, ma poi, gira che ti rigira, è sempre lì che si
individua l’esigenza primaria. Quando si è deciso di cambiare le cose da noi?
Quando ci si è accorti che la gente non ci portava più i bambini per la
formazioni di base, per Confessione e Comunione. Non è che fossero aumentati i pagani: tanto è vero che rapidamente la
gente del quartiere ce li ha di nuovo portati, e molto numerosi, quando l’impostazione
della parrocchia è cambiata. Ora però mancano gli operatori pastorali, perché dovrebbero venire dalla comunità che preesiste e quest’ultima non è più stata abituata a
questo tipo di partecipazione.
Il problema però non
è tanto quello di ottenere la collaborazione di operatori laici, ma di creare
un contesto di partecipazione con nuove regole di convivenza. Il resto
verrà.
Innanzi tutto
occorre riconoscere che la comunità parrocchiale preesiste, non è costituita. C'è gente di fede che abita
vicina: questa è la realtà di base. Se la parrocchia deve essere aperta a tutti
ci deve essere, poi, una costituzione,
uno statuto, che stabilisca dei limiti. La democrazia è un sistema di limiti, in durata ed estensione,
di ogni potere sociale. La sua regola fondamentale è, in fondo, quella di rovesciare i potenti dai troni: è scritto
nel Magnificat e lo si recita ogni sera ai Vespri. Non è
scritto di rovesciare i potenti cattivi dai troni. Rovesciare
i potenti, e basta. Il trono è il potere illimitato, di chi vuole farsi re, capo
carismatico, dinastico, cooptato e inamovibile. Chi si allarga e non tollera obiezioni: gli altri devono seguire la sua via. Una regola di limitazione
dovrebbe valere per gli individui come per le collettività sociali, i gruppi. Ogni
metodo, ogni esperienza, ogni autorità dovrebbe avere dei limiti. Nessuno
dovrebbe sentirsi completamente in mani altrui, fossero anche quelle del prete
o del catechista. A nessuno dovrebbe
essere consentito di indicare la porta in uscita agli altri. Lo vogliamo
scrivere da qualche parte? Chi lo dovrebbe fare? E’ cosa che dovrebbe essere
interiorizzata e manifestata dalla comunità che preesiste. Al punto in cui siamo, essendosi persa una
tradizione, occorrerebbe avviare un lavoro di formazione al modo di un sinodo parrocchiale, esteso per qualche
anno, in modo da far emergere dalla comunità che preesiste, quella dei fedeli che
abitano vicini, un’architettura istituzionale di tipo democratico che favorisca
la partecipazione. Allora la comunità potrà essere effettivamente attiva “h24”: si
faranno dei turni, come nel volontariato, e anche i laici, da laici, potranno fare la loro parte. Non saranno i singoli a lavorare "h24" in parrocchia, ma la comunità. E lo farà volentieri, perché, facendolo, migliorerà la vita del quartiere in cui si abita gli uni vicino agli altri e in cui la parrocchia è piantata, e, così, anche la propria vita, la cui qualità dipende anche da quella del quartiere, fatta di territorio e vita sociale. L'architettura rimarrà quella che è, con palazzine e palazzoni squadrati, scatoloni abitabili, ma l'ambiente umano ce li farà amare e se ne avrà nostalgia quando si sarà lontani. La nostalgia che ci ha manifestato il caro don Franco della mia adolescenza, quando, all'inizio del nuovo corso, è venuto a celebrare Messa una sera da noi. Non era, la sua, nostalgia di un posto, ma proprio di noi, gente delle Valli, o meglio, della gente delle Valli degli anni '70, che era numerosa tra i fedeli di quella liturgia. Così, non si verrà in parrocchia solo due
sere la settimana, una delle quali nel giorno santo sbagliato. Nella
nostra fede il giorno santo è la domenica: per ragioni storiche è anche festività
civile, approfittiamone! Avvicinandosi al quartiere si sentirà di tornare a casa propria , perché ci si innamorerà delle Valli e della loro parrocchia: non più raccolta di scatole abitabili, impilate alcune meno e altre più, ma luogo dell'anima, con il suo bel parco che la gente delle Valli si è conquistato.
Da quand'è che non
si eleggono membri nel Consiglio pastorale? Io non ho memoria di elezioni. La
rinascita della comunità che preesiste potrebbe cominciare da una ristrutturazione di
questo organo, che può darsi un proprio regolamento e i propri obiettivi con una certa
discrezionalità (occorre poi che siano concordati con il Vescovo).
E che fare della
comunità costituita che aveva preso tanto piede da noi? Ogni comunità deve rispettare dei limiti: non è il numero
che deve fare la forza sulle questioni fondamentali. Soprattutto se la
prevalenza è il risultato del disamore della gente del quartiere che ha preso a
non venire più in parrocchia, emigrando. In democrazia ci sono diritti di
libertà e doveri di solidarietà che non si decidono a maggioranza. Che c’entra
la democrazia con la vita della parrocchia? E’ l’unico sistema che garantisce
la partecipazione attiva della gente di una collettività, quella tradizione di impegno attvo “h24”
che si vorrebbe presente nella trama sociale di base.
Se all’inizio degli
anni ’80 questa tradizione democratica di base fosse stata già presente in
parrocchia, non si sarebbe creato quello che si è creato negli anni successivi.
Si sarebbe potuto, e dovuto!, resistere. Ma i nostri capi religiosi, che ora ci
spingono alla partecipazione “h24” e all’impegno sociale e politico per la
trasformazione del mondo, saranno disposti a porre dei limiti anche a sé medesimi, e anche oltre quello che le attuali norme canoniche prevedono? Sono convinti che
le comunità parrocchiali non si costituiscono, ma preesistono?
E che, ad esempio, quando si propone una
formazione catecumenale, questo mai e poi mai va
inteso nel senso che bisogna operare sul territorio come se ci si trovasse tra
pagani, misconoscendo la fede della gente che c’è. La sofferenza più
grave negli anni passati, qui da noi, era quando si aveva l’impressione di
venire trattati come gente di fede insufficiente, o addirittura da pagani, e magari si era fedeli da una vita, avendo affrontato tante prove serie, in famiglia, sul lavoro, in società, conservando la fede religiosa.
Tutto da buttare, da rifare, sembrava di capire. Ecco che poi la gente si è
disamorata. Occorre farla nuovamente innamorare della parrocchia, facendole
superare la diffidenza che deriva sostanzialmente da esperienze non positive
del passato. C’è, in particolare, il timore di venire catturati in un metodo troppo stringente, in una specie
di prigione religiosa. Spieghiamo che
invece la nostra fede rende liberi,
perché è fede in una verità sulla nostra vita che rende liberi. Della libertà ci si convince vivendola e
praticandola.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli