Stasera,
alle 19:30, in sala rossa, ultimo incontro sull’enciclica Laudato si’, con la discussione finale - Il testo di tutte le mie Brevi note su vita di fede e questione democratica (incollato in coda)
Stasera, in parrocchia, alle 19:30 in sala rossa, si svolgerà l’ultimo incontro (per quest’anno
liturgico) sull’enciclica Laudato si’,
diffusa nel 2015 da Papa Francesco. Ci sarà la discussione finale.
Il metodo seguito negli incontri precedenti
era di tipo interattivo, non sono
stati semplici conferenze o lezioni.
Ma la discussione sarà molto più impegnativa, perché a cose come
queste non siamo molto preparati. Ciascuno tende a dire “che ne pensa”, ma questo serve a poco. Quando poi non ci si spinge
a dare un giudizio sull’autore del documento, del tipo mi piace/non mi piace o utilizzando l’argomento “quello/quelli di prima era/erano meglio”. E anche questo serve
a poco.
Innanzi tutto: benché si discuta di un
documento diffuso da un Papa, non deve essere il Papa al centro della nostra
attenzione. Lo conosciamo troppo poco per dare un giudizio sulla sua persona,
ed è troppo presto per dare una valutazione sulla sua figura storica. Il suo
potere è un processo ancora in atto: bisogna vedere dove va e che cosa produce.
Ma non dobbiamo nemmeno occuparci genericamente del contenuto dell’enciclica. Affrontiamo,
infatti, una discussione finale, dopo
diversi altri incontri. L’evento va quindi preparato facendo memoria di quello
che s’è capito nelle riunioni precedenti. Non vi ricordate più nulla? Male!
Bisognava essere più attenti e prendere
qualche appunto. Se non ricordate più nulla, meglio che tacciate nella
discussione. Cercate almeno di recuperare ascoltando gli altri. Impariamo
questo: non si viene in chiesa da spettatori distratti.
Chi presiede l’incontro ci aiuterà, all’inizio,
a ricordare, riassumendo, ciò che si è detto e fatto nei precedenti incontri.
Se ricordate qualcosa di quello che s’è detto
e fatto nei mesi passati, focalizzate la vostra attenzione sul punto che vi ha
colpito di più. Non si tratta, ora, di fare una recensione e di dire se il Papa
ha sviluppato bene o male un certo tema. Non si fa critica letteraria. Andiamo
al punto, alla sostanza. Ad esempio: c’è bisogno di un nuovo modello di
sviluppo economico, scrive. Ci credete? Ne sono convinti in molti e il Papa è
uno di loro. Ma, voi, ne siete
convinti? Vagliate gli argomenti che ha proposto il Papa per sostenere la sua tesi. Il
nostro attuale modello di sviluppo, quello inventato da noi Occidentali che poi
si è diffuso in tutto il mondo, cioè si è globalizzato, quello basato sulla concorrenza e sull’espansione spinta dei consumi, sta assorbendo troppe risorse
naturali, è un sistema sbilanciato, e sta trasformando l’ambiente naturale
rendendolo inospitale. In più la lotta per la vita, nella quale la concorrenza competitiva consiste, ci rende cattivi, molto meno solidali, e anche l’ambiente sociale si
sta degradando. Questa visione corrisponde alla vostra esperienza di vita? O vi
state trovando bene nella società di oggi? E, se voi state bene, per gli altri
come va? E se agli altri va meno bene che a voi, ci pensate un po’ anche a
loro, o ognuno deve fare per sé, perché, in definitiva, si ha
quel che si merita? Guardate che se ne può discutere liberamente! Non sono
in questione verità normative. Quello
che scrive il Papa nella Laudato si’ vale quando gli argomenti che porta a
sostegno delle sue idee.
Ad esempio, al paragrafo n.149 dell’enciclica si legge:
“E’ provato inoltre che l’estrema
penuria che si vive in alcuni ambienti
privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il sorgere di comportamenti disumani e la
manipolazione delle persone da parte di organizzazioni criminali. Per gli
abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di
passare dall’affollamento
all’anonimato sociale che si vive nelle
grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza.”
Il Papa scrive “è provato”, ma poi le prove non le espone. In un’enciclica non c’è
lo spazio per farlo. Rimanda a studi ed esperienze precedenti, e, in
particolare, ad un’esperienza di vita che pensa essere comune a molti. E’ anche la
vostra? Li conoscete gli studi a cui si è riferito genericamente il Papa? Il
nostro è un quartiere periferico. Ha manifestato una certa violenza: nel giro
di non molti anni ci sono stati tre omicidi. Le macerie del bar ex Paranà, distrutto da due incendi verosimilmente
dolosi, stanno a dimostrare che la criminalità è nel quartiere. Durante il
giorno si aggirano, come ombre, i più poveri tra noi, quelli che sono accampati
sulle rive dell’Aniene, oltre il nostro Pratone:
vanno a recuperare cose nei cassonetti delle immondizie e chiedono l’elemosina
davanti chiesa e ai supermercati. Non viviamo nei quartieri più ricchi della
città, quelli del centro o delle zone residenziali. La nostra esperienza di
vita convalida le idee esposte nell’enciclica? I mali sociali che osserviamo
dipendono anche da qualcosa che noi stessi abbiamo fatto o non abbiamo fatto?
Si piò cambiare a partire da noi stessi, e come?
Abbiamo
meno di un’ora per discutere insieme. Questo significa che ciascuno può
prepararsi a parlare per non più di tre / cinque minuti. Bisogna essere
sintetici. Se intervengono in molti ogni tema sarà esaminato da più punti di vista e questo aiuterà a capire meglio le questioni. Chi presiede avrà cura che i tempi assegnati vengano rispettati, per fare in modo che, capendo meglio, la discussione sia più produttiva. Chi si allarga con i propri tempi non lo fa solo a danno di ciascun altro che vorrebbe parlare, ma anche a danno di tutto il gruppo di discussione: il risultato del lavoro collettivo ne risente negativamente. Poi però bisogna anche ascoltare
ciò che dicono gli altri e questa è una parte molto importante in una discussione, in cui si parla, si ascolta, e, se si parla dopo aver ascoltato, si tiene conto di ciò che hanno detto gli altri, per agganciare il proprio discorso a quello degli altri. E' così che si costruisce l'azione collettiva. Il pensiero e l'intesa precedono e fanno strada all'azione. Chi parla
per primo ha il compito più difficile: deve infatti aprire la strada. Chi viene dopo,
dopo aver ascoltato, può prendere spunti da quello che hanno detto gli altri
che l’hanno preceduto. Ma, per carità!, niente polemiche, come quelle che si
vedono a volte in TV quando fanno parlare la gente comune e quella si azzanna. I
discorsi di ciascuno dovrebbero, come ho detto, agganciarsi
a quelli degli altri, perché lo
scopo è quello di prendere determinazioni comuni sul da farsi. Perché, alla
fine, questo è il bello: si tratta di programmare qualcosa da fare per cambiare
le cose. Non ci si limita al mugugno, all'invettiva, al rancoroso prendersela
con il mondo, a partire dai politici. Siamo
noi stessi in questione, lo capite? Il Papa ci dice: siete voi stessi che state
distruggendo l’ambiente in cui vivete, quello naturale e quello sociale!
L’enciclica si chiude con la richiesta di una conversione. E come potrebbe essere diversa? L’ha organizzata e
diffusa un Papa! Fa il suo mestiere. Siamo disponibile al tipo di conversione, che lui chiama conversione ecologica, a cui ci esorta?
Alla fine dell’incontro chi presiede farà la
sintesi del dibattito, facendo il punto sullo stato di condivisione delle idee
esposte nell’enciclica e, probabilmente, proponendo linee di impegno sulla base
di ciò che è emerso.
Di seguito incollo tutte le mie note recenti
su vita di fede e questione democratica.
Quel tipo di conversione che ci viene
proposta nell’enciclica deve essere collettiva, sociale, per essere efficace e quindi richiede la
democrazia.
A stasera!
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Brevi
note su vita di fede e questione
democratica
(maggio
2017)
di
Mario Ardigò - per l’Azione Cattolica in san Clemente papa - Roma, Monte Sacro,
Valli.
1. La “Politica” con la maiuscola
Nel discorso
del Papa all’Azione Cattolica del 30 aprile 2017 i commentatori hanno notato
l’invito a fare Politica con la
maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente
politico del momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa.
La differenza sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue
origini, si è specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante
ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle
organizzazioni di azione sociale ispirata dall’ideologia del papato sorta da
metà Ottocento e confluite dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire
sulle loro ceneri. Nasce infatti per iniziativa del papato romano nel 1905,
dopo lo scioglimento d’autorità di quelle, per emergere di correnti
democratiche, in particolare di quella di democrazia
cristiana che ebbe tra i suoi
principali esponenti il prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era
nel pieno della persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento
religioso che, a livello europeo,
proponeva un aggiornamento nelle concezioni religiose. In Italia le
correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono
sbrigativamente assimilate al modernismo
e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione
sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina, quindi negli
insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici.
Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il
papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente rifiuto del sistema politico democratico
liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una
propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata,
dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti.
Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è
stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione dell’Azione Cattolica era fondamentalmente
sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato
romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo
democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione
Cattolica si integrò profondamente con il partito
cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava
da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici
italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il
papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il
Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe
necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per
affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma
l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla politica.
In questa stagione, ai politici cattolici
venne riconosciuta dal papato romano
un maggiore autonomia nell’applicazione delle soluzioni che il papato romano riteneva
giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quando i laici, riconosciuti come competenti
nelle vicende sociali e politiche,
indicate con l’espressione temporali,
vale a dire soggette a continui mutamenti con i progredire del tempo, distinte
da quelle spirituali, ritenute eterne, vennero sollecitati a
collaborare alla definizione dei principi
di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le
strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e
azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione
Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio
Bachelet, rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera
sociale.
Il nuovo corso
durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la
frammentazione, in particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a
far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici
autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il
papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano
crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne
che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente per quanto riguarda la politica specificamente
italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato
si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti
del laicato, piuttosto che
dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del
papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana,
in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali
scuole italiane di politica e di azione
sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
Con il regno
di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare
principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una nuova azione
politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica con la maiuscola, i cui principi sono
sintetizzati nell’enciclica Laudato si’
del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze
contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta
propriamente più di una dottrina, ma di una prospettazione che,
innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione
mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo,
che comprende anche i principi di azione sociale, è il campo proprio dei laici. Le componenti neo-intransigenti, mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro
esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre componenti
laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione culturale, lo
sono. Questo il senso dell’appello del Papa.
2. La questione democratica
Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va
trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione
da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare
cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé
riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non
pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle
norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro
d'immortale memoria [il papa Vincenzo
Gioacchino Pecci - Leone 13°]
[…]
Del resto,
Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a
questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo
d'oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a
qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale,
nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli
Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di
iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu
dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome
dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione
provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare
timore) diffusa nel 1906 dal papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]
Quando si parla
di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa memoria
fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una
versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica
nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce
per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un
movimento intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa.
Fu colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal
papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti
democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio
politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte
impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare
nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti
giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione
Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e nel 1905 della Lega
Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico
di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì
aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al
modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia dei
cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal
papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più
umili della società.
La diffidenza del
papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a
compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con
molte riserve e vietando denominazioni comedemocrazia cristiana e
simili, esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La
disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei
cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni
intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano
partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve,
la proposta politica di Alcide De Gasperi.
Negli anni ’60,
la svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili,
consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale,
in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969,
sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra
di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da
parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il
Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte
sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione
Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno
politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si
tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma,
addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo
economico. Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può
fare solo con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al
dialogo è stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione
Cattolica.
Dal papato romano
non è mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica,
ma essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di
democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura
di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per
i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni
religiose. Esso può invece cominciare ad essere sperimentato dal basso,
su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono
produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni
delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.
3. Potere democratico
La democrazia è una forma di
organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione
alle decisioni comuni.
Democrazia è una
parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che
significa popolo, e cràtos, che significa potere.
Dunque significa il potere del popolo.
Gli antichi greci furono tra i
primi a ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia,
il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e
alla oligarchia, il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi sono
pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono
essere periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una democrazia
da una oligarchia è dunque la possibilità di critica sociale
e l’esistenza di regole che limitino il
potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che
coinvolgano i più.
Schematicamente: in una
democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i
pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto,
perché i pochi che comandano scelgono i loro successori e quelli che
comanda ai livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando,
tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai
processi democratici, così come ogni monarchia.
Nelle società complesse non
esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle
oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere
supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è
la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs,
che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi
ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra
il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa è,
dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in
cui si stanno sviluppando processi democratici.
La Repubblica italiana è invece
attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici:
questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi
stati.
Paradossalmente le monarchie
dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi
democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è
segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di
quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei
capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio
della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni, e
dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici
supremi.
Le monarchie e le oligarchie in
genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le
democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono date
di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e
Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i
cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari
i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati
nell’enciclica Laudato si’.
4.
Alle origine della sacralizzazione del potere politico
Ogni
forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che
ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in
tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono
e che verosimilmente vivono come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata
favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della scrittura.
Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società erano già piuttosto
complesse.
Dal punto di vista biologico discendiamo da
esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che
fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con aspetti fisici e movenze simili a quelle
umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con
molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è
sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie
di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di
più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano
come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle
società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità.
Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere
dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le
deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie
simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo
era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi,
erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso
con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era
quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una
giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si
risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo,
di carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le
società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento
politico su un territorio sviluppò
molto la concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice massimo,
il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
5.
Potere politico sacralizzato come potere assoluto
La sacralizzazione del
potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati
anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro
affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il principio
della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far
ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni
discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere si
è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla
democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da
europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi
italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della
nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia
della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in
questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che
scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio, nella
regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella
sacralizzazione: di là dominarono l’impero romano, ridottosi
poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,
procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel
meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei
cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i
Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici, vale
a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della
nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti
dagli imperatori di Bisanzio. In questo modello c’era
un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era
un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica il
potere assoluto, vale a dire senza limiti, del
sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del
delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel
mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è,
secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un
sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un
processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era
originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era
stato politicamente subordinato all’imperatore romano, in
realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne
politicamente un feudatario (che significa principe di
livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli
imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel
secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso,
come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un
potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga
di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra
queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
6.
Il processo di desacralizzazione del potere politico
Gli esseri umani, nella loro biologia e
nella loro psicologia, quindi nel corpo e nella mente, e le loro
organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto, mutano continuamente.
Se non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla
democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà
del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far cambiare
la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione del
potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a
cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà
autorizzato a irrogarle per conto della potenza
celeste che l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si
svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da
regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i
sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano “per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere romano
di Borgo. Lo definisce stato in modo non del tutto
conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima Trinità”,
come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico, e
addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa
prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di
governare “per grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio
collettivo e alla possibilità di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo
sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra
religione, ma la sua strumentalizzazione politica, per la sacralizzazione del
potere politico.
Storicamente il processo di desacralizzazione del
potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelle università europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si
svilupparono università degli studi, istituzioni di studi
superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere colpito
dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in
questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il
papato romano, con la Riforma promossa del monaco
agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg,
nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo
processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti
politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel
1648 nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della
Germania.
Il papato romano, fino ad
epoca recente, reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare il
suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu
l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)],
del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge (testo
integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html ):
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così
detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o
Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran
tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero
di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce
dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di
governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco
la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e
indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere
civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò
più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla
religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati
i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione
nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò
toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito
essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici
in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma
operando attraverso la mediazione prima di un partito cristiano desacralizzato,
vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato da
poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo discorso,
tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le
religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento
sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere
politico è sacralizzato, allora viene a
dipendere per la propria stabilità da una, e una sola,
religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo
avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per
affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convinzioni di
fede. Se invece lo si desacralizza, quindi se trova
giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società
in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche.
Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli
Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato
regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse
confessioni.
7.
La Questione romana
L’evoluzione degli organismi e delle
società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché,
ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi
passati. Sotto certi profili il passato non è sempre veramente passato.
Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo
latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di
oggi.
La Questione romana ha
travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni
politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi
cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del
suo piccolo stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò
ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato
mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali,
sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un
Regno che nel suo Statuto proclamava: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il
Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando
di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma
anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna
autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il
riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la
rivista Panorama ha sintetizzato quella vicenda in un
articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano
in tutta la Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e
anche divine) proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del
Vaticano.
È così dal primo
gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al
magazzino abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia,
si paga come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat
interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di
Religione , che però i numerosi turisti e italiani che
frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha poteri in quei 44 ettari, ma che ha
imposto a Deutsche Bank Italia, braccio italiano della prima banca
privata tedesca, di disattivare i POS a San Pietro e dintorni, che gestisce dal
1997.
E per farlo Via
Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con
banche italiane, perché - secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non equivalente a fini della
vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre
parole, trattato come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole:
Deutsche Bank Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi
controllato da Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza
richiedere la necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità il
piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un
impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un parco a
tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è
come capi di stato che i papi contano nel mondo, ma come
capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere uno
stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano,
come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di
diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si
potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno,
certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di
cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in
tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché
il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce
profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo
e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando
pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello
clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a
sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con
l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni
sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte
altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una
democrazia si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la
Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno.
Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse
che il suo Regno non era di questo mondo? Se però, nel
mondo, si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente
la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una
parrocchia, perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che
oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti
secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede
sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere.
Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri,
per democrazia.
8.
Politiche di liberazione: libertà,
uguaglianza, fraternità come idee
cristiane
Per chi scrivo queste brevi note sulla
democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze
politiche e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in
Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo
conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La
democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire
il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una
formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’
di più? Ho studiato Legge e ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come
noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò
nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento
anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi
greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era
legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita
umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo
parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono
molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i criteri
dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché
coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento,
si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota
degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta in
questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi
dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero
trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di
essere stati creati e di essere all'origine figli di
un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali.
Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in Europa, nel
Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare gli
esseri umani dalle schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole della
teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad
affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di
solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in
Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della
Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane ». Che
progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come
eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con
l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità,
del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla
piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di
argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano l’accettazione
della democrazia una degenerazione del magistero e giungono a contestare
i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno detto cose diverse
dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si
formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi
democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme
politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle
collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico.
Parlò di un Regno, ma non di questo mondo. Il
detto che gli è attribuito “Date a Cesare quel che è di Cesare…”,
non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra
poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si
richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello Celeste,
ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo
intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere
particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti
l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur
di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che
le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico,
come piccoli regni federati tra loro con intese di comunione:
si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci
si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica,
e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale
venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un
processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come
propria forma di sacralizzazione politica, e quindi come
ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della
nostra era.
9.
Liberare il lavoro per coinvolgere tutti nella democrazia.
Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza della popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare le collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di volerli favorire, ma chi arrivava al potere promettendo di farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad esserlo. Al massimo furonoconsiglieri di chi comandava di volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte, un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri. Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura. Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti. In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, poi nell’età d’oro dei Comuni europei, le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare il proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro, non avevano la capacità, ma neanche la libertà, di occuparsi della politica, in particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non sempre fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una situazione naturale e che la ribellione fosse un grave delitto. I poteri assoluti proposero diverse giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa situazione di temuta anarchia, che è quando si cerca di fare a meno il più possibile di poteri sugli altri, fu assimilata alla democrazia (che è invece un sistema di poteri condiviso), in particolare dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria veritiera.
Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere tutti nei processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama l’Italia come una repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici sono entrati in crisi.
10.
Democrazia pacificante
Fare
memoria del passato serve a organizzare il presente e a progettare il futuro.
Parliamo della storia dei processi democratici e, quando
costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i problemi
che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare là dove
ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga e
complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i problemi
vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo. La
democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione in
generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita
biologica come le società, sono così: sono processi, sia a
livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si
sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la
vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione
in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono
per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più
giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le
culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione.
Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione
culturale consente di mantenere certe conquiste sociali,
scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza
a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano
soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo
reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali
molto veloci, a carattere rivoluzionario, quando tutto
improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari
sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio
culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto
quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si
riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei
quali controlla un settore molto limitato e dialoga con
gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo
che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa,
le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che nessun imperatore potrebbe
governare da sovrano assoluto; la politica è, ai tempi nostri, necessariamente
un fatto condiviso da molti, se si vuole che consenta la sopravvivenza
dei più. Questo significa che la via dell’umanità sarà necessariamente quella
della democrazia o quella della catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non
sarà quella delle origini, quella che aveva come problema principale il
conquistare spazi di libertà verso oligarchie dinastiche, perché avrà davanti
come problema principale quello di realizzare una pace stabile a livello
globale.
Fare pace è tanto
difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano.
Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da
farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li
tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per
sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli
appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad
espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre
gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo
passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si
finisce per seguire i più svelti di lingua e di mano, quelli che si fanno
meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano piccole corti.
Ecco che, allora, si rivive il passato, la monarchia, l’oligarchia, varie forme
di democrazia e anche l’anarchia, quando si cerca di fare a meno di regole e di
autorità per dare il massimo spazio alla vita degli individui. La società fa
soffrire, ma presto si capisce che ci è indispensabile per vivere. Si vorrebbe
essere più liberi, ma allo stesso tempo si ci lega agli altri: la vita sembra
non avere senso senza di loro. Un tempo lo si capiva fin da piccoli, giocando
in cortile con torme di ragazzini: oggi i più piccoli vivono come piccoli
monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma alle medie, quando si comincia a
uscire da soli, ci si accorge che senza gli altri non si sa che fare. Ma anche
che, se con si dà ordine alle proprie esperienze sociali, non si arriva a nulla
e ci si limita ad aspettare, con gli altri, che il tempo passi: si è ragazzi
del muretto, come diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo
fa.
La democrazia si impara, non è innata
nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di
generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri,
occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli
errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che
evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra
gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in
religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si è
capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a
insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato
come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il
lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui
votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si
scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in
FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in
società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque
tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di
democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più
ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa, è
la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i
processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la
sopravvivenza dell’umanità.
Nei processi democratici gli individui
non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali elementari.
In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In religione si è
cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia sociale (si
è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in dottrina, e questo è
qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono quindi caratterizzate da
qualcosa di comune che si pensa esserci tra gente che vuole andare d’accordo e
che storicamente è stato riassunto, ad esempio, in un mito,
una storia leggendaria su origini comuni, o in certo modo di vivere e di
pensare che si pensa scaturire dalle persone come le piante dalla terra. Quindi
le società umane nascono come esperienze definite, con dei confini,
con un dentro e un fuori, gli
amici dentro, i nemici fuori. Le democrazie
nascono per consentire i più ampi spazi di libertà dentro una
società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve
riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società
più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per essere liberi in
molti occorre però condividere delle regole, porre dei limiti ad ogni autorità
e ad ogni arbitrio individuale, dentro la società. Alle origini le
democrazie riguardavano, in ogni società, una minoranza di gente che si
riconosceva l’uguaglianza reciproca. Poi, più recentemente,
si vollero includere nei processi democratici tutti gli
adulti di una società, quelli che stavano dentro una
società. Si scoprì, però, che l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita,
perché, a quel punto, non era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale all’interno delle
società. Ora la sfida è di realizzarla globalmente, lì dove prima non si
ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori si
poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo
furono fondate su questo principio). Questo perché servono processi
democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche
solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler
chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle
migrazioni di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio.
Ma che cosa ci lega a livello globale per cui si debba
essere solidali a quel livello invece di massacrarci e
rapinarci, a livello globale, come è sempre avvenuto?
Oggi pensiamo che democrazia e pace vadano
d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è
sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi
democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è
stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti
d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica
potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura
due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra
mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale, nell’Ottocento,
vide processi democratici e conflitti bellici strettamente connessi. In questo
le democrazie a lungo non si distinsero dai regimi assolutistici
che vollero sostituire.
I nostri orientamenti religiosi
oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale che
può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale:
questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova
sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del
2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in
religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a
livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di
prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare a cambiare
il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.
11.
Democrazia e valori
Qui si ragiona di democrazia per
metterla in pratica. Non dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo.
Secondo le idee oggi correnti in religione, questo ha un significato anche per
la vita di fede. Questo perché la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa
e la si vive, è legata a valori, vale a dire a principi di
azione sociale, che sono condivisi dalla fede e, anzi, in buona parte
originano da essa, anche se non sempre se ne è mantenuta consapevolezza. Quando
la si è persa, la democrazia viene pensata come la sede dell’arbitrio delle
maggioranze in danno di quei valori. A maggioranza si potrebbe
decidere tutto. Sarebbe meglio, allora, mettere i valori nelle mani di
oligarchie illuminate: sono i reazionari a pensarla così, quelli che vorrebbero
che la storia umana tornasse sui suoi passi. Non è impossibile che accada:
nella storia osserviamo civiltà che sono regredite. Ogni conquista culturale va
rinnovata di generazione in generazione, altrimenti può essere perduta.
L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle mani di sovrani assoluti e,
in effetti, di questi tempi si osservano processi sociali che vanno in questo
senso. Rimane sempre nell’aria l’idea che alle controversie e alla violenze
possa porsi rimedio solo con un’autorità superiore che imponga la
pacificazione: nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e
talvolta sembra che il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei
primi tempi, quelli che sacralizzarono il proprio potere
politico secondo la nostra fede. Non si tiene conto che una simile
concentrazione di potere fatalmente annienterebbe le libertà civili se
non governata con metodi democratici ancora da pensare a livello globale,
mondiale, di democrazia universale. Produrrebbe proprie corti,
che degenererebbero in oligarchie, le quali, non limitate da
processi democratici, si impadronirebbero delle cose e
delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la storia,
si è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto miliardi
di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti reazionari
porterebbe alla catastrofe, agli incubi sociali proposti in tanti film di
fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi di
regressione della civiltà.
Opporre democrazia e valori, come
fanno i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto,
perché nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più
importanti sono sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei
processi democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara
consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano a tirannie di
maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza ai
valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori?
A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa
sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di
pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da
limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione,
dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In
religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più
o meno così: oggi però la sua struttura feudale non
fa più gran danno perché è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale
ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con
la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici,
in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari
laicali, e in genere politici, questa mediazione salta: in fondo essi
sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
Se consideriamo la nostra
Costituzione, un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo
con maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere
cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione
sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità
pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della
laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è
quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale,
anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna
maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte
Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione
autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I
valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle
assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico,
all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare,
partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era
trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico
che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la
violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione
internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come igiene della
razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la
gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani
ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La
gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta
opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i
valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani.
Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro
nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente
potente.
Negli anni passati, si sono
considerati i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di
missione. Non sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho
sempre considerata piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli fossero
veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli
sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una
prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente e allora si
fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che
è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la vita
buona raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la
condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si
sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima solo
a quella vita buona idealizzata. E’ quello che accade
anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non
sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più
alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda.
Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile?
In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una
visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se
non da figlio e zio. E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio
perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono
scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è
veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno
violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso.
Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale,
esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi
condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere,
di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i
costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal
Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo
sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai
tempi nostri sono dei sant'uomini. A ben vedere, dietro
l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite, c’è la
politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni
politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici.
Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale,
del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe
discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge condotto
qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono
come assolute. Questo, anche se non sempre se ne è consapevoli,
è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori democratici.
Le Valli all’ultimo
censimento avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro,
secondo le statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la
nostra fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’
tra questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare
di valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine
clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è
il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un
processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare
le condizioni per un miglioramento collettivo e individuale è il lavoro
delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori dei
quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori,
da colonizzatori, da missionari. Ne siamo parte,
nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più
giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti
soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile
che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma
anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione.
Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo
cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale
e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto riprendere a
incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo.
Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con
soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono
in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa. La
società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione.
Non si tratta divenire in chiesa come spettatori. Già proporsi che
i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è
importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli
richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo
sviluppando processi democratici, imparando la
democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi
principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di
altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si
cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo loro concesso
per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno
umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza
limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe della
fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma
cercando di espanderla per includervi nuovi amici.
12.
La laicità delle istituzioni pubbliche come principio inderogabile della
democrazia, contro ogni sacralizzazione del potere politico
E’ evidente quello che
non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare
spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così,
e basta.
Il Sole sorge e tramonta:
è evidente. Che però giri intorno
alla Terra può sembrare, solo sembrare, evidente,
ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate
dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare intorno
al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità
impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il
Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine
e astronauti nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione
piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è
ben chiaro come e dove evolva e che fine farà, se poi una fine ci sarà
mai ad un certo punto.
In religione quasi nulla è
evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,
perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono
invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo senso invisibili,
ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci di immedesimarci negli
altri, nelle loro gioie e nei loro dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in
loro soccorso quanto soffrono. La psicologia, le neuroscienze e l’antropologia
ne danno spiegazioni, certo, ma si tratta di realtà evidenti,
e, innanzi tutto, proprio di realtà, appunto perché ne
facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi non prevale la
natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e
il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno un
significato per la fede e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe,
del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per
tutti, nessuno escluso.
Al di fuori della misericordia, che è evidente nel
senso che ho precisato, mi pare che tutto in religione necessiti di complicate,
e anzi complicatissime, spiegazioni, delle quali si occupa la teologia.
Trattando dell’invisibile, è assai raro che i teologi siano d’accordo
tra loro, quindi poi ci sono, più o meno, tante teologie quanti sono i
teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita
umana, va così. La scienza, in particolare, funziona così, e per certi versi,
nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando di accordare conclusioni e
premesse, la stessa teologia si è fatta scienza. Questo non significa che non
si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si ragiona insieme, e talvolta si
riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso in politica e nella religione
che si fa politica, come anche nella politica sacralizzata, quella
che strumentalizza la religione, si va per le spicce, non si ha tanto tempo da
perdere. Allora si stabilisce che la verità esca da una
certa fonte, sia proclamata da una certa autorità, e che si sia obbligati a
convincersene. Storicamente la faccenda della verità appare
strettamente connessa con l’autorità. Che cosa è la verità?
E’ un problema filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti
della Passione e venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea,
funzionario di medio livello dell’imperatoreromano, quindi, tutto
sommato, a un politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta
del Maestro. In politica appare inutilediscutere di verità:
e se poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare
il campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela.
E gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti,
quelle che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto,
facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli
argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente;
un verità normativa, invece, è una legge e vale
quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto la forza del
potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo.
Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società
dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la
religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri
pubblici e verità normative si rafforzano
a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati, una verità
normativa viene posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il
potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti
ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per
circa trecento anni è stato questo il dramma delle scienze tra gli
europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla democrazia subire lo stesso
travaglio. La faccenda è di solito, superficialmente, presentata come conflitto
tra scienza e fede, ma, in realtà, si è trattato di un conflitto tra scienza e
poteri sacralizzati e poi tra concezioni democratiche e poteri assolutistici
sacralizzati.
In democrazia si è tratto insegnamento
dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del
potere: è questo il senso del principio della laicità dei
poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non
dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non
c’è più, democrazia. Ma, allora, ci si può chiedere, non è che nei regimi
democratici quel principio della laicità dei poteri pubblici stia
virando in fondo verso la verità normativa, e finisca per rientrare in
quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché
sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione
di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che
ha a che fare con la morale non con la verità. Non è come quando in religione
si sosteneva che il Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa
idea per legge, altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri
politici e religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo
conto degli altri e ci poniamo dei limiti. Per
questo rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare rendendolo illimitato, il
potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia
condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo che non
possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non sono nostro
trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro strumento.
Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono questioni
ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di annientarli:
questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe. Che cosa resta
al dunque?Questo resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come
oggi la si intende, è un sistema di limiti che ciascuno pone
al proprio arbitrio, per questioni di cuore, di misericordia, sulla
base di esperienze interiori evidenti. E’ evidente, a
questo punto, anche il collegamento con la nostra fede.