Il servizio catechistico diocesano
Sul sito dell'ufficio catechistico diocesano
www.ufficiocatechisticoroma.it
si trovano informazioni aggiornate sui percorsi di formazione dei catechisti e degli aiuto-catechisti istituiti dalla Diocesi di Roma per le diverse età della vita, per i vari Sacramenti e per vari ambienti sociali. Sono disponibili anche molti documenti relativi all'attività catechistica.
L'attività di formazione, per quanto posso giudicare con le mie competenze e conoscenze, mi sembra molto completa e seria: essa risponde veramente alle esigenze delle nostre collettività religiose. Vi è una particolare attenzione all'approfondimento storico. Quest'anno, ad esempio, si sono tenuti due incontri sulla storia della Chiesa di Roma, in particolare sull'epoca del Risorgimento al Novecento, un periodo di grande effervescenza del nostro laicato.
Devo rilevare che gli orari dei corsi infrasettimanali pubblicati sul sito, programmati per la prima mattinata, sono incompatibili con gli impegni di lavoro della gran parte delle persone non in età da pensione.
Dal sito dell'ufficio catechistico diocesano ho acquisito il testo di un interessante e coinvolgente discorso di Papa Francesco, tenuto il 16 giugno 2014 in occasione dell'apertura del Convegno pastorale "Un popolo che genera i suoi figli. Comunità e famiglia nelle grandi tappe dell'iniziazione cristiana".
Ne trascrivo di seguito un estratto.
Mario Ardigò -Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma - Monte Sacro - Valli
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Dal discorso tenuto da papa Francesco per aprire il Convegno pastorale della Diocesi di Roma “Un popolo che genera i suoi figli. Comunità e famiglia nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana”, il 16/6/2014. Estratto.
"Vorrei dire una cosa, senza dubbio: mi è piaciuto tanto che tu, don Giampiero, abbia menzionato l’Evangelii nuntiandi. Anche oggi è il documento pastorale più importante, che non è stato superato, del post-Concilio. Dobbiamo andare sempre lì. E’ un cantiere di ispirazione quell’Esortazione Apostolica.
E l’ha fatta il grande Paolo VI, di suo pugno. Perché dopo quel Sinodo non si mettevano d’accordo se fare una Esortazione, se non farla…; e alla fine il relatore - era san Giovanni Paolo II - ha preso tutti i fogli e li ha consegnati al Papa, come dicendo: “Arrangiati tu, fratello!”. Paolo VI ha letto tutto e, con quella pazienza che aveva, cominciò a scrivere. E’ proprio, per me, il testamento pastorale del grande Paolo VI. E non è stata superata. E’ un cantiere di cose per la pastorale. Grazie per averla menzionata, e che sia sempre un riferimento!
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Quando io confesso i giovani sposi e mi parlano dei figli, faccio sempre una domanda: “E tu hai tempo per giocare con i tuoi figli?”. E tante volte sento dal papà: “Ma, Padre, io quando vado a lavorare alla mattina, loro dormono, e quanto torno, alla sera, sono a letto, dormono”.
Questa non è vita! E’ una croce difficile. Non è umano.
Quando ero Arcivescovo nell’altra diocesi avevo modo di parlare più frequentemente di oggi con i ragazzi e i giovani e mi ero reso conto che soffrivano di orfandad, cioè di orfanezza. I nostri bambini, i nostri ragazzi soffrono di orfanezza! Credo che lo stesso avvenga a Roma. I giovani sono orfani di una strada sicura da percorrere, di un maestro di cui fidarsi, di ideali che riscaldino il cuore, di speranze che sostengano la fatica del vivere quotidiano. Sono orfani, ma conservano vivo nel loro cuore il desiderio di tutto ciò!
Questa è la società degli orfani. Pensiamo a questo, è importante. Orfani, senza memoria di famiglia: perché, per esempio, i nonni sono allontanati, in casa di riposo, non hanno quella presenza, quella memoria di famiglia; orfani, senza affetto d’oggi, o un affetto troppo di fretta: papà è stanco, mamma è stanca, vanno a dormire… E loro rimangono orfani.
Orfani di gratuità: quello che dicevo prima, quella gratuità del papà e della mamma che sanno perdere il tempo per giocare con i figli. Abbiamo bisogno di senso di gratuità: nelle famiglie, nelle parrocchie, nella società tutta.
E quando pensiamo che il Signore si è rivelato a noi nella gratuità, cioè come Grazia, la cosa è molto più importante. Quel bisogno di gratuità umana, che è come aprire il cuore alla grazia di Dio. Tutto è gratis: Lui viene e ci dà la sua grazia. Ma se noi non abbiamo il senso della gratuità nella famiglia, nella scuola, nella parrocchia ci sarà molto difficile capire cosa è la grazia di Dio, quella grazia che non si vende, che non si compra, che è un regalo, un dono di Dio: è Dio stesso. E per questo sono orfani di gratuità.
Gesù ci ha fatto una grande promessa: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18), perché Lui è la via da percorrere, il maestro da ascoltare, la speranza che non delude. Come non sentire ardere il cuore e dire a tutti, in particolare ai giovani: “Non sei orfano! Gesù Cristo ci ha rivelato che Dio è Padre e vuole aiutarti, perché ti ama”.
Ecco il senso profondo dell’iniziazione cristiana: generare alla fede vuol dire annunziare che non siamo orfani. Perché anche la società rinnega i suoi figli! Per esempio a quasi un 40% dei giovani italiani non dà lavoro. Cosa significa? “Tu non mi importi! Tu sei materiale di scarto. Mi spiace, ma la vita è così”. Anche la società rende orfani i giovani. Pensate cosa significa che 75 milioni di giovani in questa civiltà Europea, giovani dai 25 anni in giù, non abbiano lavoro… Questa civiltà li lascia orfani. Noi siamo un popolo che vuole far crescere i suoi figli con questa certezza di avere un padre, di avere una famiglia, di avere una madre.
La nostra società tecnologica — lo diceva già Paolo VI — moltiplica all’infinito le occasioni di piacere, di distrazione, di curiosità, ma non è capace di portare l’uomo alla vera gioia. Tante comodità, tante cose belle, ma la gioia dov’è? Per amare la vita non abbiamo bisogno di riempirla di cose, che poi diventano idoli; abbiamo bisogno che Gesù ci guardi. È il suo sguardo che ci dice: è bello che tu viva, la tua vita non è inutile, perché a te è affidato un grande compito. Questa è la vera sapienza: uno sguardo nuovo sulla vita che nasce dall’incontro di Gesù.
Il Cardinale Vallini ha parlato di questo cammino di conversione pastorale missionaria. E’ un cammino che si fa e si deve fare e noi abbiamo la grazia ancora di poterlo fare. Conversione non è facile, perché è cambiare la vita, cambiare metodo, cambiare tante cose, anche cambiare l’anima. Ma questo cammino di conversione ci darà l’identità di un popolo che sa generare i figli, non un popolo sterile! Se noi come Chiesa non sappiamo generare figli, qualcosa non funziona!
La sfida grande della Chiesa oggi è diventare madre: madre! Non una Ong ben organizzata, con tanti piani pastorali… Ne abbiamo bisogno, certo… Ma quello non è l’essenziale, quello è un aiuto. A che cosa? Alla maternità della Chiesa.
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... la sua identità è fare figli, cioè evangelizzare, come dice Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi. L’identità della Chiesa è questa: evangelizzare, cioè fare figli. Penso a nostra madre Sara, che era invecchiata senza figli; penso ad Elisabetta, la moglie di Zaccaria, invecchiata senza figli; penso a Noemi, un’altra donna invecchiata senza discendenza… E queste donne sterili hanno avuto figli, hanno avuto discendenza: il Signore è capace di farlo!
Ma per questo la Chiesa deve fare qualcosa, deve cambiare, deve convertirsi per diventare madre. Deve essere feconda! La fecondità è la grazia che noi oggi dobbiamo chiedere allo Spirito Santo, perché possiamo andare avanti nella nostra conversione pastorale e missionaria. Non si tratta, non è questione di andare a cercare proseliti, no, no! Andare a suonare al citofono: “Lei vuol venire a questa associazione che si chiama Chiesa cattolica?...”. Bisogna fare la scheda, un socio di più…
La Chiesa - ci ha detto Benedetto XVI - non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, per attrazione materna, per questo offrire maternità; cresce per tenerezza, per la maternità, per la testimonianza che genera sempre più figli.
E’ un po’ invecchiata la nostra Madre Chiesa… Non dobbiamo parlare della “nonna” Chiesa, ma è un po’ invecchiata…. Dobbiamo ringiovanirla! Dobbiamo ringiovanirla, ma non portandola dal medico che fa la cosmetica, no! Questo non è il vero ringiovanimento della Chiesa, questo non va. La Chiesa diventa più giovane quando è capace di generare più figli; diventa più giovane quanto più diventa madre. Questa è la nostra madre,la Chiesa; e il nostro amore di figli. Essere nella Chiesa è essere a casa, con mamma; a casa di mamma. Questa è la grandezza della rivelazione.
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...l’individualismo ci porta alla fuga dalla vita comunitaria, e questo fa invecchiare la Chiesa. Andiamo a visitare un’istituzione che non è più madre, ci dà una certa identità, come la squadra di calcio: “Sono di questa squadra, sono tifoso della cattolica!”. E questo avviene quando c’è la fuga dalla vita comunitaria, la fuga dalla famiglia.
Dobbiamo recuperare la memoria, la memoria della Chiesa che è popolo di Dio. A noi oggi manca il senso della storia. Abbiamo paura del tempo: niente tempo, niente percorsi, niente, niente! Tutto adesso! Siamo nel regno del presente, della congiuntura [situazione]. Soltanto questo spazio, questo spazio, questo spazio, e niente tempo. Anche nella comunicazione: luci, il momento, telefonino, il messaggio… Il linguaggio più abbreviato, più ridotto. Tutto si fa di fretta, perché siamo schiavi della situazione. Recuperare la memoria nella pazienza di Dio, che non ha avuto fretta nella sua storia di salvezza, che ci ha accompagnato lungo la storia, che ha preferito la storia lunga per noi, di tanti anni, camminando con noi.
Nel presente - ne parlerò dopo, se ho tempo - una sola parola dirò: accoglienza. Ecco, l’accoglienza. E un’altra che avete detto voi: tenerezza. Una madre è tenera, sa accarezzare.[...] Saper aprire la porta nel presente: accoglienza e tenerezza.
E per il futuro, speranza e pazienza. Dare testimonianza di speranza, andiamo avanti. E la famiglia? E’ pazienza. Quella che san Paolo ci dice: sopportarvi a vicenda, l’un l’altro. Sopportarci. E’ così.
Ma torniamo al testo. La gente che viene sa, per l’unzione dello Spirito Santo, che la Chiesa custodisce il tesoro dello sguardo di Gesù. E noi dobbiamo offrirlo a tutti. Quando arrivano in parrocchia - forse mi ripeto, perché ho fatto una strada diversa e mi sono allontanato dal testo -, quale atteggiamento dobbiamo avere? Dobbiamo accogliere sempre tutti con cuore grande, come in famiglia, chiedendo al Signore di farci capace di partecipare alle difficoltà e ai problemi che spesso i ragazzi e i giovani incontrano nella loro vita.
Dobbiamo avere il cuore di Gesù, il quale «vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Vedendo le folle, ne sentì compassione. A me piace sognare una Chiesa che viva la compassione di Gesù. Compassione è “patire con”, sentire quello che sentono gli altri, accompagnare nei sentimenti. E’ la Chiesa madre, come una madre che carezza i suoi figli con la compassione. Una Chiesa che abbia un cuore senza confini, ma non solo il cuore: anche lo sguardo, la dolcezza dello sguardo di Gesù, che spesso è molto più eloquente di tante parole.
Le persone si aspettano di trovare in noi lo sguardo di Gesù, a volte senza nemmeno saperlo, quello sguardo sereno, felice che entra nel cuore. Ma — come hanno detto i vostri rappresentanti – deve essere tutta la parrocchia ad essere una comunità accogliente, non solo i sacerdoti e i catechisti. Tutta la parrocchia! Accogliere…
Dobbiamo ripensare quanto le nostre parrocchie sono accoglienti, se gli orari delle attività favoriscono la partecipazione dei giovani, se siamo capaci di parlare i loro linguaggi, di cogliere anche negli altri ambienti (come ad esempio nello sport, nelle nuove tecnologie) le possibilità per annunciare il Vangelo. Diventiamo audaci nell’esplorare nuove modalità con cui le nostre comunità siano delle case dove la porta è sempre aperta. La porta aperta!
Ma è importante che all’accoglienza segua una chiara proposta di fede; una proposta di fede tante volte non esplicita, ma con l’atteggiamento, con la testimonianza: in questa istituzione che si chiama Chiesa, in questa istituzione che si chiama parrocchia si respira un’aria di fede, perché si crede nel Signore.
Io chiederò a voi di studiare bene queste cose che ho detto: questa orfanezza, e studiare come far recuperare la memoria di famiglia; come fare affinché nelle parrocchie ci sia l’affetto, ci sia la gratuità, che la parrocchia non sia una istituzione legata solo alle situazioni del momento. No, che sia storica, che sia un cammino di conversione pastorale. Che nel presente sappia accogliere con tenerezza, e sappia mandare avanti i suoi figli con la speranza e la pazienza.
Io voglio tanto bene ai sacerdoti, perché fare il parroco non è facile. E’ più facile fare il vescovo che il parroco! Perché noi vescovi sempre abbiamo la possibilità di prendere le distanze, o nasconderci dietro il “Sua Eccellenza”, e quello ci difende! Ma fare il parroco, quando ti bussano alla porta: “Padre, questo, padre qua e padre là…”. Non è facile! Quando ti viene uno a dire i problemi della famiglia, o quel morto, o quando vengono a chiacchierare le cosiddette “ragazze della caritas” contro le cosiddette “ragazze delle catechesi”… Non è facile, fare il parroco!
Ma voglio dire una cosa, l’ho detta un’altra volta: la Chiesa italiana è tanto forte grazie ai parroci! Questi parroci che - adesso avranno un altro sistema - dormivano col telefono sopra il comodino e si alzavano a qualsiasi ora per andare a trovare un ammalato… Nessuno moriva senza i Sacramenti… Vicini! Parroci vicini! E poi? Hanno lasciato questa memoria di evangelizzazione…
Pensiamo alla Chiesa madre e diciamo alla nostra madre Chiesa quello che Elisabetta ha detto a Maria quando era diventata madre, in attesa del figlio: “Tu sei felice, perché hai creduto!”.
Vogliamo una Chiesa di fede, che creda che il Signore è capace di farla madre, di darle tanti figli. La nostra Santa Madre Chiesa. Grazie!"