Dall'incontro del gruppo MEIC Sapienza di Giovedì 12 marzo
2015, alle ore 18, presso la cappella universitaria, sul tema
"L’ordinamento
giuridico tra Ius et Iustum"
la relazione di Vito D'Ambrosio
TRA GIUSTIZIA E DIRITTO.
Premesse.
Vorrei far precedere questa mia chiacchierata da due premesse:
- La prima è che il contesto nel quale
parlo e mi trovo influenza, e non poco, tutto il mio discorso, che avrà
quindi uno sfondo religioso, anche se una sua gran parte si inserirebbe
tranquillamente anche in un ambiente non religioso;
- La seconda è che, come mi capita spesso,
dopo aver lasciato che il tema si immerga nel mio inconscio, quando
riemerge, mi servo di citazioni come paletti tra i quali far scivolare, e
mantenere, il corso della mia riflessione.
Anche stavolta, quindi, comincerò con qualche citazione, ma, data la
vastità dell’argomento, le citazioni non saranno poche, pur avendo io
provveduto a sfoltirle, ma non ad ordinarle, e potendo fare riferimento anche a
quelle della presentazione dell’incontro,
tratte da Aristotele e,soprattutto, San Tommaso.
CITAZIONI.
Dei 99 nomi di Dio parla lo stesso
Corano “ A Dio appartengono i nomi più
belli: invocatelo con quelli »
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(Corano, VII:180). Di questi faccio notare i nn. 29 e 30, per i quali Allah è chiamato il giudice e
il giusto, con unaa significativa distinzione.
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SALOMONE GIUDICE SAGGIO.
Le due donne si misero a litigare
davanti al re. Allora il re disse: Dunque: una di voi dice che il bambino vivo
é suo figlio, , l'altra sostiene il contrario! Mandò a prendere una spada e ordinò : tagliate in due il bambino vivo e
datene metà a ciascuna. A questo punto la prima donna si sentì gelare il
sangue, perché il bambino vivo era il suo, e gridò Ti prego signore, dà pure a
lei il bambino, ma non farlo uccidere! L'altra invece rispose No, non darlo né
a me , né a lei. Fallo tagliare in due!
A questo punto il re pronunziò il
suo giudizio : Non uccidete il bambino. Datelo alla prima donna: é lei la
madre.
In Israele tutti vennero a
conoscenza della decisione presa da re Salomone e provarono un profondo
rispetto per lui. Si erano resi conto che Dio stesso gli aveva dato la saggezza
necessaria per giudicare con giustizia (I
Re, 3, 22-28).
DALL’ANTICO TESTAMENTO
GDC 2,
16 Allora
il Signore fece sorgere dei giudici, che li liberavano dalle mani di quelli che
li spogliavano … 18 Quando il Signore
suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li liberava dalla
mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice; perché il Signore si
lasciava commuovere dai loro gemiti sotto il giogo dei loro oppressori. 19 Ma quando il giudice moriva, tornavano a
corrompersi più dei loro padri ...
DAL VANGELO:
1. “Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia (τήυ δίκαισΰυηυ), perché saranno
saziati” (Mt. 5,6).
2.
“Non giudicate e Dio non vi giudicherà. Infatti
Dio vi giudicherà con la stessa misura con la quale voi trattate gli altri” (Mt.7, 1-2). Oppure (vers. Greca,
Bibbia dei 70) “Non giudicate affinché non siate giudicati.. Infatti voi
sarete giudicati secondo lo stesso giudizio col quale avete giudicato, e sarete
misurati con la stessa misura con la quale avrete misurato”
SIMBOLO DEGLI APOSTOLI (CREDO):
...siede alla destra di Dio padre
Onnipotente, di là verrà, nella gloria, a giudicare i vivi e i morti.
I PRINCIPI DEL DIRITTO.
Nel suo scritto “Regole” Eneo
Domizio Ulpiano (riportato nel Digesto di Giustiniano) ha così descritto la
giustizia: «Iustitia est constans
et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec:
honeste vivere alterum non laedere, suum cuique tribuere.» (Trad.
“La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a
ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente,
non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo”
LE LEGGI
dal CRITONE di PLATONE (dialogo tra Socrate e le leggi di Atene)
- “Ma chi
di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e
come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione,…costui si è
di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che gli ordiniamo, e se egli
non obbedisce …commette ingiustizia contro di noi in tre modi: primo,
perché non obbedisce a noi che lo abbiamo generato; secondo, perché non
obbedisce a noi che lo abbiamo allevato; terzo, perché, essendosi egli
obbligato ad obbedirci, né ci obbedisce ,né si adopra…di persuaderci
altrimenti”
Dall’ANTIGONE di SOFOCLE
- Creonte:
E hai osato trasgredire questa legge (il suo editto, che proibiva la
sepoltura di Polinice nota mia)
- Antigone.
Non è stato Zeus a proclamarla, e Dike…, non ha stabilito per gli uomini
leggi come questa. Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di
far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte degli dei,
leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre.
Su Antigone v. anche l’articolo di Gustavo Zagrebelsky “Il cuore di
Antigone” su Repubblica 5.5.2005.
OGGI
“La giustizia è amministrata in
nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto
alla legge”
COSTITUZIONE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA, art. 101
Giustizia e diritto: modello e copia.
Un mio collega assai bravo in un recente processo, al centro di accese
discussioni, ha concluso la sua
requisitoria sostenendo che “ci sono dei momenti nei quali diritto e giustizia
vanno da parti opposte; è naturale che le parti offese scelgano la strada della
giustizia, ma quando il giudice è posto di fronte alla scelta drammatica tra
diritto e giustizia non ha alternativa. E’ un giudice sottoposto alla legge;
tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto” E quindi, poiché il giudice,
cioè la Cassazione, ha seguito la sua indicazione ed ha dichiarato prescritto
il reato di disastro doloso, annullando anche il risarcimento del danno alle
migliaia di parti lese (tutti avrete capito che parlo del processo Eternit), si
potrebbe definire questa vicenda con il
detto latino “summum jus, summa iniuria”,
cioé, traducendo “il massimo del diritto e il massimo dell’ingiustizia”.
Io non sono d’accordo con il mio collega, al quale piacciono le tesi
ardite e intelligentemente provocatorie, e cercherò di spiegare le mia ragioni,
anche se il processo Eternit non è l’oggetto del mio discorso (che però non può
nemmeno prescinderne, così come non può prescindere, sotto un profilo parzialmente
diverso, dal più recente dei processi celebri, quello contro Berlusconi,
conclusosi proprio due giorni fa con una decisione che ha suscitato e susciterà
grande clamore, sui mezzi di comunicazione e nell’opinione pubblica).
Ma cominciamo dal principio, cioè dall’importanza del processo in
generale e del protagonista di ogni processo, il giudice. Fin dall’antichità la
figura del Giudice ha un’assoluta centralità, come risulta dal brano dell’Antico
Testamento tratto dal libro, appunto, chiamato GIUDICI, nonché dal 29° nome di
Allah (Il Giudice), e dalla veste che assume il Cristo Risorto, quando verrà
dalla “destra del Padre” a giudicare i vivi e i morti. Il giudice, se volessimo
chiuderlo in una definizione, è “colui che cerca la verità e,
contemporaneamente, misura colpe e meriti, distribuendo premi e sanzioni ” (Mt, 25, 31-46).
E, proprio perché è Dio ed essere giudice, il suo giudizio è definitivo
“…E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita
eterna “(Mt. 25, 46, sul giudizio finale)
Nel modello divino, quindi, il giudizio si conclude sempre con la
giustizia riconosciuta ai fedeli e la condanna inflitta agli empi (Sal.72)
Ovviamente il giudizio di Dio non può essere corretto da nessuno, e quindi, per usare termini nostri, è
“inappellabile” ( e di questa caratteristica si appropriarono anche i popoli
germanici che, nell’alto Medioevo, utilizzarono le ordalie, o giudizi di Dio,
per risolvere questioni particolari).
Questo è il modello al quale si ispirarono le comunità primitive per
rispondere alla innata esigenza di istituire una giustizia “retributiva” anche
qui per usare termini attuali. Non è questa le sede per approfondimenti di
storia del diritto, resta però che, soprattutto per opera dei Romani, nacque e
si sviluppò uno forma di processo, come strumento per applicare il diritto,
anch’esso creazione originaria dei romani, che migliorarono e sistematizzarono
le forme precedenti, vigenti indubbiamente presso le società e civiltà anteriori
Le copie del modello e le garanzie: mai un solo
giudizio.
.
Saltando i secoli, arriviamo all’età nostra, nella quale, in sostanza, il
riconoscimento all’ordinamento giuridico centrale –lo Stato, tradizionalmente-
della potestà di stabilire torti e ragioni, del monopolio dell’uso della forza,
della esigenza di assicurare la stabilità di un modello di relazioni sociali,
punendo chi ne infrangeva le regole, ha dato nuova centralità sia al rito –il
processo- sia ai sacerdoti del rito, principalmente i giudici. Per garantire la
tutela dei diritti contro i detentori del potere, gradualmente i giudici
acquisirono una loro indipendenza, che doveva, appunto, servire a scindere,
diciamo così, la giustizia dal potere (si ricordi la famosa frase sui giudici a
Berlino del mugnaio di Sans-Souci di fronte alle pretese di Federico il Grande
di Prussia, anche se, in quel caso alla fine fu proprio Federico a riconoscere
i diritti del mugnaio, negati dai giudici).
In questa specie di perenne contrapposizione tra titolari del potere e
soggetti passivi del potere, si è sempre
tentato, nell’età moderna, di ricercare un
punto di equilibrio abbastanza stabile, che evitasse assolutamente il ritorno
di una configurazione del potere sciolta (ab-soluta) dal rispetto delle regole
che non fossero gradite.
Le due grandi rivoluzioni del secolo 18°, quella americana prima e quella
francese poi, segnarono l’inizio, non incruento, di un cammino che ci ha
portato ad un progetto organizzativo della società di “garanzia” dei cittadini,
nella quale, cioè, i singoli potessero trovare protezione contro eventuali
ingiustificate pretese egemoniche. Su questo schema, ina una costruzione lenta
e faticosa, si cercò di offrire spazio ed opportunità a quella che,
tradizionalmente, veniva e viene chiamata “giustizia”.
Ma la stessa finalità di evitare configurazioni di potere svincolate da
controlli faceva nascere, nella stessa direzione, dei meccanismi di controllo
anche nei confronti dei giudici, secondo le peculiarità di ogni sistema Paese.
Proprio agli inizi della rivoluzione francese, nel 1790, con due distinti
decisioni legislative, si stabilì che vi fossero solo due gradi nei giudizi
civili e, pochi mesi dopo, si istituì la
Cour de Cassation, per controllare l’applicazione della legge da parte dei
giudici e delle corti (curiosamente, ma forse non solo casualmente, la sede
della Cour, a Parigi, è in un Palazzo, vicinissimo alla cattedrale di Notre
Dame, in uno spazio equidistante tra la vecchia prigione rivoluzionaria, la
Conciergerie, e la Saint Chapelle).
Il modello francese fu seguito da parecchi Paesi nell’area di civil law,
tra i quali anche il nostro.
In Italia la lunga strada per la costruzione di uno Stato unitario portò
ad una pluralità di Cassazioni, riunite finalmente nel 1923 nell’unica attuale,
chiamata da allora Corte Suprema.
Proprio le previsioni costituzionali sulle competenze della Cassazione
forniscono un ulteriore sostegno alla esigenza di non limitare, salvo rarissime
eccezioni, ad un solo momento processuale il compito dei giudici. Infatti il
penultimo comma dell’art. 111 della nostra Costituzione prevede la possibilità
di ricorrere in cassazione contro “le sentenze e contro i provvedimenti sulla
libertà personale”; per quanto riguarda la ricorribilità delle sentenze senza
eccezione, la decisione del legislatore costituzionale fu determinata dalla
inappellabilità, all’epoca delle sentenze di Corte d’assise, che potevano
irrogare persino la pena di morte: Non si volle, cioè ammettere in nessun caso
la possibilità di sentenze sottratte all’esame di un altro giudice, salvo, come
mera possibilità “Si può derogare a tale norma” quelle dei tribunali militari
in tempo di guerra, cioè in una situazione per definizione eccezionale.
Ed anche in ambito europeo, l’art. 2 del Protocollo aggiuntivo n. 7 del
1984 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (approvata a Roma nel
1950), prevede, come regola, il “diritto ad un doppio grado di giudizio in
materia penale”.
Interpreti obbligati?
Però la garanzia del doppio grado di giudizio ha avuto un effetto
collaterale, dannoso ma inevitabile: la possibilità di una diversità di
decisioni tra il primo e il secondo grado. L’indubbio riflesso negativo di
questa eventualità ha spinto i sistemi giudiziari a tentare di limitarne la
possibilità, con interventi rivolti ad incidere
sull’attività dei giudici cercando di limitarne l’estensione. Nel nostro
ordinamento l’esempio più significativo è rappresentato dall’articolo 12 delle
disposizioni sulla legge in generale, le c.d. preleggi, che detta le norme da
seguire nell’interpretazione della legge. La logica e la psicologia dimostrano
senza dubbi la assoluta inefficacia di una tale modalità di intervento, perché
l’interpretazione della legge non è operazione su dati oggettivi, ma su
proposizioni verbali, soggette a plurimi interventi ermeneutici. In altre
parole, non è possibile stabilire a priori una unica interpretazione di insiemi
di parole e frasi, che danno luogo a interpretazioni plurali in proporzione
diretta alla loro complessità; in sintesi si può ragionevolmente sostenere che
i possibili significati aumentano con l’aumentare di enunciati da interpretare.
Il che, ovviamente, si traduce in una serie ampia di interpretazioni possibili
di un testo di legge, che non è mai semplice dal punto di vista linguistico.
O interpreti condizionati?
Altro strumento “ordinario” diretto ad evitare al massimo il contrasto di
interpretazioni, a parte quello più proprio del processo, è l’affidamento ad un
giudice “peculiare” del compito di assicurare l’interpretazione uniforme del
diritto, funzione tradizionalmente chiamata di “nomofilachia” (amore della
legge, dal greco) affidata alla Corte di Cassazione, che riesce ad esercitarla
con grande fatica ed episodicità, dato il carico insopportabile e sempre
crescente di ricorsi che la schiacciano, ed anche di questo bisognerebbe
parlare, ma non ora.
Inoltre e infine, nella lunga storia di dialettica e conflittualità tra
magistratura e politica, la seconda ha cercato, in questi ultimi anni, di
recuperare la perduta supremazia, arrivando infine, con una legge che entrerà
in vigore tra una settimana, a trasformare in senso fortemente restrittivo la
disciplina della responsabilità civile dei giudici, che tanto clamore sta
suscitando nella magistratura italiana.
Limitando a pochi cenni l’incursione sul tema, comincio col notare che
una responsabilità civile dei giudici, ampia e “intimidatoria”, era prevista
nel “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli; non voglio sostenere che
l’ombra di Gelli vada intravista nella buca del suggeritore e degli ispiratori
di questa legge, ma evidenziare che un fortissimo contrappeso alla posizione
della magistratura in Italia veniva vista come necessaria premessa ad una
trasformazione in senso sottilmente ma decisamente autoritario del nostro
ordinamento.
Non è facile prevedere lo sviluppo e l’esito di questa contrapposizione,
ma è molto significativa, per me, la coincidente posizione del Ministro per la
giustizia e del neo eletto Presidente della Repubblica, che entrambi prevedono
un specie di “rodaggio” della legge, al termine e all’esito del quale si potrà
trarre un bilancio e procedere ad una ulteriore riforma. Né va dimenticato che
di una legge simile non c’è tracccia in paesi simili al nostro, ed anzi in Gran
Bretagna sono state illustrate le ragioni per le quali l’autonomia e
l’imparzialità dei giudici non tollerano una responsabilità civile, prevedibile strumento ulteriore di difesa,
quasi sempre delle parti “forti e ricche” del processo.
INTERPRETI
TUTTI E SEMPRE BUONI?
Vorrei subito sfatare una idea tanto diffusa tra i magistrati italiani,
da diventare quasi un luogo comune, che, cioè tutti quelli in toga sono buoni e
quelli senza toga, o con una toga diversa (gli avvocati) sono cattivi, o,
comunque, portatori di interessi distorcenti perché di parte.
Quando si sarà posato il polverone, e sarà calato il clamore, se mai
accadrà, ad un osservatore spassionato apparirà chiaro che ragioni e torti in
questa lunga diatriba tra i poteri della nostra democrazia , in reciproca e
dura contrapposizione, non possono essere divisi con un taglio netto. Nessun
Alessandro, Magno o meno, potrà cioè tagliare con la spada il nodo
intricatissimo di una società cresciuta disordinatamente, cercando e trovando
scorciatoie che attenuassero il rigore del quadro limpido disegnato quasi settanta
anni fa, dai padri costituenti.
Così anche è accaduto per la magistratura, che talvolta, o addirittura
spesso, ha interpretato in modo peculiare
l’autonomia e l’indipendenza riconosciute e previste dall’articolo 114 – “La
magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro
potere”- del Titolo IV della Parte II
della Costituzione, dedicato alla magistratura: spesso, purtroppo, i confini
dell’autonomia e dell’indipendenza sono stati
allargati fino a sfiorare, o talvolta a invadere, gli ambiti
dell’arbitrio e della irresponsabilità. Ma una
ulteriore conseguenza, tutt’altro che strana, è che la magistratura è
stata attaccata molto più quando intendeva esercitare i suoi compiti con
autonomia e indipendenza che quando, scendendo
su ambiti impropri, si trovava sul terreno dei detentori del potere.
In sostanza, e senza citare i numerosi casi a sostegno di quanto ho
detto, il dibattito teorico, e lo scontro pratico, quasi sempre sotterraneo, si
sono centrati sulla dipendenza del giudice “soltanto” dalla legge e sul
funzionamento dell’organo di governo autonomo della intera magistratura, cioè
il Consiglio Superiore della Magistratura, previsto anch’esso nell’articolo 104
della Costituzione.
Quanto al CSM, sono note, e non del tutto infondate, le critiche al suo
funzionamento, condizionato assai più del tollerabile dalla nascita di gruppi
organizzati di giudici all’interno di quella Associazione nazionale che ne
raggruppa la robusta maggioranza. Ed anche sul Consiglio si stanno addensando
nubi pesanti, stando alle parole del presidente del Consiglio che stigmatizza
proprio il ruolo e l’influenza delle correnti di magistrati (quasi che in
Parlamento le cose andassero in modo molto diverso).
Ma del Consiglio parleremo un’altra volta o nel dibattito, se l’argomento
suscita interesse.
Quello che mi preme, e che ci riporta rigorosamente al tema è l’altra
faccia della medaglia, cioè la dipendenza dei giudici “soltanto” dalla legge.
LA LEGGE, IL DIRITTO, LA GIUSTIZIA.
Le legge, abbiamo letto sui nostri libri di diritto al primo anno di
università, è “un comando generale ed astratto” rivolto alla generalità dei
cittadini ed approvato secondo certe specifiche procedure; ma la l’esperienza
di tutti noi ci ha insegnato che non sempre è così, che il comando può essere
specifico e concreto (le famose leggi ad personam) e che, inoltre e purtroppo, il comando non è quasi mai
facilmente comprensibile.
Leggi lunghissime, infarcite di richiami ad altre leggi, piene di avverbi
ed aggettivi indeterminativi: per restare al mio ambito specialistico, è
normale trovare espressioni come “indebitamente” “danno di rilevante gravità”
e, specularmente, “danno di speciale tenuità”, “quantità ingenti” “ragionevole
durata” “velocità non adeguata”. Non è leggenda metropolitana che, qualche
volta, in caso di difficile accordo politico, si approvi una norma di
significato ambiguo, o vago, con l’intesa, talvolta perfino esplicita che
“tanto poi se la sbrigano i giudici”.
Le tecnica legislativa è scaduta in maniera preoccupante, così che
l’interprete, e specialmente chi deve applicarla, si trova in una difficoltà innegabile, che lascia spazio
ad interpretazioni divergenti, o addirittura opposte. Ricordo sempre, sulla
base di una mia esperienza personale all’inizio della carriera, la frase di un
grande giudice, partigiano, famoso fotografo anche, che nel suo libro di
memorie “Esperienze di un magistrato” scriveva :” quando mi trovo davanti ad
una questione difficile, ci rifletto a lungo, per trovare la soluzione più
giusta, poi ne scrivo la motivazione”. La frase suona sconvolgente, forse, o
comunque assai stravagante ad osservatori estranei, ma nella sostanza spesso è
così, solo che non si ha l’onestà intellettuale e la statura professionale di
Peretti Griva per confessarlo apertamente. Ma una prima, solida, spiegazione, o
piuttosto giustificazione è quella che mi fornì un amico filosofo del
linguaggio, il quale mi chiarì che il nostro lavoro ha un margine ineliminabile
di ambiguità, in quanto si basa su “parole che spiegano parole” o, più
sbrigativamente/esattamente, “parole costruite su parole” e le parole spesso
hanno significati plurimi, da sole, o, più spesso, in combinazione con altre
parole.
Lasciando il terreno scivoloso dei significati, proviamo a trovare un
altro elemento “direzionale” che ci possa suggerire una modalità di
interpretazione più solida, e soprattutto, più comprensibile e condivisibile;
la prima risposta ci indirizza ad un dato che è “fuori” dal testo della legge,
e cioè l’intenzione del legislatore, secondo la dizione dell’art, 12 delle
disposizioni sulla legge in generale. Ma, a parte l’osservazione che anche
l’intenzione del legislatore non è sempre facilmente ricostruibile, e che, comunque,
ci si può ispirare a quell’intenzione solo nel caso di senso non univoco delle
parole del testo, la situazione si è complicata dall’istituzione della Corte
Costituzionale, cioè dal 1956; da allora, infatti, il giudice (inteso in senso
molto ampio, secondo l’interpretazione dalla Corte stessa), se dubita che le
legge sia in contrasto con la Costituzione, investe della questione la Corte
Costituzionale, che può anche annullare, in tutto o in parte, la legge portata
al suo esame.
E, come se non bastasse, il panorama si è arricchito di nuove figure,
derivanti dall’adesione dell’Italia all’Unione Europea e a diversi trattati
internazionali; infatti il giudice nazionale non può ignorare né il diritto
dell’Unione, né quello internazionale, basato sui Trattati sottoscritti (il
caso più noto è quello della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo), norme,
però, la cui interpretazione autentica è affidata ad altri organi giudiziari,
la Corte di Lussemburgo per l’Unione e quella di Strasburgo per la Convenzione,
i cui rapporti con il “nostro” giudice delle leggi, cioè la Corte
Costituzionale, non è stato sempre facile e non è ancora del tutto scorrevole.
Tirando una prima conclusione parziale, accertata la presenza di una
pluralità di norme da applicare, provenienti da fonti diverse, comincia a
diventare meno inspiegabile la possibile diversità di interpretazioni, favorita
anche dall’improvvida abitudine di emanare leggi senza preoccuparsi né di
quello che succede nell’intervallo tra il vecchio e il nuovo regime, né di
cancellare le leggi precedenti in contrasto.
La lunga sosta sulla questione della legge (sempre utile il libro di
Zagrebelsky “Intorno alla legge”), ci ha “sviati” dalla traccia del tema,
dettata da Gianfranco: che succede nel confronto/ contrasto tra legge e
giustizia? O, per usare le parole del mio collega Iacoviello, tra diritto e giustizia? Sono, per
cominciare due entità distinte, che possono anche, quindi entrare in conflitto?
La risposta è estremamente difficile, perché bisogna prima risolvere il
problema sul rapporto tra legge e giustizia, il che presuppone, a sua volta, un
chiarimento sulla concetto di giustizia.
La giustizia, per me, è come il tempo per Sant’Agostino, che se nessuno
me lo chiede, mi è chiaro, ma, se qualcuno mi invita a spiegarlo, mi si oscura
(quasi) irreversibilmente; anche su questo tema vi consiglio di leggere un
bellissimo dialogo tra due personalità significative, il cardinal Martini e
Gustavo Zagrebelsky, che si interrogano a vicenda su “La domanda di giustizia”
(ed. Einaudi).
Due spiriti liberi, partendo da posizione diverse e distanti, il
cardinale dalla sua intima religiosità rivisitata, liberata e rinforzata, il
giurista dalle sua solide convinzioni laiche, nel senso di non religiose,
arrivano ad una conclusione (quasi) condivisa, riconoscendo che la domanda di
giustizia è insita nell’uomo, sostanziata nel suo intimo e non limitata ad una
modalità formalistica.
LA FONTE DELLA GIUSTIZIA.
Ricordando, inelegantemente, quello che avevo scritto sul tema,
strettissimamente intrecciato al nostro, del giusnaturalismo, mi sento di
ripetere che, se vogliamo arrivare quanto meno ad una tregua, e non dichiararci
una nuova funesta guerra di religione, dobbiamo procedere a tappe successive,
con la lentezza necessaria ad una adeguata ponderazione. Dato per scontata la
necessità di convivenza, e mirando ad una auspicabile comunanza di obiettivi,
almeno minimi, probabilmente il massimo risultato ad oggi raggiungibile è
quello di riconoscere alcune, o anche una sola, priorità condivisa.
Questa priorità mi sembra di poter individuare nel valore della dignità
della persona. Di dignità, come valore ispiratore e fondamentale, si parla in
più articoli della nostra Costituzione (p.es, art. 3, 27, 32, 36), della CEDU
(p.es. premessa e art. 1), nonché della Dichiarazione Universale dei diritti
dell’Uomo nel cui preambolo espressamente si
fa cenno alla dignità; Questo valore viene quindi accettato e proclamato
indipendentemente dalla sua fonte di provenienza, il che consente di aderire
alla sua proclamazione e difesa sia a chi lo ritiene un portato di una legge di
natura, anteriore a quelle umane, sia a chi la giudica come fissata dagli Dei
(Antigone), sia a chi, come noi, le ritiene una conseguenza della comune
condizione di figli dell’unico Dio.
Questa conclusione, raggiunta forse faticosamente, ma basata su
fondamenta solide, a mio parere, ci può aiutare nell’opera di riportare il
diritto positivo, vigente, al contesto in cui opera la giustizia, utilizzando
gli strumenti posti a disposizione, sia nell’interpretazione, sia nel ricorso
ad altri giudici delle leggi, nazionali o internazionali.
PRIMI SPUNTI DI CONCLUSIONE.
Per non appesantire ulteriormente questo già molto ampio contributo ho
volutamente trascurato profili del tema di complessità non minore, ma che, a
questo punto, possono essere soltanto accennati.
- Il primo è quello relativo alla finalità
del processo, specie penale: il processo serve (dovrebbe servire) ad
accertare la verità “vera” o quella “processuale”, cioè quella raggiunta
in base alle prove (dicevano i romani, “secondo quello che è allegato e
provato”)? Io non credo che ci sia una divaricazione tra i due obiettivi e
proverei a rispondere che il processo mira ad accertare la verità, senza
aggettivi, però secondo le regole del processo stesso. E quindi la verità
del processo è sempre “relativa” cioè quella risultante dalla applicazione
-la più scrupolosa possibile- delle regole che governano il percorso del
processo, perciò la verità del processo non può essere accettata come
verità storica, se non sottoposta alle regole della ricerca storica
(analogo discorso, che accenno appena, va fatto per distinguere la verità
giuridica da quelle etica o politica, il che sembra dimenticato
nell’attuale dibattito cultural-politico-etico, nonché
processual-televisivo in Italia).
- Il secondo è quello affrontato esplicitamente
e in maniera non condivisibile da Iacoviello e, nella motivazione della
sentenza Eternit più in filigrana : non esiste un apriori immutabile di
interpretazione, che sovrasta anche un giudizio di valore in eventuale
contrasto. Può esistere, invece, un percorso di motivazione che giunga a
contrastare il giudizio di valore, ma, data l’estrema mutevolezza
possibile dei criteri di interpretazione, la conclusione per c.d. “ingiusta”
va attentamente motivata proprio sulla impossibilità di applicazione
alternativa di valutazioni che salvino il valore “di giustizia”. Il che,
francamente, mi pare molto difficile, se non impossibile.
- Il terzo, più apparentemente facile, ma
più disorientante per la pubblica opinione, è quello che vede un
succedersi di decisioni opposte nello stesso processo (l’esempio più
recente è proprio il processo Berlusconi): se un giudice condanna e un altro
assolve e il terzo si trova d’accordo o con l’uno, o con l’altro, come si
riesce a spiegare, senza ipotizzare un errore di qualcuno dei tre, data
l’identità di norme e di situazioni? Anche qui è possibile trovare una
risposta, che spiega e non giustifica, o viceversa (sia ben chiaro che
anche io sono rimasto perplesso sia dopo la sentenza Eternit che dopo
quella Berlusconi): basta riflettere che le situazioni non sono identiche
perché cambia la persona di chi decide, e non è una variazione di poco
peso, in un ambito nel quale abbiamo visto quante siano le variabili in
gioco. Se cambia il punto di vista, può cambiare anche la descrizione di
quanto si vede, pur trattandosi, in apparenza, dello stesso panorama.
Inoltre alla Cassazione compete l’esame della sentenza contro cui si
ricorre, non dei fatti posti alla base della decisione.
PER CHI SUONA LA CAMPANA.
All’inizio del libro di Hemingway dallo stesso titolo, dal quale è stato
tratto un film mediocre, sono riportati alcuni versi da una poesia del poeta e
mistico inglese John Donne, morto nel
Seicento; i versi dicono: “La
morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. E
dunque non chiedere mai per chi suona la campana:
suona per te”.
Così anche io, stasera, cerco di
capire per chi suona la campana, che, alla fine di questa riflessione, sembra
rintoccare soltanto per i giudici, o, al massimo, i giuristi, cioè quelli che
si occupano di diritto.
E invece non è così: se il valore della dignità dell’uomo è universale,
la sua difesa, la sua sottolineatura, la sua riaffermazione non può essere
questione riservata a pochi, ma interessa tutti. Tutti, perciò, siamo coinvolti,
ognuno nel suo specifico. Così chi si occupa di diritto sia attento anche ai profili sostanziali,
perché la forma non può e non deve
annullare la sostanza (che è cosa diversa dal sostanzialismo, se intendiamo con
quel termine un atteggiamento troppo disinvolto verso le regole, e non deve
rifiutare il valore positivo del formalismo, in uno Stato totalitario, come ci
ha dimostrato un grande giurista democratico durante il nazismo, Hans Kelsen);
chi il diritto lo applica si impegni allo spasimo per mantenere aperta la
possibilità di una applicazione che sia ispirata al rispetto della dignità
della persona, valore religioso ma anche laico; chi svolge qualunque altro
compito nella società sia attento a trovare, e salvare, percorsi di tutela di
quel valore; chi, infine, sia un cittadino, cioè tutti, ispiri le proprie
scelte politiche e di vita alla centralità della persona. Noi cristiani, infine,
se vogliamo essere, o diventare, il sale
e la luce (Mt, 5, 13-16) in attesa
del Regno, lievito nella pasta del mondo (Mt.
13, 33), guardiamo alla dignità delle
persone con l’amore dovuto ai nostri fratelli in Cristo.
E adesso basta.
Con un immenso grazie per la vostra pazienza e mille scuse per non aver
trovato, come disse un grande autore antico, il tempo sufficiente per essere
più breve.
Roma, 12 marzo 2015.
Vito D’Ambrosio.
Nota: pubblico con il consenso dell'autore che ringrazio di cuore.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in san Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli