INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Questo blog è un'iniziativa di laici aderenti all'Azione Cattolica della parrocchia di San Clemente papa e manifesta idee ed opinioni espresse sotto la personale responsabilità di chi scrive. Esso non è un organo informativo della parrocchia né dell'Azione Cattolica e, in particolare, non è espressione delle opinioni del parroco e dei sacerdoti suoi collaboratori, anche se i laici di Azione Cattolica che lo animano le tengono in grande considerazione.

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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venerdì 31 ottobre 2014

Un lavoro da fare

Un lavoro da fare



 Un gruppo di Azione Cattolica non lavora solo a beneficio dei suoi membri. In questo si differenzia, ad esempio, da un circolo ricreativo o da un club culturale. Ma anche da un gruppo di spiritualità. Si cerca di mirare al perfezionamento personale, ma non per sé stessi, per mettere, come si dice, “la ciliegina sulla torta”, ma per fare un lavoro nella società con cui si è connessi, di cui si è parte, a partire dalla collettività religiosa.
 C’è ancora un lavoro da fare nella società in cui viviamo, oggi? Alcuni ne dubitano. Sono coloro che pensano che la fede debba rimanere solo nella sfera personale. E anche quelli che ritengono che il compito di cambiare la società debba essere lasciato a potenze soprannaturali. Storicamente l’Azione Cattolica l’ha sempre pensata diversamente. L’ “Azione” dell’Azione Cattolica è stata infatti, fin dagli inizi, azione nella società.
 Viviamo in tempi eccezionali, per ciò che riguarda le nostre collettività di fede. Per molti versi essi sono ciò che in Azione Cattolica si è sempre sperato che si realizzasse. Possono anche essere considerati come il frutto di un lavoro che si è fatto da almeno un secolo nella società. Eppure tutto ciò ci coglie, sembra, impreparati. E’ un “noi” che ci comprende, come aderenti ad un gruppo parrocchiale di AC, ma che comprende anche quelli che vivono accanto a noi  e che, in questo senso, possiamo definire “parrocchiani”. Vedo poca consapevolezza della grande rilevanza di ciò che sta accadendo. Uno dei lavori da fare è appunto quello di generarla, in noi e negli altri. Comprendere bene il senso degli eventi. Questo comporta uno sforzo ulteriore di apertura.
 Penso che non sarebbe male proporsi, per l’anno associativo che si è appena aperto, di animare una iniziativa con quelle finalità. Che non si rivolga solo a noi, ma che ci presenti all’esterno.
 C’è infatti un lavoro da fare, ma mancano le forze, la gente per farlo. Non dobbiamo considerare un destino inesorabile e incontrastabile quello di essere un gruppo con età media piuttosto alta. Farlo significherebbe specializzarsi nella memoria delle cose passate, ciò che gli anziani sanno fare (ma non sempre).
 Negli interventi che seguiranno, riprenderò il discorso avviato la scorsa estate, sulla scorta di interessanti letture che ho fatto. Lo scopo sarà appunto quello di motivarci ad un’apertura verso gli altri. Cercherò, nel contempo, di seguire gli eventi dei nostri giorni, la cronaca, e di capirne il senso.
 Uno di questi eventi è stata la beatificazione di Giovanni Battista Montini. Non si è trattato solo della glorificazione di un sovrano religioso. Per certi versi il Montini fece molte delle cose più importanti della sua vita prima  di divenire tale. Possiamo quindi dire che è molto importante anche la figura del giovane Montini, caratterizzata da un particolare sforzo di apertura verso la cultura del suo tempo che attraversò varie fasi, maturando e arricchendosi  negli anni. Il Montini fu particolarmente vicino all’Azione Cattolica, nel suo ministero tra gli universitari e poi nel Movimento Laureati. Per questo, riflettendo sul suo esempio di vita, possiamo meglio motivarci nel lavoro che oggi ci sta dinanzi.

 Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli

giovedì 30 ottobre 2014

La proprietà, il furto e la denuncia del furto


La proprietà, il furto e la denuncia del furto 
 
Nella riunione dell'altroieri del nostro gruppo di AC si è accesa una vivace discussione sulla proprietà e sul furto.
  C’è stato chi ha sostenuto che il nostro programma religioso di amore per i nemici dovrebbe indurci a non denunciare il furto subìto. Diversi altri sono insorti dicendosi in disaccordo.
 Io non ero presente. Ero a un corso di aggiornamento a Firenze. La materia mi interessa professionalmente, perché faccio il magistrato e sono anche un credente.
 Osservo che bisognerebbe evitare di proporre posizioni oltranziste in materia di fede. Chi vuol seguire un ideale di spoliazione dei beni personale, sull’esempio di alcuni santi del passato, lo faccia, ma senza pretendere che questa diventi una regola generale. C’è il rischio, infatti, facendo diversamente, di allontanare le persone dalla fede religiosa.
 La storia delle civiltà umane ci dimostra chiaramente che si è sempre combattuto il furto, predisponendo una reazione collettiva: in termini moderni, una polizia, dei giudici, delle sanzioni. E questo perché il furto non è  solo un danno privato, ma una lesione alla società, un attacco al bene collettivo della sicurezza pubblica.
 Il dato biblico non fa eccezione. Nei Dieci Comandamenti c’è infatti quello di “ non rubare”. L’era cristiana non ha cambiato le cose. L’insegnamento evangelico ci ha solo dato una direttiva più forte a non legare il nostro cuore ai beni materiali, perché in questo modo ci inaridiamo, ne viene inquinata la nostra spiritualità. “Non di solo pane vive l’uomo”. L’eccessivo attaccamento alle ricchezze ci porta ad essere spietati con gli altri. In questo senso sono stati storicamente interpretati alcuni detti evangelici che sembrerebbero andare in direzione contraria al comandamento biblico che vieta il furto, come quello che dice che se ci prendono il mantello dobbiamo dare anche la tunica (Lc 6,29) o viceversa (Mt 5,40). Essi non sono centrati sul diritto di proprietà ma sulle nostre relazioni con gli altri, che devono, in un’ottica evangelica, essere improntate a una giustizia superiore.
 Anticamente il diritto sui beni era essenzialmente legato al proprio essere parte di una collettività sociale. In termini moderni: si era cittadini  e dunque si era ammessi a possedere dei beni. Questa è fondamentalmente anche l’impostazione biblica. I beni della terra sono donati a un popolo e ciascuno deve goderne secondo il suo bisogno, senza essere insensibile alle necessità degli altri. Questa impostazione è passata nella teologia della nostra fede.  In Europa essa è stata poi teorizzata giuridicamente combinandola con i principi tratti dal diritto romano. Quest’ultimo aveva come principale obiettivo il mantenimento dell’ordine, per evitare che i cittadini corressero alle armi per difendere le loro pretese. Nel Medioevo, infine, San Tommaso riprese teologicamente e filosoficamente il dato biblico sottolineando che il diritto deve tendere ad affermare il bene comune, quindi legando i diritti individuali sui beni della vita al benessere della società nel suo complesso.
 Dal Cinquecento si è cominciato invece a considerare la proprietà come parte dei diritti  naturali  degli esseri umani, non legati all’appartenenza a una specifica collettività, come il diritto alla vita e all’integrità fisica. Questa impostazione si è sviluppata fino a inserire il diritto di proprietà tra quelli fondamentali  degli esseri umani, perché indispensabili per garantire la loro dignità sociale. In particolare il diritto di proprietà distingueva i liberi dagli schiavi. Questa linea di pensiero è riflessa nella dottrina sociale della Chiesa di ogni tempo, in particolare in quella dell’era contemporanea, iniziata nel 1891 con l’enciclica Rerum Novarum  [=Sulle novità] del papa Leone 13° (in particolare, in quest’ultimo documento, in polemica con l’ideologia socialista per la quale la proprietà era un furto, trovava sempre alla base un abuso a danno dei più deboli.
 Nelle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, quindi dalla metà del Novecento, si è accentuato nuovamente il carattere sociale della proprietà. Ciò si nota nella nostra Costituzione (1948) e nella  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali (1955). Le persone hanno diritto al rispetto dei propri beni secondo quando disposto da leggi che tengano conto anche della pubblica utilità, della funzione sociale, e dell’obiettivo di consentire a tutti di possedere ciò che necessita loro nella vita. In questo quadro è solo una legge, una decisione adottata con procedure legali da una nazione, che può stabilire limiti alla proprietà a fini di equità sociale.
 Riassumendo: il rispetto dei beni individuali è ritenuto indispensabile per il mantenimento della dignità umana. E’ per questo che il diritto di proprietà è protetto ed è anche per questo che può essere, per legge, anche limitato. Infatti in una società democratica tutti hanno diritto alla propria dignità sociale.  Lo stato non può ledere il diritto di proprietà se non in base a procedure legali e per finalità sociali: le collettività non sono più totalmente arbitre del diritto di proprietà, esso non è stabilmente inquadrato tra i diritti fondamentali della persona umana che va rispettato a prescindere dalle appartenenze collettive.
 Gli stati stabiliscono, in base a questi principi, un’organizzazione per la prevenzione dei furti e per la punizione dei colpevoli. E’ la lotta al crimine. Essa richiede la collaborazione di tutti nell’interesse generale. Ciò avviene denunciando i reati, comunicando alle autorità di polizia ogni informazione utile per l’individuazione dei colpevoli e con la testimonianza in giudizio. Queste procedure sono necessarie per proteggere realmente la proprietà e la dignità delle persone che ad essa è collegata. Infatti un diritto che viene riconosciuto e affermato, ma non che non viene in concreto difeso e attuato è come se non esistesse. In quest’ottica la denuncia del furto, per quanto non obbligatoria per legge (solo per i crimini più gravi la legge fa obbligo di denuncia), è utile nel quadro della protezione sociale contro il crimine e non è assolutamente manifestazione di egoismo o di spirito di vendetta contro il colpevole. Gli autori dei reati vengono puniti con procedure legali, che tengono conto dell’esigenza di un affidabile accertamento della verità e della finalità di rieducazione dei colpevoli dei reati. Denunciare il furto è manifestazione di spirito civico. Non farlo può invece essere manifestazione di sfiducia nelle istituzioni, di scarso  spirito di solidarietà  sociale e talvolta anche di viltà, preferendo non esporsi per timore delle reazioni dei criminali.  Ricordiamoci che in molte parti dell’Italia, l’omertà, il non denunciare i crimini, è pretesa dalle organizzazioni criminali con minaccia di gravi ritorsioni.
 A mio parere, in definitiva, il comandamento dell’amore per i nemici, se ci vieta di agire per spirito di vendetta, non ci vieta invece di denunciare alle autorità il furto patito. La denuncia, infatti, è una manifestazione e una riaffermazione della propria dignità sociale, lesa da quello che, non dimentichiamolo mai, è un reato, una violazione criminale, un fatto che colpisce non solo il singolo ma anche la collettività sociale.  
 
 Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 28 ottobre 2014

Noi verso la vita eterna


Noi verso la vita eterna

Nelle mie meditazioni serali sto utilizzando da qualche tempo un libro di Carlo Maria Martini sulla vita eterna, che, in realtà, tratta più che altro del passaggio a quella vita dalla vita fisica, quindi della fine di quest'ultima. Il libro è l'ultimo lasciatoci da Martini, quando lui stesso era su quella frontiera.
 Nella mia lunga esperienza di malattia mi sono spesso trovato a fianco di persone che dovevano affrontare quella prova. In ospedale diverse persone mi sono morte nel letto a fianco al mio, dopo che avevo parlato di questi temi con loro, e l'avevo fatto da persona di fede, naturalmente secondo le mie capacità e la mia formazione.
 Con i compagni di sventura ci si apre di più, cadono remore, ritrosie ed esitazioni che si hanno verso chi non condivide veramente la nostra sorte e ci è, per questo, in qualche modo estraneo. Tale è spesso la condizione del prete e delle altre persone che cercano volenterosamente di dare un conforto spirituale al malato grave o a chi è molto anziano e si sente venire meno.
 Qualche volta i segni della fine si palesano sul volto di persone che ci sono vicine nella vita di tutti i giorni, lì dove di solito non ci si pensa, dove si cerca di non pensare a queste cose, a differenza di ciò che accade, ad esempio, ai malati gravi negli ospedali o ai soldati in guerra.
 In quei momenti si sente la grave insufficienza di gran parte dei discorsi che sul tema si fanno in religione. Molti di essi appaiono addirittura come disumani, laddove sembrerebbero pretendere da una persona di fede  una disinvoltura di fronte alla fine della vita che, in realtà, nessuno veramente ha, se non forse, per ciò che ho letto e per quello che mi è stato raccontato, in alcuni momenti dei soldati in guerra. Certe volte, allora, la nostra angoscia di fronte alla prospettiva della fine, nostra o delle persone che per noi contano, viene superficialmente bollata come mancanza o tiepidezza di fede. Martini non cade in questo (frequente) errore e ciò perché scrive essendo personalmente nella condizione di cui tratta, su quell'estrema frontiera che dopo poco tempo effettivamente passò.
 Che dire a una persona sul cui volto scorgiamo, con dolore, i segni della fine?
 Spesso ci sforziamo di convincerla che si sbaglia nei suoi timori, che quindi la fine non è realmente vicina. Ma il morente capisce bene, in certi momenti e condizioni, la falsità di ciò che gli si dice. La fine verrà inevitabilmente e lo sa. Non è in nostro potere di prolungare indefinitamente la vita fisica. Anche la scienza medica, che ai tempi nostri ottiene risultati che appaiono miracolosi, ad un certo punto deve arrendersi. Negare tutto ciò, da parte di chi cerca di consolare chi è vicino alla fine, significa in realtà allontanarsi atterriti da lui e dalla sua vicenda umana. Ci si scosta da un'esperienza insopportabile e da colui che la sta vivendo e subendo, il quale è così lasciato veramente solo. "Quando si muore, si muore soli", cantò Fabrizio De Andrè, in una sua bella e terribile lirica. È quello che ho constatato in molte delle occasioni in cui mi sono trovato dinanzi alla morte altrui, sia in ospedale che nel mio lavoro, in cui periodicamente mi devo confrontare con questi problemi.
 E allora, la religione non conta nulla, quando ci si avvicina alla fine? E ciò nonostante la grande importanza che si dà nella nostra fede al tema della vittoria sulla morte?
 La fede e, in particolare, la religione possono contare invece, e molto. È possibile infatti, da persona di fede, affrontare la fine come una sorta di liturgia religiosa in cui non si è più soli e, quindi, non essendo più soli, le parole della fede, che ci hanno tanto sostenuto e motivato in tanti altri momenti della vita, possono fare altrettanto anche nelle nostre ultime manifestazioni della nostra vita. Perché, bisogna capirlo, anche la vita all'estremo confine è pur sempre vita. Non bisogna però dare per scontato che ciò accada sempre e ciò anche nelle persone che hanno fede autentica e forte. Dobbiamo ripudiare la tentazione di considerare segno di mancanza di fede o di fede debole o insufficiente quando ciò non accade, di farne quindi una sorta di addebito al morto, per cui poi in qualche modo lo si disconosce come persona di fede, sbottando che, sì, "dicono" che fosse una "persona buona", ma "io non la conoscevo". È crudele, e soprattutto non doveroso e inutile, pretendere dalle persone una sorta di eroismo religioso che, nelle concrete condizioni della fine, non può essere di tutti. Anche noi, quindi, non proponiamoci, nella nostra personale fine, un tale obiettivo. Farlo serve solo ad accrescere la sofferenza. Accettiamo dunque di poter vivere quei momenti in un'angoscia infinita e anche nel dubbio. In fondo siamo solo esseri umani, non angeli. Eppure effettivamente, nonostante tutto, certe volte ci pare di essere molto più degli angeli, proprio per la nostra sofferente condizione umana: questo fu compreso molto bene dell'antico ebraismo.
 Sappiamo bene che le narrazioni della fine della vita di molti santi sono false, sono come si dice "pie bugie", racconti aggiustati dai confratelli e agiografi del morto, per farli corrispondere a ciò che ci si aspetta, e addirittura si pretende, da un "perfetto" credente che si approssima alla fine. Quegli esempi non sono attendibili per chi deve affrontare la propria personale fine e possono essere fuorvianti per coloro che si vogliono consolare e sorreggere. I consigli di Martini invece non suonano falsi, perché si confrontano con verità ed empatia con la realtà della nostra umanità. Gesù stesso provò angoscia avvicinandosi alla fine, è scritto; lo ricorda Martini. La fine viene inevitabilmente e ci è difficile capirne il senso religioso e soprattutto accettarlo nella nostra vita personale: la fine della vita, dunque, come "nostra" fine. 
 La fine biologica degli individui è indispensabile per l'esistenza delle specie viventi, ci dicono gli scienziati. Lo capiamo, certo, ma in fondo non lo accettiamo quando ciò ci riguarda personalmente. E la religione non ci offre realmente argomenti convincenti per accettarlo: alla fine infatti dobbiamo religiosamente riconoscere che "tutto è mistero". Anzi certe volte la religione ci rende le cose più difficili, imponendoci di trovare un senso alla cosa tremenda che ci sta accadendo secondo certe prospettive, in particolare quella di un Creatore buono, che non è particolarmente evidente in certi momenti.
 Verso la fine della vita non dobbiamo aspettarci particolari consolazioni dall'esterno, da ciò è da chi ci attornia, o anche da realtà soprannaturali. Anche se, naturalmente, non mi sento di escludere che avremo effettivamente, dopo tanto dolore, la sorpresa e la gioia di incontrare un angelo del Cielo che ci accompagni in quell'altra realtà in cui religiosamente abbiamo tanto creduto. Ciascuno avrà modo di constatarlo direttamente. Ma la vera consolazione viene da qualcosa che ciascun credente o non credente trova dentro di sé, in particolare avendolo costruito nel corso della sua vita ma talvolta avendolo addirittura come dotazione naturale, innata; qualcosa che talvolta emerge, ad esempio, nei condannati a morte davanti al plotone di esecuzione. Una spinta interiore a mantenere una propria dignità anche nel momento della fine. Come ci si riesce e in che modo può essere una consolazione?
  Credo di averlo capito, in base alla mia personale esperienza di vita. È una consolazione perché è un modo di fare ancora qualcosa per gli altri e così di essere legati a loro fino all'estremo, vincendo la forza potente che ci conduce lontano da loro, che ci esclude da loro. Si vive così in una prospettiva altruistica, quella che,ad esempio, ci ha tanto motivato nel nostro ruolo di coniugi e genitori. La prospettiva altruistica dà dignità alla fine della vita e ci sorregge realmente in quei momenti, restituendoci la dignità che ci è essenziale per vivere umanamente la fine.
 Negli ultimi momenti dobbiamo pensare agli altri, a cominciare naturalmente da coloro a cui siamo legati dai più forti vincoli affettivi. Dobbiamo dedicare a loro la nostra fine. È così che, in fondo, può essere interpretato l'esempio di Gesù nell'Orto degli Ulivi e sulla Croce. È però una via che anche i non credenti o i credenti in altre fedi possono percorrere e di fatto percorrono. Non dobbiamo presumere in modo arrogante che solo una persona della nostra fede possa morire con dignità altruistica.
 Nei momenti estremi dobbiamo tenere presenti i nostri cari, in particolare quelli che da noi biologicamente sono originati, i figli e i nipoti. Cercare di vedere rappresentati in loro l'intero genere umano, di oggi e di ogni tempo, passato, presente e futuro. Che la nostra fine sia significativa per loro e renda significativa anche la loro, quando inevitabilmente verrà!  Preghiamo per loro nell'ora della nostra morte e così anch'essi preghino per noi. In questo modo si fa spazio anche a loro accanto a noi che stiamo finendo, creando quello spazio liturgico, veramente di Chiesa in senso anche soprannaturale, che può rendere significativamente  "umana" la fine della nostra vita, sottraendola al suo senso puramente biologico, fisico. Come si vede, è un liturgia, questa di cui parlo, non fatta di chiacchiere e di biascicamenti di formule, ma di atteggiamenti interiori. Essa può effettivamente essere fatta a partire dalla nostra fede e allora la redime da certe astrattezze, inutili durezze e anche vanità che qualche volta scaturiscono da teologie approssimative, pretenziose e anche male assimilate.
 E così sia, amen, amen.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli

domenica 19 ottobre 2014

Domenica 19-10-14 – 29° Domenica del Tempo ordinario – Letture e sintesi dell’omelia della Messa delle nove

Domenica 19-10-14 – 29° Domenica del Tempo ordinario – Lezionario dell’anno A per le domeniche e le solennità –colore liturgico: verde - Letture e sintesi dell’omelia della Messa delle nove

Osservazioni ambientali: temperatura 25°; cielo: sereno: è una magnifica ottobrata romana, ideale per visitare i più bei parchi della città e le sue antiche vestigia. Temperatura:  25° C. Canti: ingresso, Noi canteremo gloria a te; offertorio: Guarda questa offerta; Comunione, Symbolum 77;  canto finale, Andate per le strade.
Il gruppo di AC era nei banchi a sinistra dell'altare, guardando l'abside.

Buona domenica a tutti i lettori!


Prima lettura
Dal libro del profeta Isaia (Is 45, 1, 4-6)


 Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: “Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiamo dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri”.

  

Salmo responsoriale (dal salmo 95 (96) )

Ritornello:
Grande è il Signore e degno di ogni lode


Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.


Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dei.
Tutti gli dei dei popoli sono nulla,
il Signore  invece ha fatto i cieli.


Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.


Prostratevi al Signore nel suo santo atrio.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: “Il Signore regna!”.
Egli giudica i popoli con rettitudine.


Seconda lettura
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Tessalonicesi (1Ts, 1,1-5b)


Paolo e Silvano e Timoteo alla  Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.



Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,15-21)


In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, per dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo.” Ed essi presentarono un denaro. Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” Gli riposero: “Di Cesare”. Allora disse lor: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.



Sintesi dell'omelia della Messa delle nove


 Siamo qui, in questa messa, per celebrare gli eventi pasquali della morte e resurrezione del Signore, della nostra liberazione dalla schiavitù della morte. Non lo abbiamo meritato. E’ Dio che ci ha convocati, attraverso la Chiesa. Questa è veramente una bella notizia.
  Nella prima lettura si narra di quando Ciro divenne re di Persia e liberò gli israeliti che erano stati deportati a Babilonia. Il profeta vi vede l’opera di Dio. Dio agisce sempre per mezzo di persone concrete, servendosi anche di un credente di altra fede come Ciro.
 Nel Vangelo si racconta di una volta in cui Gesù fu messo alla prova dagli discepoli dei farisei. Gli chiesero se fosse lecito pagare il tributo all’occupante romano, all’imperatore, a “Cesare”. Comunque rispondesse lo si poteva contestare. Lo si poteva accusare di fomentare la rivolta contro i romani se avesse detto che non era lecito, o di violare un comandamento religioso se invece avesse detto che era lecito. I farisei si erano infatti consultati per farlo cadere in fallo.
 Gesù chiede di mostrargli la moneta romana che veniva utilizzata per pagare il tributo ai romani e, fatto notare che recava l’effigie dell’imperatore, osserva che essa poteva essa  restituita a Cesare, perché da lui proveniva. Pronuncia poi l’insegnamento “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Esso non significa porre Cesare e Dio sullo stesso piano. La moneta utilizzata per il tributo recava l’immagine di Cesare e all’imperatore poteva essere restituita. L’essere umano, secondo quello che si legge nel libro della Genesi, è fatto a immagine di Dio e a Dio è destinato. Si tratta di una dimensione molto superiore all’altra.
 Dio ci raggiunge sulla nostra croce, lì dove soffriamo, viene a liberarci dalle nostre schiavitù. Lo fa mediante Gesù. Noi dobbiamo lasciarci liberare, innanzi tutto da quella schiavitù che consiste nell’essere legati solo a se stessi. Gesù è veramente “Signore”, kìrios  secondo l’espressione greca usata nel Nuovo Testamento: ha veramente il potere di liberarci.  Ma come ci raggiunge? Non è un fantasma che incontriamo per la via. Ci raggiunge per mezzo della sua Chiesa. Ma noi siamo Chiesa. E allora, specialmente oggi, nella Giornata missionaria mondiale, dobbiamo sentirci tutti impegnati a portare Cristo al mondo.
 Coraggio, dunque: cerchiamo di risplendere nel mondo come astri, tenendo ferma la parola di verità.


Sintesi di Mario Ardigò, per come ha inteso le parole del celebrante – Azione Cattolica in San Clemente Papa– Roma, Monte Sacro Valli



Avvisi parrocchiali:

- oggi alle 10:30 in piazza San Pietro Giovanni Battista Montini, il papa Paolo 6°, che regnò tra il 1963  e il 1978, viene proclamato beato;
- Questa domenica si celebra la Giornata missionaria mondiale. Il parroco ha ricordato l’importanza dell’azione missionaria nel mondo e della grande fede che la sorregge. Ha ricordato che, durante il suo recente viaggio in Marocco, sull’aereo ha incontrato una suora missionaria che andava in Senegal per aiutare i malati di Ebola. Chi dà a questi missionari, ha chiesto, questo grande coraggio, se non la loro grande fede. Contribuendo alle spese per le missioni possiamo partecipare a questa grande azione di fede;
- 22 ottobre 2014: si celebrerà la festa liturgica di san Giovanni Paolo 2°;
- 24 ottobre 2014: si celebrerà la festa liturgica di san Luigi Guanella, fondatore dell’Opera omonima per l’assistenza di vecchi cronici o abbandonati, minorati fisici e psichici, fanciulli orfani o bisognosi, in Italia e all’estero e di due Congregazioni religiose dedite a tale attività assistenziale;
-25 ottobre 2014: si celebrerà la festa liturgica del beato don Gnocchi, promotore di opere assistenziali per gli orfani, i piccoli invalidi e i bambini malati di poliomielite;
-si segnala il sito WEB della parrocchia:


Avvisi di A.C.:
- la riunione infrasettimanale del gruppo parrocchiale di AC si terrà il 21-10-14, alle ore 17, nell'aula con accesso dal corridoio dell'ufficio parrocchiale. I soci sono invitati a preparare una riflessione sulle letture di domenica 26-10-14, 30° del Tempo ordinario: Es 22,20-24; Sal 17 (18); 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-14.
- si segnala il nuovo sito WEB dall'AC diocesana: www.acroma.it
- si segnala il sito WEB www.parolealtre.it , il nuovo portale di Azione Cattolica sulla formazione;
- si segnala il sito WEB Viva il Concilio http://www.vivailconcilio.it/
iniziativa attuata per conoscere la storia, lo spirito e i documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e per scoprirne e promuoverne nella società di oggi tutte le potenzialità.

-si segnala il blog curato dal presidente http://blogcamminarenellastoria.wordpress.com/

Ripartire


Ripartire

 

 

 Sul giornale che leggo abitualmente, ieri era pubblicato un articolo sull’assemblea del Sinodo sulla famiglia appena concluso che iniziava riportando queste parole, attribuite a un sacerdote:
 
“Nel fine settimana celebro cinque messe, una al sabato e quattro la domenica. Tra qualche anno ne basterà una per tutto il weekend.
 Almeno in Europa, non ci si aspetta più niente da Gesù. Uno crede di avere già tutto: cellulare, centro commerciale, magari la “spa”. E che se ne fa di Cristo, della fatica che richiede seguire la sua strada: la vita morale ce la si aggiusta secondo convenienza. Si vive in orizzontale, il trascendente è una rottura di scatole. E la colpa sarebbe tutta della Chiesa? Mah.”
 
 Considerazioni simili, sconsolate, le abbiamo sentite tutti anche dai sacerdoti che ci sono più vicini. E’ la manifestazione della crisi del loro ministero. Si sentono ridotti a funzionari del sacro, sempre più specializzati nel settore degli anziani. Si lamentano di celebrare tanti funerali di gente che non hanno mai conosciuto, e lo dicono anche, addirittura, nelle omelie funebri. Bisogna dire che spesso l’estraneità è reciproca. La gente che viene alle messe funebri non di rado manifesta poca familiarità con le liturgie religiose, non risponde a tono, non canta, non sa quando deve stare seduta e quando in piedi. Fa parte della gran massa delle persone che non viene in chiesa, la maggioranza della popolazione italiana. Allora il celebrante, dopo aver chiarito che non conosce il morto, parla loro di Cristo, una persona che, lui, pensa di conoscere meglio. Ma la gente che è in chiesa non è per Cristo che è lì, non lo conosce e non lo vuole conoscere, perché non sente di avere bisogno di lui; è lì per il morto, da cui però il sacerdote prende le distanze. La comunicazione è interrotta e impossibile. Mancano spazi di mediazione. E i più giovani, dove sono? Ce ne sono pochi effettivamente. Li portano in chiesa per la prima comunione e poi se ne vanno. Alcuni, sempre meno, ritornano in chiesa per sposarsi. Poi, a volte, li si rincontra, per così dire, da morti, ma a quel punto li si sente come estranei. E, in definitiva, in quell’occasione essi non entrano in chiesa di loro volontà, ma vi sono solo portati, come quando erano bambini.
  Potrebbe sembrare strano che un sacerdote si lamenti dei troppi funerali che fa. La morte fa parte dell’esistenza umana ed è stato sempre storicamente compito di chi si è dedicato delle cose sacre, nella nostra e in altre religiose, occuparsene. La nostra fede del resto è centrata sulla convinzione di una vita oltre da morte e, è scritto, se si perde la fiducia in essa la nostra fede sarebbe addirittura vana. Durante le ultime guerre mondiali ci furono milioni di morti, in gran parte gente giovane, in un breve arco temporale. Vennero celebrati funerali su scala, per così dire, industriali. Ma il clero era in fondo  più fiducioso e motivato di oggi. Perché? Forse perché a morire era gente più giovane dei morti di oggi? La morte dei giovani in battaglia è più bella, come sostenevano gli antichi poeti greci?  Non dovrebbe essere più normale che a morire siano i più anziani?
  In realtà dietro il lamento per i troppi funerali di anziani di cui i sacerdoti devono occuparsi si sente una sorta di rimprovero verso noi laici. La società che abbiamo costruito ha reso inutili Cristo e i suoi ministri. Non siamo stati capaci di mantenere i nostri figli nella Chiesa e ne abbiamo generati troppo pochi, per egoismo. Ecco che ora ci troviamo in una società con molti, troppi anziani, e con la gente più giovane che è estranea alle cose religiose. Ed in effetti questo dei molti anziani è un dato confermato dalla scienza demografica. Quest’ultima ci dice anche, però, che si tratta di una situazione destinata a risolversi, nel giro di un centinaio di anni. Un periodo molto lungo per la vita di un essere umano. Non vedremo quindi, noi che viviamo oggi, la nuova era. E quello che vedremmo forse non ci piacerebbe. Perché l’etnia italiana sembra destinata a divenire decisamente minoritaria. Se ad essa si ancorano i destini della nostra fede religiosa, si può temere che anche quest’ultima lo diventi veramente, non solo come oggi in cui minoritaria è solo la pratica religiosa, ma la maggior parte delle persone che vivono in Italia parlano di religione utilizzando concetti appresi nelle nostre chiese. Una delle soluzioni proposte è quindi quella di fare molti più figli e alcuni ci si impegnano anche.  Ma non è cosa per tutti. In alcuni casi significa voler ricacciare la donna in un ruolo che essa ormai rifugge. E, in generale, implica di seguire una morale sessuale che i più oggi respingono come insostenibile. Anche i vegliardi che oggi pretendono di governare le nostre collettività religiose cominciano a capirlo e a farsene una ragione. Le famiglie di una volta, quelle con un mucchio di figli, erano spesso, del resto, luoghi di grandi sofferenze, specialmente nelle classi meno fortunate e in particolare nelle campagne, dove i preti contavano di più. Ridurre il numero dei figli per coppia ha consentito spesso di affrancarsi da una povertà che sembrava una sorta di destino fatale in molti settori delle nostre popolazioni. Ai tempi nostri avere più figli della media appare qualche volta come un lusso per pochi.  Ma è sbagliata, irrealistica, l’idea che i figli, pochi o tanti che siano, mantengano sempre la fede religiosa dei genitori. Questo accadeva in società diverse dalla nostra, in cui la religione era un importante fattore di coesione e di riconoscimento sociale e, soprattutto, una fonte di legittimazione del potere politico. E’ la situazione che ancora oggi vediamo nel Vicino Oriente e in Nord Africa: ad un europeo di oggi essa spaventa. Rappresenta il nostro medioevo. L’epoca in cui si poteva essere giustiziati per questioni religiose.  Ce ne siamo affrancati mediante un lungo e doloroso processo storico e non vogliamo tornare indietro. E’ stato questo il senso del movimento manifestatosi nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che ha nella nostra Azione Cattolica uno dei più accesi e attivi fautori.
 In questo ottobre abbiamo ripreso le nostre attività associative infrasettimanali. Nel riflettere sulle cose religiose, prendiamo atto e facciamoci carico di tutti gli aspetti della crisi che stiamo vivendo nelle nostre collettività, anche di quello che riguarda i nostri sacerdoti. E, innanzi tutto, dell’esigenza di ricostruire un collegamento vitale con settori più giovani della popolazione, a partire dalle nostre famiglie e dal nostro quartiere. Non diamo per scontato che ciò sia impossibile. Recentemente si sono aperte nuove opportunità. Molto è dipeso, effettivamente, dal nostro nuovo sovrano religioso. Ma le ragioni di questa nuova era della nostra storia religiosa sono naturalmente più complesse. Con estremo ritardo, le istanze degli europei contemporanei hanno cominciato ad essere considerate anche dai nostri capi religiosi. In qualche modo essi si sono sforzati di uscire da quell’atteggiamento autoreferenziale che in Italia è ancora loro consentito dal fiume di denaro pubblico che alimenta l’organizzazione del clero, a prescindere da un effettivo consenso dei fedeli. Anche loro sono gente molto anziana, costretta a reclutare all’estero il personale più giovane, perché i nostri giovani sembrano rifuggire il ministero religioso per come oggi esso è regolato. La situazione in cui ci troviamo è un oggettivo appello ai laici, quelli il cui campo di azione proprio è il mondo al di fuori degli spazi liturgici, perché si sforzino di ricostruire nuove mediazioni con la società in cui vivono. Sapremo provarci? Avremo la costanza e l’impegno di provarci? Troveremo, ad esempio, il tempo di migliorare la nostra formazione religiosa, senza limitarci a ripetere, in modo spesso sempre più approssimativo, quello che abbiamo imparato in anni lontani? Troveremo il tempo di leggere un po’ di più sulle cose della nostra fede, in modo da avvicinarci di più alla comprensione dei temi dei tempi nostri? O ci limiteremo a far riferimento sempre ai nostri sacerdoti per ogni cosa, non di rado entrando anche superficialmente in polemica con loro e pretendendo che ci risolvano questioni che invece sono di nostra stretta competenza?
 Penso che per soccorrere il clero nella sua crisi di oggi noi laici dovremmo farci meno clericali, meno clerico-dipendenti. Purtroppo per tanti anni quello della clerico-dipendenza è stato il modello apprezzato dai nostri pastori. Che però oggi non trovano nel laicato le risorse per motivare il loro ministero.
 Quest’anno sono stati innalzati sugli altari i tre nostri sovrani religiosi che hanno caratterizzato gli ultimi cinquant’anni della nostra storia religiosa. L’ultimo è, oggi, Giovanni Battista Montini, Papa della mia infanzia e adolescenza, la cui figura e il cui insegnamento ho capito purtroppo solo molto più tardi, in un’altra era della storia della nostra collettività religiosa. Una figura che è stata a lungo molto avversata, una persona molto vicina agli ideali della nostra Azione Cattolica, che anch’essa è stata molto avversata o, quanto meno, incompresa. Una persona che volle farsi carico della complessità della situazione degli europei contemporanei cercando nuove mediazioni. Nel corso del suo ministero si aprirono opportunità religiose che i suoi successori sfruttarono solo parzialmente. In particolare fu gravemente carente il ruolo del laicato italiano, che si estenuò in ricorrenti risse associative senza riuscire a sollevarsi alla posizione a cui era chiamato. Esso poi, nell’era successiva, si lasciò fascinare, sedare e silenziare in quello che ho chiamato modello polacco. Da ciò poi deriva la crisi che oggi ci travaglia e travaglia in particolare il nostro clero.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

domenica 5 ottobre 2014

Combattere il clericalismo


Combattere il clericalismo

 

 Una decina di anni fa, incontrai per l’ultima volta il prete che aveva sposato i miei genitori, che era anche un professore universitario, specializzato in storia della Chiesa, in particolare del periodo del primo Novecento, un’epoca assai travagliata per il cattolicesimo italiano, quella a cui risale l’istituzione dell’Azione Cattolica come oggi la conosciamo.
 Nel congedarmi dopo la visita, quel sacerdote mi puntò l’indice contro e mi ingiunse ad alta voce, per due volte “Mario, combatti il clericalismo!”. In quel momento una mia zia paterna ci scattò una fotografia, che ora conservo appesa al muro in una cornice, come un quadro. E mentre stavo andandomene, percorrendo il lungo corridoio verso la porta di caso, sentii ancora la sua voce ripetermi per la terza volta quel comando.
  Che cosa è il clericalismo? Esso si presenta sotto due aspetti. Per i chierici (diacono, preti, vescovi) e per i religiosi (frati e suore, monaci e monaci) significa considerare come unica e autentica espressione della nostra collettività religiosa solo chi viene dal loro ambiente e stile di vita, escludendo i laici. Per i laici significa una eccessiva dipendenza dai chierici, in particolare in ciò che rientra specificamente nell’autonomia del laico, vale a dire l’azione nella società al di fuori degli spazi liturgici. Il clericalismo è una colpa, un peccato sociale. Storicamente, infatti, ha causato, e causa ancora, molta sofferenza. In particolare mantiene il laicato in una condizione di dipendenza servile, in uno stato di ingiusta minorità, condizionando molto negativamente il suo apporto alla società del suo tempo, sfruttando a pieno le potenzialità delle democrazie contemporanea. Lo lega in modo improprio a una organizzazione feudale, quale quella del clero, anacronistica, obsoleta, incapace di cambiare veramente se stessa, impedendogli di stimolarla a un vero rinnovamento. Lo mantiene in un ruolo di semplice massa di manovra, di comparsa nei grandi eventi liturgici organizzati dal clero, di folla plaudente a comando.
 In Italia il clericalismo è fortissimo e, paradossalmente, diffuso anche negli ambienti di coloro che si definiscono “laici”, nel senso di “atei”. Solo in Italia si è infatti sviluppato il fenomeno che è stato definito come quello degli “atei devoti”, vale a dire di persone, anche di notevole cultura, che, pur dichiarandosi “atee”, prestano ossequio alla nostra gerarchia religiosa, totalmente espressa dal clero. Il clericalismo in Italia ha fatto e sta facendo danni sociali molto gravi. In particolare sta impedendo il pieno sviluppo dei diritti civili delle persone. L’altra settimana, sul settimanale che leggo abitualmente, è stata pubblicata una cartina nella quale, con diversi colori, veniva espresso il grado di progresso delle nazioni europee nel campo dei diritti civili. In quella cartina l’Italia aveva un colore diverso da quello delle altre nazioni dell’Europa Occidentale; aveva lo stesso colore di quelle dell’Europa orientale e della Russia. La responsabilità di ciò, che io considero una grave arretratezza culturale, grava su noi cattolici, e in particolare su noi laici cattolici italiani, per il nostro eccessivo clericalismo.
 Il clericalismo italiano non solo mantiene l’Italia in una condizione di sottosviluppo e di oscurantismo, ma impedisce anche un vero rinnovamento del clero, che possa creare nuove motivazioni all’impegno nel ministero sacro. Questo ha portato a una grave crisi delle vocazioni, che ai tempi nostri è particolarmente visibile per la scarsità di preti provenienti dall’Italia. L’impiego di clero straniero aggrava ancora di più la situazione, in quanto esso è ancora più dipendente dall’organizzazione clericale e sa troppo poco del contesto sociale e storico in cui viene inserito, acuendo in tal modo la separazione dal laicato.
 Ci si potrebbe aspettare che il clericalismo avesse le sue massime manifestazioni in una organizzazione come l’Azione Cattolica, legata statutariamente alla gerarchia del clero. Ma non è così. Essendo tutta protesa alla formazione di un laicato colto e consapevole, e in particolare all’attuazione del tipo di laico auspicato dai saggi del Concilio Vaticano 2°, capace di notevole autonomia nella società, l’Azione Cattolica è in realtà una delle principali sedi della reazione contro il clericalismo. Quest’ultimo infatti vive di colpevole dipendenza favorita da insufficiente conoscenza delle cose della fede.
 In Azione Cattolica ci si rende bene conto che non basta il catechismo.

 Scriveva in merito il filosofo e teologo Antonio Rosmini (1797-1855), nell’opera Le cinque piaghe della Santa Chiesa (1848):

“E però il popolo cristiano tanto meno intende e prende degli alti sensi che esprime il culto cristiano, quanto meno è istruito coll’evangelica predicazione. Di che Cristo volle che precedesse alle azioni del culto, l’insegnamento della verità; e prima di dire «battezzate le nazioni», disse agli Apostoli suoi «ammaestratele», La scarsezza adunque di una vitale e piena istruzione data alla plebe cristiana (alla quale nuoce il pregiudizio gentilesco messosi in molti, che giovi tenerla in una ‘mezza’ ignoranza, o che non sia atta alle più sublimi verità della cristiana Fede), è la prima cagione di quel muro di divisione che s’innalza fra lui e i ministri della Chiesa.

 Dico di ‘piena’ e di ‘vitale istruzione’; perocché, in quanto all’istruzione materiale, abbonda forse più in questi che in altri tempi. I catechismi sono nelle memorie di tutti: i catechismi contengono le formole dogmatiche, quelle ultime espressioni, più

 Semplici, più esatte, alle quali i lavori uniti insieme di tutti i Dottori che fiorirono in tanti secoli, con ammirabile sottigliezza d’intendimento, e soprattutto assistiti dallo Spirito Santo presente ne’ Concilii e sempre parlante nella Chiesa dispersa, ridussero tutta la dottrina del Cristianesimo. Tanta concisione, tanta esattezza nelle formole dottrinali è certamente un progresso…Una via sicura è tracciata, per la quale gl’istitutori possono far risuonare senza molto studio lor proprio, agli orecchi de’ fedeli ce istruiscono, i dogmi più reconditi e sublimi. Ma è poi egualmente un vantaggio che i maestri delle cristiane verità possano essere dispensati da un loro proprio e intimo studio delle medesime? L’essere la dottrina abbreviata, l’essere le espressioni, di cui essa si è vestita, condotte a perfezione e all’ultima esattezza dogmatica, e soprattutto l’essere immobilmente fisse e rese per così dire uniche; ha egli forse cagionato che siano rese alla comune intelligenza anche più accessibili? Non è forse da dubitarsi per lo contrario, che una certa moltiplicità e varietà di espressioni fosse un mezzo acconcio di introdurre negli animi della moltitudine la cognizione del vero, giacché una espressione chiarisce l’altra, e quella maniera o forma che non si acconcia ad un uditore, è mirabilmente accomodata ad un altro; in somma col chiamare in aiuto tutta per così dire la dovizia molteplice della divina lingua, non si tentano tutte le vie, non si premono tutti gli aditi pe’ quali la parola arriva negli spiriti degli ascoltatori? … Ma che? L’introduzione dunque moderna de’ catechismi è stata più di danno che di vantaggio alla santa Chiesa? Strano sarebbe, se ciò fosse, l’effetto arrecato da una istituzione che tanto prometteva considerata in se medesima”.

 

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente Papa – Roma, Monte Sacro, Valli.